Leopardi, la musica, il principio del mondo

Che rapporto lega Leopardi al suono? Che significato hanno le continue voci musicali che si incontrano nei Canti del poeta?

Non la posso dimenticare la prima volta che ho mangiato la parmigiana di melanzane della signora Antonia. Finito il pasto, dopo liquori e caffè, la vecchina, anche grazie ai miei acuti e insistenti complimenti, mi ha detto di tornare presto, ché un po’ di compagnia la domenica fa sempre piacere. Così non ho potuto indugiare: la settimana successiva ero lì, tutto predace, vago d’un lieto avvenire. M’ero abbandonato, nel corso dei giorni che mi separavano dalle melanzane fritte, a chimere suadenti e creative: esse della sacra pietanza dipingevano forme sempre nuove, onde fumido il sipario palesavami l’indorato plateau. Non certo, di già, al secondo incontro d’amore si smentì la parmigiana, per carità; tuttavia… il terzo, poi il quarto (eppure la ricetta era la stessa, e la cuoca: identico il grembiulino a fiori). Quindi infine giunse il quinto: non potei non constatare come esso non fu altro che un penoso deludente ritrovo. Cos’è che congelò la malia, quale scellerato mise in sordina la benedetta armonia di sapori? Perché quel dì – a che tanto dolore? – lasciarsi inviscerare dai sughi caldi stillanti olio giammai non fu come l’insuperabile prima, delle tante certamente la volta migliore?

Premessa

Che orrore, forse qualcuno sta pensando, cominciare un articolo sul conte Giacomo Leopardi con immagini tanto materiali; e poi, questa, che sarebbe dell’ironia? Due brevissime annotazioni mi saranno concesse come introduzione (o apologia dell’inserto culinario). Primo: Leopardi è stato capace, anche, di colorire le proprie pagine di un’abbondante quota di deliziosa ironia, riconoscendo egli stesso proprio nel riso – per dirla con Emilio Russo – «un sigillo di dignità, di nobiltà». Annota tra i Pensieri il poeta: «Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire». Secondo: l’autore dell’Infinito, ciò è assai noto – così spero mi sarà definitivamente perdonata l’intromissione della parmigiana –, fu un appassionato buongustaio: si ricordi l’amabile A morte la minestra, scritta a undici anni, o la lista, stilata a Napoli, dei quarantanove cibi da lui particolarmente apprezzati (tortellini, maccheroni, frittelle…).

Esperienza e potenziale

Il fulcro della riflessione giovanile di Leopardi sta proprio nell’ingiustizia che l’abitudine impone alla vita umana. Abitudine che, a dirla tutta, altro non è che conseguenza dell’esperienza, ossia il vero ostacolo leopardiano: è l’esperienza che, per mezzo dell’abitudine, mortifica l’esistenza dell’uomo, stingendo i suoi sentimenti, troncando ogni moto vibrante, ogni insorgente calore.
L’esperienza – secondo Leopardi – svilisce il potenziale. Si prenda come esempio Il sabato del villaggio: il giorno veramente felice, dei sette, è il penultimo della settimana, in quanto esso alletta l’uomo portandolo a sperare circa il giorno in avvenire. Si prova piacere nello sperare un bene, nel tendere verso esso, poiché l’oggetto atteso, poi, si rivela sempre inferiore alle aspettative che alimentavano il desiderio. Una volta fatta esperienza della cosa in sé, all’uomo non rimane che l’amara disillusione. 
Un’ulteriore considerazione. L’occhio è, per il nostro autore, il senso intellettuale per eccellenza, quello che conduce al prosaico contatto con la realtà. Se la visione “vede” il tutto non per analizzare ma per comprendere gli affetti e il mistero che esso contiene, l’occhio incasella e anatomizza, distrugge ciò che è immaginato. C’è bisogno di una siepe che blocchi la vista per fare in modo che si possa ammirare, con la mente (e i sensi?), l’infinito potenziale che si cela dietro a questa. È molto più seducente l’immagine di una donna discinta, così che si possano immaginare le forme dietro l’abito semitrasparente, piuttosto che un corpo gelido nella sua nudità. Se si analizzassero con una lente di ingrandimento le membra muliebri, se ne ricaverebbe assai poco garbo. Perché è l’immaginazione, o illusione, che, sorgendo da un ostacolo visivo, dà la possibilità di evitare l’incontro diretto con il reale. Se l’occhio s’infiltra, si insinua nel reale, di contro, l’immaginazione si bea nel potenziale.

La percezione uditiva

Dunque come riaccendere quel fuoco sorto la prima volta e che l’esperienza ha soppresso? Come riacquisire quello sguardo proprio degli antichi, colmo di stupore, di meraviglia, di gratitudine nei confronti dell’uomo, il mondo, la natura? Il rapporto di Leopardi con la musica e la percezione uditiva: è attraverso questa strada che si può tentare di rispondere alla domanda.
Da notare, anzitutto, come egli scelga, per la sua raccolta poetica, il titolo Canti. All’epoca del poeta la parola “canto” non possedeva quell’identità semantica che oggi richiama la poesia, nient’affatto, piuttosto indicava unicamente i canti popolari, quelli che si potevano udire sulle labbra di artigiani, contadini e fabbri. La prima pagina dello Zibaldone, fatto curioso quanto significativo, contiene la trascrizione di alcuni di questi che denomina «vilissimi canterellacci». Qui è necessario comprendere due polarità pregnanti per l’autore: musica opposta a suono, e linguaggio verbale opposto a linguaggio musicale.
Alla musica intesa come armonia – la quale, per il fatto di essere sottoposta a una lavorazione razionale, pecca di artificiosità – egli preferisce la pura voce, elemento assoluto. Leggiamo un passo dello Zibaldone:

L’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva dall’armonia ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco quando anche sia monotono.

Infatti, ciò che Leopardi apprezza dei “canterellacci” non è certamente una raffinata architettura o bellezza musicale – elementi certamente assenti in tali modesti canti popolari – bensì qualcosa di più essenziale e primigenio: vale a dire il suono in quanto tale, poiché esso è sinonimo di vita, cominciamento, moto, nuovo anelito. Ciò che fa vibrare le corde interiori dell’uomo è il “primo tocco” in sé, l’abbrivo sonoro. L’armonia razionalizza e architetta il suono, infrangendo la sua semplice essenzialità (così come la ragione porta al decadimento moderno allontanando l’uomo dallo stato di natura di cui godeva nella primitiva età antica).
E leggiamo, ancora dal suo massiccio quadernone di appunti, l’altra centrale differenza, spiegata dall’autore stesso, tra parola e suono:

La parola nella poesia ec. non ha tanta forza d’esprimere il vago e l’infinito del sentimento se non applicandosi a degli oggetti, e perciò producendo un’impressione sempre secondaria e meno immediata, perché la parola, come i segni e le immagini della pittura e scultura, hanno una significaz. determinata e finita. [La musica] non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura.

L’effetto del suono è immediato. Esso, si legge in un altro passo, “agisce immediatamente sull’anima”, a differenza della parola. La quale risulta essere contaminata, così come l’armonia, per il fatto di passare attraverso il vaglio razionale. Parola e armonia, quindi, sono ben lontani dall’esser conformi all’ideale inconseguibile d’un sentimento che si fa immediatamente linguaggio. L’utopia del nostro erudito, spiega Franco D’Intino, è quella di «una passione che si esprime così com’è, senza mediazioni, […] non imitata ma ascoltata, lasciata risuonare».

L’occhio e l’orecchio

Torniamo, con il fine di completarlo, al discorso dell’occhio. Si è detto che questo “uccide” il potenziale. E l’orecchio invece? Esso, al contrario, produce vita o la mantiene (nel senso di perpetuare).
È nei versi celebri di A Silvia che si può notare come il poeta eviti intenzionalmente la visione diretta della donna. Non solo, qui si instaura una dialettica che differenzia l’atto del vedere dall’atto dell’ascoltare.

D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.

Leopardi evita di guardare Silvia. Egli porge gli orecchi al suono della voce della ragazza, quindi alla mano che «percorrea la faticosa tela»: il desiderio e la vaghezza s’accrescono. Poi posa lo sguardo sul cielo, le vie, gli orti, il mare di lontano, i monti. Tuttavia non guarda Silvia, perché un contatto visivo diretto porterebbe alla mortificazione di quel vago immaginare; ovvero strozzerebbe il potenziale scaturito dal non-visto o dall’intravisto. Ascoltarla, al contrario, la mantiene in vita: il canto di lei e la voce dell’«opre femminili». Così può esclamare: «Che pensieri soavi,/ che speranze, che cori, o Silvia mia!».

Accessi temporali

Ma il suono è capace di altro. Esso funge, talvolta, da misterioso ponte in grado di ricondurre ad un remoto passato. Si prenda La sera del dì di festa. A Recanati è notte, e il poeta, insonne, si affaccia a mirare il cielo considerando come l’amata dorma serena, ignara degli affanni vespertini che lo tormentano. Egli si chiede quanto gli rimanga da vivere, «e qui per terra/ mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi/ in così verde etate!». Poi ecco entrare in gioco uno di quei “vilissimi canterellacci” di cui si è parlato. Una disadorna e semplice comparsa sonora, la quale offre accesso immediato a un tempo distante, deviando la rotta di quei versi che parevano destinati semplicemente, come indica il titolo volutamente fuorviante, alla sera d’un giorno festivo:

… per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia

Il canto dell’artigiano bisbiglia all’orecchio di Leopardi quell’antica plurisecolare domanda: ubi sunt?

Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano.

Si legga ancora, stavolta dallo Zibaldone:

e sentendo […] certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo

Insomma, stando ai passi riportati, il suono – legandosi al passato – rivela la vanità di ogni cosa, trasporta in epoche lontanissime, pone in contatto con misteriose immagini antiche e, infine, addirittura, permette di udire la voce stessa della natura.
C’è di più. Leggiamo ancora dal solito brogliaccio di appunti e riflessioni:

[la musica] anche la meno espressiva, anche la più semplice ec., produce a prima giunta nell’animo un ricreamento

La musica produce un ricreamento. Ha a che fare, insomma, con qualcosa che torna a nascere.

Genesi

Per capirne di più, può tornare utile riprendere un passo di quel testo giovanile mai pubblicato né intitolato, ma di straordinaria bellezza, che si è soliti chiamare Ricordi d’infanzia e di adolescenza. Leopardi appunta:

principio del mondo (ch’io avrei voluto porre in musica non potendo la poesia esprimere queste cose ec. ec.) immaginato in udir il canto di quel muratore mentr’io componeva

Ebbene, qui si va ancor più addietro dell’età antica dei latini; stavolta il portale originato dal suono ci conduce nientemeno che al principio del mondo (si noti che nel 1789, anno di nascita di Leopardi, F.J. Haydn componeva La creazione). La voce, in questo caso, dà l’abbrivo a due diversi moti interiori. Primo: all’udir del canto d’un muratore, Giacomo immagina il principio del mondo; secondo: all’udir del canto d’un muratore, Giacomo sente germogliare in sé il desiderio di porre in musica tale genesi. Tuttavia questa smania di porre in musica il principio del mondo non può che rimanere irrealizzabile in quanto il linguaggio verbale non è adatto a “esprimere queste cose”, diversamente dalla musica, la quale, piuttosto ne sarebbe capace.

Come tornare?

A questo punto si può tornare un’ultima volta alla domanda che la premessa sulla parmigiana di Antonia aveva introdotto: come ridare vita a quel fuoco che l’abitudine strozza sul nascere? Come restaurare il tempo antico durante il quale l’umanità, tra le braccia della natura, viveva di stupore e gratitudine, lontano da brame di possesso, dominio e conoscenza? Come tornare a quell’emotività spontanea che in una lettera da Pisa, nel 1828, Leopardi definì «quel mio cuore di una volta»? A scandagliare la quaestio vi si legge, quale ipotesto, l’archetipica caduta dal Paradiso Terrestre. L’episodio biblico soggiace come struttura-modello a tutto il Romanticismo. Dallo Zibaldone per esempio:

Voce e canto dell’erbe rugiadose in sul mattino ringrazianti e lodanti Iddio, e cosí delle piante ec.

E se dietro la domanda che ci si è posti più volte – come tornare a trovare calore nelle cose? – si nascondesse un più ampio interrogativo: come tornare alla condizione beata, al Paradiso Terrestre?
Lo si è capito, insomma, tutto ciò ha a che fare con il suono: la voce musicale è capace di riaccendere il fuoco. Ma non è tutto. Se l’articolo finisse qui, data la capacità della musica di ricreamento, di ricondurre al principio e alla voce stessa della natura, il lettore sospetterebbe, giustamente, che il primogenito del conte Monaldo abbia scoperto troppo tardi – quindi represso – una (insospettabile?) vocazione di musicista; che egli si fosse, insomma, fermato alla constatazione della sua incomunicabilità: “…detto più volte a Carlo quando faremo qualcosa di grande”.
Senza giri di parole: quel che deve e può fare la poesia, ci spiega l’autore, è proprio eguagliare l’effetto poderoso del suono, vale a dire:

[il poeta] deve coll’arte sua quasi trasportarci in quei primi tempi, e quella natura che ci è sparita dagli occhi, ricondurcela avanti, o più tosto svelarcela ancora presente e bella come in principio e farcela vedere e sentire […] onde sia presentemente l’ufficio suo, non solamente imitar la natura, ma anche manifestarla

Il lettore si troverà di fronte a un testo poetico “vivo” solo se questo sarà connaturato alle speciali qualità della musica. Ora si può comprendere a fondo la scelta del titolo Canti adottato per la raccolta poetica d’una intera vita e il significato del suono in tale poesia. La concezione di Leopardi dell’intera opera è quella di testo-spartito capace, per mezzo della lettura mentale o preferibilmente sonora, di ri-evocare i primissimi sentimenti novelli, vale a dire ridargli voce, poiché divenuti oramai, colpa l’esperienza, nient’altro che “suono della nostra voce”. Di qui la cospicua e peculiare presenza sonora che tinteggia i versi leopardiani. Versi paragonabili, in varie zone, a una presa diretta di voci di uomini comuni, della vita quotidiana del paese, voci dei quartieri, delle piazze, delle vie: essi non esprimono significati determinati, finiti, e non intendono concordarsi al lavorio proprio dell’armonia. Piuttosto sono immagini sonore, sempre vive, un inizio, il preludio d’un tutto che deve venire. È la poesia-sonora lo strumento capace di sconfiggere l’operare lacerante dell’esperienza, dell’abitudine, del tempo stesso; e il mezzo atto a evitare che la vita e il sentimento della vita vadano perduti. È l’unico modo per mantenere Silvia in vita, lei che, morta prematuramente, non ha conosciuto l’esperienza: «allor che all’opre femminili intenta/ sedevi, assai contenta/ di quel vago avvenir che in mente avevi». Questa è la poesia capace di far “vedere” e “sentire” i primi moti della vita, gli aneliti e il calore vitale, il respiro e la voce.

Paolo Di Piramo

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