L’ultimo Rossini: la Petite Messe Solennelle.

Gioachino Rossini ha dimostrato con la sua vita di essere una delle tante personalità genialmente ironiche, giocose e irriverenti che la storia ricordi (annovererei tra le altre F. Rabelais, E. Satie e R. Magritte).

Autore: Alessandro Panozzo

12 Marzo 2018
Il rischio però è quello di appiattire la complessa umanità dell’artista dietro una maschera della commedia dell’arte, dietro uno stereotipo dell’italiano solare, sempre e solo dedito ai frizzi e lazzi del divertimento e ai piaceri della buona tavola. La biografia dell’uomo Rossini ci parla di una personalità vivace sì, ma anche segnata da questa buffoneria farsesca, nonché provata per lungo tempo da una depressione che lo porterà addirittura sull’orlo del suicidio. Non che fosse di ascendente tetro, anzi! Il brio ironico e il gusto per i giochi di parole non lo abbandoneranno mai, nemmeno in vecchiaia; solo assumeranno un tono diverso, trasformandosi col tempo in constatazioni caricate di cinismo e di amara rassegnazione.

Per tutta la vita si considerò legato al passato, in particolare ai suoi modelli, Mozart e Haydn, epigoni del classicismo. Il successo delle prime opere e farse è strettamente legato alla sua naturale inventiva melodica e alla fervida copiosità produttiva: dote che dal 1810 fino al 1829, gli permise di produrre più di 40 opere e musiche di scena per il teatro. La sua carriera si ferma infatti con il Guillaume Tell, ultima fatica, costatagli un anno intero di meticoloso lavoro. Qui Rossini strizza l’occhio al gusto parigino che sta nascendo per il Grand-opéra, e che avrà in Meyerbeer il suo rappresentante maggiore. Tuttavia è una deriva romantica, intesa nel senso estetico e ideologico, che rimane estranea al suo lessico musicale: ne è testimonianza la lunghissima genesi. Rappresenta un tentativo, peraltro coronato dal successo, di inserirsi in un clima europeo che ormai sta notevolmente mutando.

Dal 1830 in poi gli animi dei popoli, frustrati dalla rivincita conservatrice della Restaurazione, alimentati dai nuovi ideali nazionalistici di cui anche il Romanticismo si fa portavoce, si animano in rivolte e ribellioni che sfoceranno nei moti del 1848 in Francia, in Italia, in Ungheria, in Prussia e in Germania. Rossini si identifica ancora in una mentalità ancien Régime (si definirà in seguito un vieux rococò): non lo toccano infatti gli ideali del Romanticismo, di cui si farà beffe, e tanto meno gli interessano le riscosse delle popolazioni oppresse: proprio per questa sua indifferenza verso le lotte di popolo – o meglio, scarso entusiasmo –, si sentirà costretto ad abbandonare l’Italia fino al giorno della sua morte, il 13 novembre 1868.


Scena della rivoluzione francese del 1848: “Lamartine rifiuta la bandiera rossa davanti il Municipio il 25 Febbraio 1848”, di H. F. E. Philippoteaux

Subito dopo il Guillaume Tell, Rossini si ritira definitivamente dalle scene musicali, convinto di essere ormai un uomo fuori tempo. Ritenendosi incapace di modificare il suo stile per piacere ai nuovi gusti opta per il silenzio. È prostrato e profondamente provato dall’intensità del ritmo compositivo, un ritmo frenetico e senza sosta che gli impone di scrivere due o tre opere nuove ogni anno (e in gioventù la produzione era di almeno sei farse!). Rossini ne esce distrutto, con un esaurimento nervoso che lo trascina in uno stato di indolenza fisica e mentale che durerà vent’anni. Subisce anche i primi dolorosi sintomi di quella malattia che lo accompagnerà per il resto della sua vita. In queste condizioni cerca pace e cure in Italia, sostenuto dalla seconda moglie Olympe Pélissier e dagli affetti dei suoi amici, ma l’instabilità politica, l’essere visto più come un reazionario contrario alla liberazione, rende tesa e spiacevole la sua permanenza. Stabilisce così di ritornare in Francia, nel 1855, e solo da quel momento comincia a ritrovare la tanto attesa serenità.

In tutto questo periodo non scrive più una nota, con l’unica eccezione dello Stabat Mater del 1841 e pochi altri pezzi, e non si interessa più delle sue opere, che pure continuano a riscuotere grande successo in tutti i teatri del mondo. Così ripiegato su se stesso si ritira nel passato, riscoprendo gli antichi modelli del contrappunto e della polifonia: rilegge Palestrina e si abbonerà all’edizione critica dell’opera completa di Bach, che diverrà d’ora in poi il suo pane quotidiano. Ritornato a Parigi, Rossini viene accolto calorosamente e festeggiato come un personaggio ancora molto amato. Napoleone III non manca di rendergli visita, sorprendendolo in veste da camera. Questi alle scuse del compositore risponde come un vecchio amico, rassicurandolo: «Fra noi regnanti queste cose non contano». Sentendosi finalmente il benvenuto Rossini recupera lentamente salute, e ritrova interessi e gusto per la vita sociale.

Gioachino Rossini ritratto da Nadar intorno al 1856: ha 64 anni.

Organizza serate mondane nel suo salotto che diventa un punto di riferimento per l’alta società e la vita culturale e artistica parigina. Attraversano la sua porta Delacroix, Doré (che canta anche bene, con voce da baritono), Dumas père, Gounod, Saint-Saëns, Liszt, Boito, Meyerbeer, Verdi, e Sarasate, invitati ai famosi samedi soir. Ideale punto di osservazione dei gusti cangianti e dei nuovi protagonisti, il suo salotto raccoglie il mondo e ne diventa vetrina per il vecchio Rossini. Per queste occasioni compone piccoli brani per pianoforte, destinati a intrattenere i suoi ospiti con titoli auto-ironici e riferimenti scherzosi, e che andranno a raccogliersi nei Péchés de vieillesse, i suoi “Peccati di vecchiaia”: debolezze senili che non volle fossero pubblicate in vita. È musica da camera, domestica, irriverente, prevalentemente destinata al pianoforte – presenza immancabile in ogni salotto buono – sia come solista (anche se Rossini si considerò sempre un pianista di “quarta categoria”), sia come accompagnamento alla voce, o a vari strumenti, quali potevano essere di volta in volta gli ospiti delle prestigiose serate. Sono occasioni frivole e scanzonate  per burlarsi delle mode, mettere in ridicolo un’estetica, e parodiare generi e stili, caricaturizzando o facendo il verso a illustri personaggi.

Il capolavoro di questo periodo però, è una musica che scrive solo per sé, intima e meditata, considerata suo testamento spirituale: è la Petite Messe Solennelle, finita di scrivere nel 1863, e destinata ad essere il suo «ultimo peccato di vecchiaia». Già nel titolo si apre a contraddizioni: è una messa piccola ma di ampio respiro, è solenne ma scritta per un ensemble ridotto ed insolito, costituito da due pianoforti, un armonium, coro e 4 solisti. Questa messa infatti è proprio petite per l’esiguo organico, e solennelle per la sua durata: Rossini musica tutto l’ordinario della Messa, in più aggiunge un Prélude religieux da suonare al pianoforte prima del Sanctus, e l’inno eucaristico O salutaris hostia. In quest’opera il vieux rococò dà prova di gran tradizionalismo, aderendo a tendenze conservatrici che guardano indietro ai grandi maestri, ma non riesce ad evitare importanti elementi di innovazione, che, forse, suo nonostante, lo collocano esattamente dentro la sua epoca, in un chiaro e preciso clima culturale.

https://www.youtube.com/watch?v=D0yBpdxxIt8&feature=youtu.be

È molto interessante e simbolico ciò che scrive nell’intitolazione della partitura manoscritta:

« Petite Messe Solennelle a quattro parti, con accompagnamento di 2 pianoforti, e di un armonium. Composta per la mia villeggiatura di Passy. Dodici cantori di tre sessi, uomini, donne e castrati, saranno sufficienti per la sua esecuzione. Cioè otto per il coro, quattro per il solo, in totale di dodici cherubini: Dio mi perdoni l’accostamento che segue. Dodici sono anche gli Apostoli nel celebre affresco di Leonardo detto La Cena, chi lo crederebbe! Fra i tuoi discepoli ce ne sono alcuni che prendono delle note false!! Signore, rassicurati, prometto che non ci saranno Giuda alla mia Cena e che i miei canteranno giusto e con amore le tue lodi e questa piccola composizione che è, purtroppo, l’ultimo peccato della mia vecchiaia.»

Contempla come “terzo sesso” la categoria dei castrati, virtuosi simbolo di un’epoca passata e ormai segnata al declino. Con l’applicazione del codice di derivazione francese, dal 1861 la pratica della castrazione venne definitivamente proibita nel neonato Regno d’Italia, e già da trent’anni i teatri hanno smesso di commissionare opere per queste voci troppo poco virili. Il pubblico cerca ora il tono eroico della voce di petto dei tenori, i ‘primi uomini’ incarnati dal francese Gilbert-Luis Duprez. Potrebbe non essere troppo azzardata la comparazione e il senso di affinità tra questi cantanti e il vecchio Rossini: entrambi stanno diventando figure obsolete e stanno venendo rimpiazzati da nuovi gusti. Esiste una toccante e rarissima incisione del Crucifixus, oggi destinato al soprano, eseguita dall’ultimo e unico castrato, Alessandro Moreschi, ad aver registrato la sua voce nel 1902.

La forma, la scrittura e i modelli di riferimento sono presi dal lontano passato: Palestrina riecheggia nel contrappunto canonico del Christe cantato sottovoce dal coro a cappella; Bach è presente come modello nel Prélude religieux, strutturato come se fosse un Preludio e Fuga preso dal Clavicembalo ben temperato, e traspare nella vivacità delle fughe Cum Sancto Spiritu e Et vitam venturi sæculi Amen. Eppure, nonostante questi tratti conservatori e tradizionalisti, è una Messa piena di innovazione. L’organico così povero risponde a un’esigenza di semplicità (i pianoforti, l’armonium, sono strumenti facilmente reperibili e allontanano l’esecuzione da una funzione propriamente liturgica), destina implicitamente la Messe a un’esecuzione salottiera, cameristica, non più “sacra”. La prima avvenne infatti in forma riservata nella cappella privata del conte Pillet-Will, alla cui moglie Gioachino dedica il lavoro. Timbricamente è una deliberata scelta anti-romantica: la povertà timbrica dei pianoforti, l’uso dell’armonium invece dell’organo, la richiesta di dodici cantori, idealmente paragonati ai dodici apostoli, riducono la tentazione al fasto elefantiaco e all’eccessivo intimismo patetico. Scelte che fanno pensare alle avanguardie primo-novecentesche e a concezioni estetiche del cosiddetto “neoclassicismo”, ma era anche una prassi della tradizione francese dell’epoca scrivere l’accompagnamento per piano e armonium della messa. È evidente che non pensava affatto a pubbliche esecuzioni: è musica scritta per sé, «per la sua villeggiatura di Passy»: un paesino poco fuori Parigi, dove si era fatto costruire una villetta per il soggiorno estivo. Pensando solo al suo gusto allora Rossini si spinge anche a sperimentare e a giocare con audacità armoniche e cromatismi, elementi dalla musique de l’avenir che Wagner in quegli anni stava portando nei teatri con Tannhäuser (1845), Lohengrin (1850), Tristan und Isolde (1865) e la Tetralogia. Nelle sue serate parigine non solo i giovani nomi della musica hanno un palcoscenico esclusivo dove potersi esibire e farsi conoscere, ma Rossini diventa spettatore e recettore privilegiato dei nuovi stili e delle ultime novità, e quindi è mantenuto aggiornato sulla temperie culturale. Venne spinto in seguito a scriverne l’orchestrazione, che completerà nel 1867, ma solo affinché la sua musica, a cui ha lavorato «con vero amore di religione», non cada nelle mani di “Monsieur Sax e i suoi amici”, i quali: «con il suo sassofono, o Monsieur Berlioz con altre mostruosità della moderna orchestra, strumenterebbero la mia Messa uccidendo i miei poveri pochi cantanti».

Una leggenda, probabilmente apocrifa, narra di un possibile incontro avvenuto nel 1822 a Vienna tra Rossini e Beethoven. Rossini avrebbe tanto insistito nel volerlo conoscere che quando finalmente ottenne da un amico il permesso, sarebbe rimasto profondamente impressionato dallo stato di indigenza e profondo abbandono in cui versava un artista così apprezzato ed eseguito nell’alta società viennese. In questa occasione avrebbe avuto modo di scambiare con lui qualche opinione, e Beethoven avrebbe rivolto a Rossini il consiglio di dedicarsi esclusivamente all’opera buffa:

«Non cercate di far altro che opere buffe: voler riuscire in un altro genere sarebbe far forza alla vostra natura.»

Se davvero sia avvenuto questo incontro (non esistendo delle prove certe, ma solo aneddoti), possiamo soltanto supporlo, e immaginare che questo consiglio riecheggi in calce nella sua ultima pagina dell’opera. A conclusione dell’Agnus Dei, scrive:

«Buon Dio, eccola terminata questa povera piccola Messa. È musica benedetta [musique sacrée] quella che ho appena fatto, o è solo della benedetta musica? [sacrée musique] Ero nato per l’opera buffa, lo sai bene! Poca scienza, un poco di cuore, tutto qua. Sii dunque benedetto e concedimi il Paradiso.»

È un Rossini che da anni affronta faccia a faccia la morte. Con lucidità e riconquistata leggerezza, benedicendo Dio, si ricorda delle sue origini, e, con la sua consueta ironia, si chiede se abbia fatto della musica sacra o della “benedetta” musica, una musica che fa alzare gli occhi al cielo – ma per altri motivi… Riconsiderando l’antico consiglio del tedesco, non si cura più se abbia forzato o meno la sua natura, se nelle sue opere serie sia venuta meno l’ispirazione artistica, o se ne si avverta la carenza nelle opere religiose. Si accetta puramente per quello che è: «Peu de science, un peu de cœur, tout est là.» O semplicemente sembra suggerire che Beethoven potesse avere torto.

 

Alessandro Panozzo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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