Sesto Quatrini
di Filippo Simonelli - 26 Novembre 2019
il senso della direzione d’orchestra
Sesto Quatrini è uno dei direttori più in vista della sua generazione. Cresciuto come trombettista, si è avvicinato per curiosità al mondo della composizione, restandone rapito, spostandosi poi in maniera naturale alla direzione. “Il direttore d’orchestra, per me, ha una funzione quasi politica” spiega. “Ho ritenuto di poter fare il direttore quando ho capito di riuscire a reggere facilmente la tensione generata dall’avere difronte 200 persone che compongono il microcosmo di una produzione operistica.” L’Opera, soprattutto il repertorio verdiano e quello belcantistico, è diventata il suo terreno di caccia. Oggi è direttore artistico e musicale dell’Opera di Vilnius, in Lituania, e dirige stabilmente in alcuni tra i più importanti Teatri Europei come il Maggio Musicale Fiorentino, La Fenice di Venezia, l’Opera di Francoforte, la Deutsche Oper di Berlino, il Capitole de Toulouse…
…Ma ora partiamo dal principio. Da dove viene la tua formazione musicale?
Ho iniziato a studiare musica perché la mia famiglia, di estrazione medio-borghese, riteneva che l’educazione musicale dovesse andare di pari passo con quella sportiva per rendermi più completo. Sono partito dalla scuola del mio paese di origine, Ronciglione, suonando la tromba. Mio padre riteneva che a quattro anni forse non fosse la cosa migliore per me partire da uno strumento come il pianoforte, così scuro, immobile, triste. Per certi versi ritengo che abbia fatto bene, anche perché ho visto poi gli effetti psicologici che l’inizio precoce ha avuto su molti altri pianisti. E poi c’era anche il fattore banda: a Ronciglione c’è una banda di paese che mi offriva una grande possibilità di avere una crescita culturale. E poi di Ronciglione è originario Sandro Verzari, probabilmente il più grande trombettista della storia d’Italia, autore del celebre metodo Verzari edito dalla Ricordi su cui credo abbiano studiato i rudimenti tecnici più o meno tutti i trombettisti del mondo. Per noi era un mito: il figlio del calzolaio di paese che ce l’aveva fatta, che era diventato prima tromba dell’orchestra della Rai, diretto da tutti i più grandi del mondo. Mi sono diplomato abbastanza presto con la tromba, a diciassette anni, studiando da privatista proprio con Sandro, e poi ho intrapreso la strada della composizione per soddisfare la mia sete di curiosità musicale: purtroppo il cursus studiorum di un musicista a fiato è molto scarso dal punto di vista dell’armonia, della cultura generale e della storia della musica. Ero molto frustrato dal fatto che, ad esempio, gran parte del repertorio per tromba che amavo, come Jolivet, Hindemith, Tomasi, fosse al di là delle mie capacità di comprensione. Per me, questa carenza era diventata una questione personale. Dal momento che l’insegnante che mi aveva seguito sia per storia della musica che per armonia era un grande musicista, Sergio Prodigo, avevo iniziato a percepire la sua vicinanza come un grande stimolo. Per noi allievi era un vero pozzo di scienza, capace di manipolare la materia musicale dai primordi dell’etnomusicologia fino alle espressioni più estreme della contemporaneità. Mi sentivo quasi umiliato, piccolo, piccolissimo di fronte a “cotanto senno”. Così ho iniziato a studiare le basi della composizione con lui, con l’intento di arrivare a capire, con un livello da quarto o quinto anno, quello che succedeva attorno a me trombettista. I primi anni infatti non riuscivo a vergare una nota che non fosse un esercizio, avevo un vero e proprio blocco, ma mi piaceva tantissimo, tanto che proseguì. E Sergio Prodigo, per farmi superare questo blocco, mi costruì un corso di composizione su misura, partendo dallo strutturalismo e dalla dodecafonia arrivando fino al madrigale rinascimentale e alle forme modali della musica. In pratica studiai composizione al contrario, ma così mi sbloccai, ed iniziai a scrivere a rotta di collo e a vincere i miei primi concorsi, sia interni che esterni al Conservatorio de L’Aquila. La vena creativa sembrava non esaurirsi mai, neppure gli esami più difficili come contrappunto e fuga mi spaventavano. La mia musica iniziò a girare nell’ambiente e, per quanto fossi ancora uno studente, ero apprezzato.
Ma a un certo punto, il sentiero della composizione si è trasformato nel viale della direzione d’orchestra…
La svolta arrivò a Reggio Emilia, quando diressi un mio Settimino intitolato Contrappunto, che era destinato ad un’incisione discografica, e tutti miei amici mi iniziarono a solleticare con l’idea della direzione. Chiaramente avevo sempre saputo di voler dirigere, in fondo, perché volevo essere demiurgo dell’interpretazione sopra ogni altra cosa. E quell’occasione mi fece capire che era quella la strada che volevo prendere. Mi sono iniziato a porre quella che poi è diventata la questione principale del mio modo di dirigere: cosa fa un direttore d’Orchestra? Ma soprattutto, dove inizia e dove finisce la sua libertà? E la risposta è che si trova tutta nella partitura, c’è già lì, scritta. Ci sono momenti, che siano sinfonici o d’Opera, in cui non c’è alcuno spazio, in cui anzi sei tenuto a comportarti come uno sprone per l’orchestra a comportarsi esattamente come il compositore ha scritto. Ci sono poi invece partiture in cui i gradi di libertà interpretativi sono sempre maggiori, fino ad arrivare alla totalità di quelle aleatorie, che però reputo meno interessanti. Ma le vie di mezzo esistono: ad esempio, nelle Opere di Puccini si può trovare tanto un’indicazione puntuale come 98 alla semiminima, che non lascia scampo, quanto un “Allegro appassionato”. E allora a quel punto mi pongo il problema di quanto debba essere appassionato quell’allegro, se non addirittura quanto allegro! Lo decido io, alla fine, anche in base al tipo di orchestra, che predisposizione degli interpreti… l’interpretazione non può essere sempre identica, ma è un bene che sia così.
Da un lato volevo interpretare, e dall’altro credevo anche di poterlo fare, di avere la stoffa e le qualità “politiche” per stare in piedi di fronte ad un’orchestra di 100, 200 elementi, e riuscire a convincerle o ad imporre, se necessario, la mia visione. Un direttore d’orchestra che non abbia questa capacità di leadership non può fare quel mestiere, non può non avere una buona dose di faccia tosta e di avere persino delle manie di protagonismo, senza però poter rinunciare ad una capacità di leggere ed analizzare fino al fondo la partitura nei più minimi dettagli.
Perché le due strade non sono proseguite in parallelo?
Credo che dipenda dalla mia predisposizione: purtroppo sono molto scientifico in tutto quello che faccio, ho un approccio totalizzante, e quindi dubito che riuscirei a fare entrambe le cose con la serietà che richiedono. In questo momento, a partire da gennaio, ho già volato in giro per il mondo più di 60 volte, lavorato a 14 produzioni operistiche, di cui 10 debutti, e 5 sinfoniche, con le relative prove. Ho anche una vita privata che va coltivata, quindi con una serie di impegni del genere dovrei mettermi a scrivere nei ritagli di tempo. E questo sarebbe poco professionale, perché la composizione richiede uno svuotamento totale delle proprie idee che devono essere gettate su carta. Chiaramente in futuro vorrei tornare a scrivere, lavorando ad un ciclo di concerti per strumento solista e coro, senza orchestra, oltre ad altri lavori operistici, ma in questo momento, con il tipo di carriera che faccio e con le ambizioni che coltivo, non sarebbe una cosa seria.
Sfogliando l’elenco delle produzioni e dei concerti sinfonici a cui lavori però spicca la mancanza di musica contemporanea. Una scelta inusuale per un musicista con una formazione compositiva così completa.
La carenza di musica contemporanea nei programmi che dirigo è figlia di due motivi principali: anzitutto non ho la direzione musicale di nessuna delle orchestre con cui lavoro; se fossi il direttore principale di un’orchestra a cui poter dedicare otto, nove programmi l’anno, darei molto più spazio alla tantissima musica sinfonica contemporanea che arriva ogni giorno, a differenza di quella d’Opera, che non solo scarseggia ma viene anche affidata pressoché solo agli specialisti del settore. In Italia in particolare di produzione d’opera contemporanea se ne fa poca: io amo molto la musica di Marco Tutino per esempio, o il lavoro di Marco Taralli, ma anche qui le produzioni sono talmente poche che alla fine la torta da dividere è veramente ridotta. Figuriamoci se non mi piacerebbe dirigere un’opera di Tutino! Ma magari ci sono solamente produzioni che vengono ripetute una volta ogni quattro anni e in cui, anche per ragioni di tempo, si tende a richiamare lo stesso direttore che ha già lavorato a quella musica alla sua prima esecuzione.
Con una sola grande eccezione: la musica di Fabio Massimo Capogrosso.
Fabio Massimo Capogrosso rappresenta un’eccezione nel mio repertorio, ma si tratta di un caso ben particolare con una storia molto diversa. Ci conosciamo dai tempi degli studi e siamo cresciuti insieme. Io credo nella sua musica perché ho diretto più o meno tutto quello che ha scritto prima che diventasse famoso e continuo a farlo adesso, perché la sua musica è bella da ascoltare, bella da suonare e da dirigere, anche facile per certi versi. È musica contemporanea in quanto pensata per la contemporaneità, non solo per il linguaggio. Nell’opera di Fabio si trova forte la presenza di Bartòk, fortissima quella di Stravinskij e di altri compositori russi come Schnittke, ma anche molta musica contemporanea americana come Torke, Adams, Glass. Un compendio di quello che di meglio la musica contemporanea offre oggi, unita da un’attitudine ritmica, incalzante. E poi al pubblico piace: ogni volta che ho diretto la sua musica, il pubblico era rapito. Io ci credo, sono felice di dirigerla e sono onorato di poterlo fare e di essere anche il dedicatario del suo nuovo brano Città Nascoste. Il fatto che uno dei più importanti compositori viventi scelga di farti un regalo del genere per me è già un premio alla carriera, enorme.
Si tratta, però, di una carriera che muove da tempo passi molto sicuri, che ti hanno portato dal centro Italia fino a Vilnius, uno dei confini estremi dell’Europa musicale. Probabilmente agli antipodi, musicalmente parlando, con l’Italia. Come si lavora in un ambiente del genere?
È difficile lavorare da italiano con un’orchestra del genere per molti e svariati motivi. Sono molto fortunato ad occupare la posizione di direttore artistico, il che mi offre la grande opportunità e responsabilità di scrivere le stagioni e poter pianificare la crescita e lo sviluppo del teatro sotto tutti gli aspetti. Avevo già avuto esperienze in passato a Vilnius, dove diressi un Gala operistico con la diva lettone Kristine Opolais che fu un grande successo. Dopo questo debutto mi era stata subito proposta una nuova produzione de I Capuleti e i Montecchi da Direttore ospite. Non è stato facile all’inizio, anche perché il grande problema che avevo da subito riscontrato era l’assenza di uno strutturato e consapevole stile belcantistico sia nel canto che nell’accompagnamento, sia nei solisti dell’ensemble e nel coro che nell’orchestra finanche nel pubblico stesso. È una problematica oggettiva che si riscontra in tutto il blocco ex-sovietico, che comprende tutto il mondo che un tempo si sarebbe detto al di là della cortina di ferro. Una grande differenza che genera non poche difficoltà è spesso di natura tecnica: gli archi di scuola sovietica suonano con un virtuosismo spaventoso nei passaggi di velocità e di bravura, ma difettano sovente di eleganza negli accompagnamenti, quell’andamento morbido e fluido tipico del repertorio italiano che serve quasi ad assecondare di più quel che succede sul palco, la solarità di un suono che deve sempre possedere brillantezza insieme ad un lirismo e una fluidità continui, particolarmente nei repertori italiano e francese.
Anche ottenere pianissimi quasi inascoltabili nella loro delicatezza, come le otto p dell’Otello verdiano o i delicati ripieni d’archi nelle arie più dolci di belcanto. La muscolarità unita ad un eccesso di furore alla ricerca costante di un grande volume sia in orchestra che nelle voci rischia di mettere a repentaglio gli aspetti più intimi di un certo tipo di repertorio che per noi italiani è piuttosto naturale, quasi ovvio.
Lo stesso vale per la verticalità dell’accentazione, e così via per tanti altri parametri musicali.
Mi sono ritrovato immerso nella sfida straordinaria di creare un suono nuovo, un approccio diverso alla materia musicale, al servizio della musica stessa e del senso più alto del teatro che risiede nell’artigianato puro. Direttore artistico e musicale in un Paese straniero ricco di cultura e storia ma che allo stesso tempo era molto lontano da me, sotto tanti aspetti, non ultimi quello climatico e quello enogastronomico, prima ancora che musicale. Ho dato il via ad una piccola “rivoluzione” musicale anche grazie alla totale fiducia che mi è stata accordata a partire dal sovrintendente arrivando fino a l’ultimo lavoratore del Teatro. Devo dire che pur nella difficoltà iniziale, oggi, ci stiamo togliendo grandi soddisfazioni.
Perché c’è tanta musica, in ogni caso.
Esattamente: il blocco dei Paesi Baltici è abitato da circa sei milioni di persone, cionostante ha dato i natali ad una quantità spaventosa di compositori, direttori ed interpreti di caratura mondiale. Pensiamo ad Arvo Pärt, Gražinytė-Tyla, Gidon Kremer, Ciurlonis, Mariss Jansons, Andriss Nelson, gli Jarvi, Asmik Grigorian… Quello che è bello poi è il loro amore per la modernità, il teatro contemporaneo, le regie moderne. Oggi, grazie a questa enorme passione per l’arte e alla loro capacità di scommettere moltissimo, il teatro di Vilnius sta diventando un teatro centrale per l’Europa, basti pensare che il nostro Teatro coproduce con partners quali il Met, Toronto, Teatro Real di Madrid, Opera di Roma, Bayerische Staatsoper di Monaco, La Monnaie di Brussels, etc… da ex periferia dell’Impero stiamo assumendo un ruolo più centrale nell’Europa Musicale, ed è motivo di grande orgoglio per me essere parte di questo processo di crescita e sviluppo in un Paese che tanto ha dovuto soffrire nel secolo scorso.
Accanto alle produzioni più “celebri”, spicca nel tuo repertorio la presenza di alcuni pezzi remoti, quasi sconosciuti o comunque dimenticati dalla storia: “Romeo e Giulietta” di Vaccaj, “Ecuba” di Manfroce, ma anche il giovane Verdi di “Un giorno di regno”. Tra questi titoli il trait d’union è quello di essere stati riproposti dal Festival della Valle d’Itria. Come si affronta la riscoperta di questi titoli e come le si porge al pubblico?
Poter dirigere un’opera rara o comunque dimenticata dalla storia è un privilegio che accade a pochi. Nel mio caso è diventata una cifra importante, forse la più costante e fruttifera della mia carriera, grazie ad Alberto Triola, che, primo tra tutti ha scommesso su di me affidandomi il debutto operistico italiano assoluto con Un giorno di regno di Verdi e proseguendo poi con i capolavori di Vaccaj, Mercadante, Manfroce, ed altri. Tutto nacque dal Maestro Fabio Luisi che mi scelse come suo assistente portandomi al Festival della Valle d’Itria e subito dopo al Met. A Luisi e Triola devo tutto ciò che sono ora.
Il Festival che si svolge a Martina Franca lo considero il più importante palcoscenico al mondo per ciò che concerne il repertorio del Belcanto raro, anche perché lì, ormai da cinque decenni,
si concentrano i più grandi specialisti di tale repertorio, i quali custodiscono e tramandano con cura i segreti interpretativi e le prassi esecutive corretti.
Approcciare quei titoli è senza dubbio una sfida avvincente e complessa che pone il direttore d’orchestra più che mai al centro di veri e propri processi demiurgici. Il direttore deve non solo dirigere una recita e quindi solisti, orchestra e coro, ma più precisamente partecipare in comunione con i propri collaboratori alla rinascita di un titolo, ad una nuova prima, un nuovo debutto, ad un processo creativo, arrivando a scrivere le variazioni, aggiustando l’orchestrazione, intervenendo su materiali spesso lacunosi, ricomponendo se necessario.
Il valore aggiunto in un titolo da riscoprire è certamente quello di fungere più che mai da tramite diretto tra il compositore e la partitura, tra il passato e il presente, potendo influenzare sensibilmente il pubblico che ascolterà verosimilmente quella musica per la prima volta. Un grande onere e un incalcolabile onore.
Vorrei proseguire sulla strada intrapresa in questo meraviglioso mondo delle riscoperte che mi ha dato enormi soddisfazioni e anche successi impensati e vorrei farlo ancora a Martina Franca.
Con un’agenda così fitta, c’è ancora spazio per “la produzione dei sogni”, un’opera su cui brami di poter posare la tua bacchetta?
Fino a poco tempo fa ti avrei detto che il mio sogno era Norma, ma ho da poco ricevuto una telefonata che sta trasformando questo sogno in realtà, anche se non posso dire da dove… poi chiaramente mi piacerebbe lavorare al Ring, addirittura volendo esagerare mi piacerebbe metterlo in scena in un’unica giornata, anche se mi rendo conto che sarebbe una follia; più che altro, non mi ritengo ancora abbastanza maturo, anche se è un repertorio che mi è congeniale. Sul versante sinfonico, sognerei di poter fare dei cicli, che pure oggi vanno per la maggiore: vorrei partire con un ciclo Schumann o un ciclo Brahms, forse il mio compositore preferito, quello capace di tirare fuori i lati più reconditi della mia personalità. Per coronare il tutto, chiaramente sognerei di riuscire a dirigere tutta l’opera di Verdi e di Puccini, da qui a dieci anni.
Filippo Simonelli