Andrés Segovia: l’arduo compito di essere il grande interprete

La sottile linea tra scelte estetiche e condizioni imposte dallo strumento

Autore: Andrea Corongiu

9 Novembre 2016

Andrés Segovia, classe 1893 nato a Linares, piccola cittadina andalusa dove morì Manolete, è stato genuinamente etichettato il chitarrista classico per eccellenza, quindi ritenuto un punto di riferimento da tutti gli interpreti venuti dopo di lui.
In un’epoca di difficili condizioni nella quale il sistema dei conservatori tardava ad incorporare uno strumento tenuto ai margini delle piccole sale borghesi come la chitarra (ricordiamo che la prima cattedra onorifica nel conservatorio di Madrid venne aperta soltanto nel 1935 e consegnata a Regino Saiz de la Maza), Segovia iniziò a studiare un po’ di solfeggio e armonia in maniera autodidatta (Segovia Andrés, An autobiography of the years 1893-1920. New York: Macmillan pubblishing Co., 1976) sufficientemente per andare in contro agli aspetti teorici e tecnici di un repertorio inizialmente legato alla tradizione ma che presto si sarebbe avviato verso nuovi e vergini sentieri.

Grazie alla sua spiccata personalità, egli era sicuramente un personaggio carismatico e con un forte estro, al suo talento artistico, alle sue richieste e commissioni, Segovia ricevette dediche artistiche da una lunghissima lista di compositori della sua generazione. Una delle sue più prolifiche collaborazioni è stata certamente quella con il compositore messicano Manuel Maria Ponce il quale gli dedicò opere come i Preludios, la Sonatina meridional, la Sonata clàsica, la Sonata romantica e molte altre, tutte intimamente documentate dall’epistolario che compositore e interprete mantenevano costantemente. Tanti altri compositori novecenteschi dedicarono opere alla chitarra e scrissero per lui. Alcuni dei più noti sono sicuramente stati: Mario Castelnuovo Tedesco, Federico Moreno-Torroba, Alexandre Tansman, Jaime Pahissa, Lennox Berkeley, Gaspar Cassadò, Joaquin Turina, Federico Mompou, Fernande Peyrot, Hans Haug, Ignace Strasfogel etc. Erano tutti grandi professionisti che per la prima volta si avvicinarono alla scrittura per le sei corde, dopo quel famoso Homenaje di Manuel de Falla del 1920 che certamente diede una forte scossa motivante per le menti creative e mise in risalto le possibilità di uno strumento per anni relegato ai piccoli saloni, intimi ed elitari, validi sotto un punto di vista artistico però lontani dall’attenzione di una grande udienza totalmente concentrata su altri scenari, per moda o abito sociale.

Certo è che la competizione fra la chitarra, gli altri strumenti e i repertori agli albori del Novecento, era decisamente difficile: da un lato c’erano il pianoforte, elemento di arredo di tutte le case aristocratiche nonché simbolo di potenza in una visione estetico-sociologica, e il Sinfonismo con la sua immensa struttura dominata dal genio creatore, e dall’altra parte la chitarra, intima, solitaria, allo stesso tempo evocatrice e dalla tavolozza timbrica ben più che amplia. Proprio questi ultimi elementi furono, e sono tutt’ora, i pro e i contro delle sei corde in sé che furono fondamentali per affascinare e infine motivare i compositori professionisti del ‘900 nell’investigazione e nella sperimentazione di questo strumento. Fu così che opere del repertorio novecentesco per chitarra sola si fecero largo all’interno delle grandi sale da concerto europee e internazionali con un ambasciatore come Segovia, imponendo un gran salto in avanti per quanto concerne la ricerca timbrica, la scrittura, lo sviluppo dei materiali e quindi conseguentemente per i ricorsi tecnico-meccanici dell’interprete. I tempi però, sotto questo ultimo punto di vista, non erano forse ancora maturi: le capacità e le esigenze tecniche che i nuovi compositori iniziarono a pretendere nella loro musica, erano ben più alte rispetto a ciò che erano in grado di offrire gli interpreti. Questi dovettero nella maggior parte dei casi correre ai ripari selezionando i programmi e il repertorio non tanto con criteri estetici o artistici, bensì in base alle proprie capacità e limiti tecnico-meccanici in loro possesso.

Ma la caparbietà spinse Segovia un passo più avanti rispetto ai suoi colleghi musicisti contemporanei; molti dei brani originali per chitarra sola inseriti all’interno dei suoi programmi da concerto vennero riadattati e semplificati da lui stesso pur di averli in repertorio, garantendo così che tali opere iniziassero ad avere un poco di diffusione e riconoscimento, oppure inserendo nei suoi programmi da concerto le ormai note trascrizioni derivanti dalla letteratura della tradizione di altri strumenti, dove primeggiano certamente le opere di Johaan Sebastian Bach o quelle non meno conosciute di Isaac Albéniz, adattate per chitarra dallo stesso Segovia. Certamente tale primato non appartiene a Segovia e prima di lui altri chitarristi-compositori iniziarono a lavorare su repertori provenienti non dalle sei corde ma da altri strumenti o repertori più apprezzati a cavallo tra Ottocento e Novecento. Stiamo parlando di Julian Arcas, Francisco Tàrrega, Antonio Cano e i loro studenti, i quali puntarono una buona parte del loro repertorio sulle trascrizioni, forse con l’intento di mettere in evidenza le capacità della chitarra, in grado anche di emulare ed evocare altri strumenti e cercando quindi di mettersi alla pari con questi per arrivare così ad un pubblico più numeroso attraverso temi più noti quali arie operistiche, canti popolari e danze, minuetti e scherzi di brani pianistici di compositori come Beethoven, Berlioz, Chopin e altri.

Certe trascrizioni però furono un’arma a doppio taglio: alte pagine del cosiddetto repertorio segoviano vennero grossolanamente adattate ad personam in base a ciò che l’interprete voleva e poteva fare. Niente di male se limitassimo il fatto ad una determinata epoca ed esigenza; il problema emerge quando le generazioni successive a Segovia portano avanti un discorso ormai vecchio e ridondante, continuando ad armeggiare spartiti come il loro ego vuole, e non mettendo al servizio della musica la propria tecnica e conoscenza ormai ben evoluta. Oggi quindi un modus operandi di quel genere dovrebbe essere obsoleto e superato non soltanto dal punto di vista tecnico-meccanico ma anche da quello estetico e infine musicologico. E’ indubbio che nessuno in quei giorni avrebbe accusato Segovia di piegare il repertorio a suo favore, però oggi è doveroso far luce sui manoscritti originali e rispettare la partitura e l’idea del compositore nei limiti del possibile. Se Segovia ebbe il diritto, il dovere e le capacità di agire nel miglior modo possibile per convincere sé stesso, i compositori ed il pubblico sulla musica per chitarra, oggi altri dovrebbero essere i mezzi per quello stesso fine.

Eclatante esempio di intervento non tanto chirurgico è la Fantasia Sonata di Joan Manén che venne brutalmente amputata e rattoppata in più parti da Segovia che in ogni caso riuscì a fare un lavoro degno e un’interpretazione meravigliosa. Questa Sonata è l’unica opera ciclica del repertorio chitarristico [(Adagio), Allegro con spirito, adagio quasi come un recitativo, Allegro, (Adagio)], e di una eccelsa qualità artistica, gran eleganza e ingegno compositivo. Testimonianza diretta dell’amputazione è il manoscritto con doppio pentagramma in cui nella parte alta è presente la versione del compositore catalano depennata dall’interprete nei passaggi da modificare, mentre nel rigo inferiore è presente la revisione apportata e interpretata da Segovia. Per chi non fosse al corrente delle due versioni ricordiamo che la prima è stata pubblicata dall’editore Schott nel 1930, mentre la seconda dalla Editoriale Berben con revisione di Angelo Gilardino; il Maestro piemontese dovette riscrivere vari passaggi tenendo ben presente il Divertimento, versione della Fantasia Sonata riscritta e notevolmente arricchita dallo stesso Manén per una nuova dimensione orchestrale.

Nei seguenti link inoltre potrete ascoltare le due diverse revisioni, la prima è quella di Segovia, interpretata da Segovia, (https://www.youtube.com/watch?v=NAGk6R_p_nM), mentre la seconda è quella di Gilardino, interpretata da Cristiano Porqueddu (https://www.youtube.com/watch?v=RWARlRjY9fo).

Forse le modifiche di Segovia apportate al brano possono definirsi filologicamente incorrette se le decontestualizzassimo da un’epoca concreta, fatte da un interprete e confezionate ad hoc per il suo strumento, con tante scorciatoie e camuffamenti. Ma ricordiamo che i compositori che per lui scrissero non erano chitarristi e tal volta poteva accadere che alcuni passaggi concettualmente validi non lo fossero altrettanto una volta che essi dovevano essere codificati sullo strumento, diventando quindi ostici per l’interprete. Quindi quest’ultimo, delle volte diveniva un “compositore imbavagliato” (come Angelo Gilardino definì Segovia) modificando quei difficili passaggi per renderli scorrevoli e attuabili sullo strumento, mentre delle altre agiva in qualità di revisore cambiando poche cose come la distribuzione delle note all’interno di un accordo, o apportando concrete digitazioni derivate da una determinata ricerca timbrica o di conduzione delle voci. Il gran lavoro di revisore è certamente testimoniato dalle missive tra M.M. Ponce e Andrés Segovia, compositore ed interprete, nelle quali destinatario e mittente lavorano insieme ai brani in corso d’opera, come se esse siano state composte a quattro mani; da una parte la mente creatrice del compositore messicano, dall’altra le sapienti mani di Segovia che adattavano a lui, al suo strumento e alla sua estetica dei concetti musicali di un compositore che senza ribellarsi lo permetteva. Alto era il rischio per molte di quelle pagine musicali di cadere nel dimenticatoio, per scelta estetica o per condizione tecnica, chiuse in qualche polverosa cassa di quello che divenne l’archivio municipale A. Segovia nella città di Linares, che è stato finalmente aperto agli studiosi nel 2001. Angelo Gilardino fu colui che ebbe l’arduo compito di far luce e riscoprire una grande letteratura chitarristica del Novecento che si riteneva ormai perduta dai tempi della Guerra Civile Spagnola, quando Segovia dovette abbandonare la sua patria.

Ecco quindi che se volessimo parlare di un rinascimento della chitarra, a mio avviso quello fu il momento; quando quelle casse riemersero dalle tenebre, quando quegli spartiti vennero nuovamente interpretati, quando quelle pagine mai suonate, perché lontane dall’estetica segoviana o dalle sue capacità tecniche furono riportate alla luce e poterono finalmente prendere forma nella chitarra attuale, in un diverso contesto, in una diversa epoca.

Andrea Corongiu

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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