Franco Faccio

La professionalità di Faccio divenne una garanzia per La Scala e per Verdi che lo riteneva insostituibile per i suoi titoli

Francesco Antonio Faccio nasce a Verona l’8 marzo 1840 nella zona di San Lorenzo, in corso Castelvecchio (ora corso Cavour) da Giovanni Faccio, comproprietario dell’hotel Riva San Lorenzo, e da Teresa Carezzato, sorella di un apprezzato incisore di oggetti sacri.

Dopo i primi studi musicali compiuti con l’organista Giuseppe Bernasconi e successivamente con Gaetano Costalunga, Francesco Antonio Faccio venne ammesso al Conservatorio di Milano il 31 ottobre del 1855. Frequentò con profitto le lezioni, riportando subito ottimi risultati: ‘distinto’ in armonia, contrappunto e composizione, ‘distinto’ in pianoforte, ‘distinto’ in storia, estetica, strumentazione e un Primo premio con lode.
Quando si parla della vita di Franco Faccio e del suo percorso artistico e professionale, non si può trascurare la figura di un altro veneto con il quale lui divise i successi e i momenti meno lieti: il padovano Arrigo Boito.

I due giovani si conobbero in Conservatorio maturando una stima crescente l’uno per l’altro. Nel 1860 si presentarono insieme al saggio scolastico con la Cantata Patria – il 4 Giugno, su poesia di Boito e musica di entrambi. La Gazzetta Musicale dell’editore Ricordi ne riporta qualche impressione:

«Il signor Faccio ha tutta l’ardente ispirazione della sua età, sebbene affetti di soverchia tensione, proclive alla sovrabbondanza negli effetti. La sua musica è formata di membrature bene disposte e proporzionate, di pensieri che si legano maestrevolmente … I motivi sussidiati da robuste armonie hanno l’incesso maestoso e mistico … e si espandono con chiara omogeneità di impasti vocali, che impressiona l’animo e lo commuove».

La Gazzetta musicale

Nel 1861 presentarono per il saggio finale il “mistero” delle Sorelle d’Italia destando ancora una volta interesse per l’astrusità dei versi e per un’indole germanica nella musica. Queste caratteristiche vennero salutate come espressione di un’ansiosa ricerca espressiva che alcuni critici interpretavano come esuberanza giovanile ma anche disordine della forma e tradimento verso gli schemi oramai assimilati dell’opera italiana. In realtà, come osserva Raffaello De Rensis, ogni tentativo di attribuire quella nuova sensibilità alla “musica dell’avvenire” serviva per criticarne il distacco dalla tradizione italiana, facendola apparire “antipatriottica”.

Al termine del percorso formativo Faccio e Boito conseguirono il diploma brillantemente ricevendo dal Ministero un premio speciale, una sorta di borsa di studio di duemila lire ciascuno per il perfezionamento degli studi musicali.

«Il Ministero della pubblica istruzione – vista la domanda dei Signori Enrico Boito e Francesco Faccio per un sussidio straordinario onde aver agio di perfezionarsi nell’arte musicale, dappoiché hanno compiuto il corso al Conservatorio – considerando le amendue [sic] questi giovani pei saggi dati e le informazioni ricevute dando le migliori speranza di riuscire eccellenti nell’arte loro – considerando che senza il soccorso del governo dovendo essi darsi tosto all’insegnamento privato, forse i felici auspici dell’ora venire rimarrebbero senza effetto – decreta: ai signori Enrico Boito e Francesco Faccio sopradetti è assegnato per un anno una pensione di lire duemila per ciascuno, la quale dovrà essere loro pagata in quattro rate trimestrali anticipate, a cominciare dal 1° novembre venturo».

Ministero della pubblica istruzione

I due neodiplomati partirono quindi per Parigi con diverse lettere di presentazione tra cui quella della Contessa Clara Maffei, per Giuseppe Verdi e di Tito Ricordi.

È divertente l’episodio avvenuto nella residenza parigina di Gioachino Rossini, dove Faccio e Boito furono accolti con sensibile cordialità. Il Cigno di Pesaro, che non nascondeva la propria contrarietà all’estetica wagneriana e, sapendo invece che i due giovani maestri ne erano simpatizzanti e frequentatori assidui di circoli della “musica dell’avvenire”, decise di invitarli dopo qualche giorno per un pranzo.

Ebbene, Rossini obbligò i due “scapigliati” a consumare il cibo e le vivande senza un attimo di pausa provocando una certa irritazione e stupore negli ospiti. A tale imbarazzo Rossini rispose: «se hanno l’orecchio dell’avvenire dovrebbero aver tale anche lo stomaco».

Nel soggiorno parigino incontrarono più volte Berlioz e Gounod, e parteciparono alle conversazioni tra simbolisti e naturalisti, nonché alle dissertazioni pro e contro Wagner.
Fecero visita anche a Giuseppe Verdi che li accolse cordialmente senza nascondere il proprio disappunto per le frequentazioni “scapigliate” dei due giovani.

Nel 1862, dopo il periodo trascorso a Parigi, i due si divisero: Boito partì per la Polonia e Faccio rientrò a Milano per riordinare le idee e fissarne di nuove. Il giovane veronese aveva già composto diversa musica: Il Fornaretto, nel 1857, Ines De Castro, nel 1859 e tre sinfonie nel 1860 insieme alla musica sacra e da camera. L’11 novembre 1863 Faccio diresse al Teatro alla Scala tenendo a battesimo la sua nuova opera I Profughi Fiamminghi, sul libretto di Emilio Praga. L’opera è ambientata durante il regno di Filippo II e parla della sommossa del popolo fiammingo, capeggiato dal Conte di Bergh, per liberare Anversa e la Fiandra dal dominio spagnolo. Il libretto presenta temi di libertà e indipendenza nazionale che facevano parte dei valori risorgimentali sia di Faccio sia di Boito.


Libertà. Libertà. Libertà!” sono le parole che, nella Fiandra oppressa dal dominio ispanico, mostrano l’Italia oppressa dal dominio austriaco e desiderosa di libertà. La partitura di Faccio suscitò pareri favorevoli e contrastanti da parte di una certa critica che ne percepiva influenze d’oltralpe e poco “italiane”. Fu Boito a difendere l’amico in un articolo sulla Perseveranza in cui evidenziò i pregi della musica di Faccio e la sua sperimentazione drammaturgica.

Se nel compositore ventitreenne c’era la volontà di esasperare ed estremizzare il colore drammatico degli stati emotivi dell’azione e dei personaggi, in realtà in quell’opera non vi era alcuna germanizzazione e tanto meno vi erano reminiscenze wagneriane. Durante le cinque repliche i toni divennero più cordiali e Faccio fu molto festeggiato.

A tal proposito Faccio ascoltò il suggerimento della Contessa Maffei e scrisse a Verdi qualche giorno dopo la première:

Illustre Maestro.
«La Signora Contessa Maffei m’incoraggia a darle io stesso notizie sul buon esito della mia prima opera. Ella può immaginare che scrivendo queste righe mi sento tutto compreso da quella timida soggezione che prova il piccolissimo a fronte del grandissimo; ma pure, oso dirlo, vicino a Lei che mi sprono a fare con parole gagliarde di fede e di speranza, la mia timidezza diventa confidente e fiduciosa. Ricordo sempre con emozione d’artista l’ultimo suo consiglio, l’ultimo suo augurio, e so che staccandomi da Lei io mi sentii pieno di baldanza giovanile, ed ho osato, ed ho scritto. Ora che a questo primo passo mi avessero le gambe, sento proprio bisogno di dirle quanto abbia giovato a farlo il coraggio ch’ella mi ha ispirato. E codesto coraggio lo avrò maggiormente per l’avvenire, perché nutro sempre lusinga che il di Lei voto mi accompagni. La signora Contessa s’incarica di ottenermi indulgenza per questa lettera che ardisco inviarLe. La prego d’aggradire gli omaggi del mio Boito che al pari di me spera e lavora, mi ricordi con affetto riverente alla egregia e gentilissima Signora, e mi saluti quel buono e leale amico che si chiama Francesco Maria Piave. Devotissimo Franco Faccio».

Franco Faccio, Lettera a Giuseppe Verdi

E Verdi rispose:

«Signor Faccio. La di lei cortesia vuol farmi un merito delle poche parole che io le dissi a Parigi, e sono ben lieto se quelle parole mi valsero il piacere d’aver direttamente notizie sue e della sua opera. Se il pubblico, questo sovrano Giudice, ha fatto buon viso al suo primo lavoro, e l’esito fu buono, com’Ella afferma, prosegua con animo sicuro l’intrapresa carriera, ed aggiunga ai grandi nomi di Pergolese e di Marcello un altro nome glorioso, il Suo. Faccio gli stessi voti pel suo amico Boito, che prego salutare a nome mio. Mille congratulazioni dunque per il passato ed auguri per l’avvenire, e con stima mi dico.

Giuseppe Verdi, Lettera a Franco Faccio

Faccio affrontò una nuova sfida compositiva e il 30 maggio del 1865 andò in scena al Carlo Felice di Genova il suo Amleto, su libretto di Boito e la direzione di Angelo Mariani. Gli esecutori furono: Mario Tiberini, Angiolina Ortolani-Tiberini, Elena Corani, Antonio Cotogni e Baragiolo. Fu una soddisfazione piena per Faccio e ne abbiamo testimonianza dalla recensione de «La Gazzetta di Genova» del 31 maggio:

Ieri sera le porte del Carlo Felice si apersero al preconizzato spettacolo del nuovo spartito di Franco Faccio, l’Amleto. Grande per aspettativa dell’universale, perché dubbia era corsa la fama del nuovo genere di musica tentata dal giovane maestro. Accorso numeroso perciò il pubblico ed in atteggiamento di chi vuol giudicare con circospezione, diciamolo anche, con severità. Ma delle dubbie intenzioni ebbe a ricredersi, e dopo aver voluto pensarci sopra, prese la sua decisione; applaudì e applaudì con spontaneità, con coscienza, con entusiasmo».

La Gazzetta di Genova

La soddisfazione coinvolse anche Alberto Mazzucato, (professore di Boito) che scrisse una lettera indirizzata a Stefano Ronchetti-Monteviti, (professore di Faccio) e pubblicata nel «Giornale della Società del Quartetto», in cui si complimenta con il collega per il successo del suo allievo.

L’Amleto che ebbe la sua prima rappresentazione ier sera suscitò insolite profonde emozioni del pubblico genovese, che festeggiò l’egregio vostro allievo con ogni sorta di lusinghiere accoglienze. Le chiamate al maestro ed agli esecutori furono unanimi, insistenti, continue, e sempre più calorose di mano in mano che l’immaginoso lavoro dispiegavasi dinanzi agli occhi di uditori altamente sorpresi della verità dei concetti, della novità delle forme, della passione delle melodie, dell’armonia dell’insieme, da robusto magistero che domina in tutto lo spartito. […] Quella dell’Amleto fu una legittima vittoria, ed io me ne rallegro perché vedo in essa una nuova consacrazione delle nostre idee, e voi ve ne dovete rallegrare doppiamente, e pel trionfo di queste idee e per la compiacenza di aver educato all’arte italiana un possente ingegno qual è quello di Franco Faccio.»

Alberto Mazzucato, Lettera a Stefano Rochetti-Monteviti

 

Il libretto che Boito scrisse per l’amico Faccio provocò indubbiamente scelte musicali nuove in cui l’elemento sinfonico è predominante, l’orchestrazione è sontuosa e il lirismo è teso con un forte declamato nel canto.

Nel 1866 entrambi si arruolarono come volontari garibaldini, condividendo marce, addestramenti ed esercitazioni: si combatteva per il riscatto del natio Veneto, patria comune ad entrambi.
Al termine della spedizione i due di divisero ancora e Faccio tornò a Milano abbandonando momentaneamente l’attività compositiva per cercare di affermarsi come direttore d’orchestra.
Clara Maffei, aveva capito il talento del giovane Faccio e lo sosteneva invitandolo spesso nel suo salotto influente e frequentato da patriotti, letterati, artisti italiani e stranieri. Nella corrispondenza tra i due, in cui lui la chiamava “mia buona amica e madre”, sono presenti i consigli per il giovane veronese e molti dettagli sull’attività che stava svolgendo.

Nel 1866 Faccio ricevette l’invito dall’impresario Achille Lorini, a dirigere a Berlino Don Pasquale, Trovatore, Il Barbiere di Siviglia, Ernani, Rigoletto e Un Ballo in maschera. Poi da Berlino si trasferì a Copenaghen, dove rimase fino a luglio del 1866.

Ritornò nuovamente a Milano per rimanervi un anno e cercare un appartamento dove riunire la sua famiglia: i genitori e la sorella Chiarina, studentessa di canto al Conservatorio.
In quel periodo però, anche se conosciuto e apprezzato, la sua carriera nella città meneghina stentava ad affermarsi. La scelta quindi fu quella di ripartire ancora con la Compagnia di Lorini per la Svezia, la Norvegia e a la Danimarca. Ritornò a Copenaghen per dirigere La Favorita, Un Ballo in maschera, Il Trovatore e in un concerto eseguì anche la Marcia Funebre del suo Amleto, riscuotendo un ottimo successo. Nel luglio del 1868 Faccio tornò a Milano e Giulio Ricordi gli affidò subito la direzione musicale della stagione al Teatro Carcano che si inaugurava con l’opera Dïnorah di Meyerbeer, seguita poi con Zampa di Hérold, Faust di Gounod e Lucrezia Borgia di Donizetti.

In quell’anno egli partecipò al concorso per l’insegnamento in Conservatorio di Milano e lo vinse nonostante alcune polemiche che vedevano in Amilcare Ponchielli il candidato favorito. Faccio ricoprì l’incarico fino al 1878 e si dimostrò un ottimo docente e soprattutto sensibile alla promozione degli allievi talentuosi tra cui Antonio Smareglia e Gaetano Coronaro.

Acquisite ormai le competenze nella direzione dell’orchestra, specialmente all’estero, nel 1869 Faccio tornò alla Scala, affiancato al maestro Eugenio Terziani, in qualità di direttore sostituto. In questo periodo il giovane maestro sentì maturare intorno a sé la volontà di una nuova rappresentazione del suo Amleto, nel teatro meneghino.


Nel 1870 venne infatti confermata la sua opera nel cartellone nella stagione 1870-71 del Teatro alla Scala con le modifiche del libretto di Boito e le nuove elaborazioni musicali. Sul palco scaligero fu richiamato come protagonista il tenore Mario Tiberini, già acclamato a Genova e affiancato dagli altri interpreti: la Pozzi-Branzanti, la Bulli-Paoli, il Bertolasi e Angelo De Giuli, l’allestimento di Carlo Ferrario e la direzione e concertazione di Franco Faccio.

Sembrava che tutto fosse organizzato e programmato secondo i migliori auspici ma sopravvennero numerosi imprevisti che rallentarono la preparazione e il debutto dell’opera. Nonostante le esitazioni e gli inciampi, la prova generale del 16 gennaio 1871 fu soddisfacente. Gli imprevisti non cessarono: il giorno seguente l’interprete principale, Mario Tiberini, si ammalò e la première venne rimandata ancora per circa 20 giorni. Le prove ripresero e il tenore si ammalò nuovamente.


Nonostante le proteste e contestazioni di Faccio nei confronti di Tiberini, il teatro lo confermò come interprete della prima scaligera.
Il nervosismo era alle stelle e quella sera in teatro c’era il pubblico delle grandi occasioni, schierato per sostenere o bocciare il lavoro rielaborato di Boito e Faccio. L’esecuzione risultò timida, incerta, non convincente. Tiberini fu completamente afono, impacciato, non cantò intere frasi e sembrò irriconoscibile rispetto all’interpretazione di Genova. Insomma, andò in scena l’Amleto senza Amleto. In sala fu evidente l’imbarazzo tra gli amici più stretti di Faccio e dell’editore Giulio Ricordi: si salvarono pochi momenti dell’opera, come il Brindisi, il racconto dello Spettro, il Pater Noster e la Marcia Funebre che fu molto applaudita. Faccio cadde nello sconforto e decise di ritirare l’opera senza consentire le repliche previste.

Significativa la lettera che scrisse a Verdi:

«Illustre Maestro. Giulio mi lesse parte di una di lei lettera che accennava l’esito infelice dell’Amleto: quella prova gentile preziosa del di lei interesse a mio riguardo è stato per me un tacito e salutare conforto, del quale la ringrazio con animo commosso e riconoscente. Il buon Giulio, un severo e veracissimo amico, le rifarà la storia di quella brutta serata, la quale a cagione dell’assoluta mancanza di voce del Tiberini fu una colpevole mistificazione per tutti gli onesti e un argomento di baldoria demolitrice per la gente volgare e di malafede. Ma perché acconsentire all’andata in scena? La domanda ch’ella certo mi rivolge è giustissima, e prego Giulio di spiegarle come, dietro le ingannevoli dichiarazioni del Tiberini, non fosse più in nostra facoltà di impedire una rappresentazione già da troppo tempo promessa ed aspettata. Quanto a me, la cosa che deploro maggiormente è quella di non aver potuto in quella sera farmi un giusto criterio degli apprezzamenti del pubblico. Alcune pagine d’un merito, per me e per Giulio, inferiore, come per esempio un valzer ed un brindisi nell’atto primo vennero gustate ed applaudite perché eseguite come l’autore le aveva scritte. Altre, all’opposto, d’un valore, a nostro parere, più intrinseco, passarono in silenzio o vennero disapprovate appunto perché affidate al protagonista, il quale, man mano che l’opera procedeva, era ridotto ad accennar le malamente ed anche a svisare i concetti del compositore come dei mutamenti improvvisati e tutti spietatamente pessimi e inefficaci. Sopra un solo pezzo eseguito ho la coscienza sicura tranquilla: è una cosiddetta marcia danese che precede la scena della rappresentazione. Oh! Quello sì che è stato zittito di santa ragione. S’immagini, una marcia oziosa e chiassosa con trombe pifferi e tamburi in una sala di spettacoli, Dove convenivano tranquillamente i cortigiani della Danimarca. […] Le ripeto: quello che maggiormente mi addolora è il ricordare come l’assoluta mancanza dell’Amleto nell’Amleto mi vieti di accogliere il giudizio del pubblico intorno a quell’unica rappresentazione della mia opera, in rapporto alla verità dei difetti della mia musica. Io non so se possa usare di pregar lei di gettare un’occhiata sopra alcuni brani dell’Amleto che Giulio le reca costì. Il severo giudizio di Giuseppe Verdi mi sarebbe prezioso e varrebbe a impensierirmi anche dopo le facili baldanze d’un successo in teatro: pensi poi quanto bene potrebbe fare ora ad un giovane il quale, sotto il peso d’una caduta, nuota tra la fiducia e il disinganno di sé medesimo.
La sincera amicizia di Giulio e le delicate attenzioni di tutta la famiglia Ricordi hanno cercato e cercano di arrendermi sopportabile la mia disgrazia: tuttavia non c’è che dire il colpo è stato fortino, e l’amarezza che, ripensando all’Amleto, raramente mi salirà alle labbra, mi rimarrà un pezzo in fondo al cuore. La prego di riverirmi con affetto grandissimo l’ottima Signora Giuseppina, di perdonarmi la troppa lunga lettera, vedi a gradire l’omaggio della mia profonda devozione. Di lei obbligatissimo Franco Faccio».

Franco Faccio, Lettera a Giuseppe Verdi

Gli echi della serata arrivarono anche in Conservatorio dove, sulla porta dell’aula di armonia, fu appeso un cartello dove si leggeva «Chiuso per la morte di Amleto». Fu un insuccesso immeritato, accentuato ripetutamente dalla stampa. La Contessa Maffei e Boito cercarono più volte di convincerlo a riprovare a rappresentare l’opera ma Faccio non volle mai più sentir parlare dell’Amleto.

Intanto, il direttore principale Eugenio Terziani annunciò le dimissioni a causa di dissapori frequenti con l’orchestra e per gli attacchi sempre più accesi della critica che gli contestava la “lentezza” delle esecuzioni.
Faccio ne fu il successore ricevendo pieno consenso dopo un concerto organizzato della Società del Quartetto, per la chiarezza del gesto, la sensibilità interpretativa e per la memoria prodigiosa che dimostrava durante i concerti dirigendo senza la partitura.

Franco Faccio segna una linea precisa nella storia della musica, con lui il direttore d’orchestra assurge al posto di primo e più alto interprete dell’opera: egli è l’artista che, penetrato nello spirito di quella, la fa sua e dona a sua volta al pubblico, dirigendo la rappresentazione, l’essenza spirituale del capolavoro, quale frutto diretto della sua sensibilità e della sua anima vibrante e passionale. Durante l’incarico alla Scala egli dedicò anche molta cura all’immagine del direttore d’orchestra e dei suoi musicisti: scelse l’abito nero con la camicia e la cravatta bianca per sé e l’orchestra in modo da apparire eleganti davanti al pubblico.


Era un ottimo trascinatore delle sue masse orchestrali ed era anche estremamente severo con i suoi musicisti. In una sua lettera, inviata alla dirigenza del Teatro alla Scala il 20 Dicembre 1871, Faccio, da poco direttore principale del teatro milanese, criticava il comportamento indisciplinato del primo oboe durante le prove della Forza del destino:

«L’oboista, mentre stavo provando la Preghiera, nell’atto secondo della Forza del Destino, si permise di accennare con l’oboe ad altro motivo di altra opera, con nessun rispetto per l’illustre Maestro Verdi che assisteva, incognito, alla prova di me e dell’intera orchestra che ho l’onore di dirigere. Mi credo in dovere di denunciare questo fatto … affinché si provveda onde la disciplina teatrale venga, da parte del primo oboista, meglio compresa ed osservata».

Franco Faccio, Lettera alla dirigenza del Teatro alla Scala

Nello stesso anno, il 24 dicembre, la première di Aida al Cairo, fu un evento importante nella produzione artistica del Cigno di Busseto e molto atteso nel mondo della musica. Ricordi, Boito, Filippi e Faccio si misero subito al lavoro per organizzare al meglio il debutto della nuova opera verdiana al Teatro alla Scala. La data fu fissata per l’8 febbraio del 1872 e dopo un mese di prove e qualche imprevisto l’opera andò in scena.
Fu un vero trionfo.


Sul podio c’era ancora Franco Faccio che in quell’occasione consacrò il rapporto con il teatro meneghino e un legame indissolubile con il Maestro. Da quel momento, infatti, egli divenne “il direttore di Verdi” e il loro rapporto fu sempre più stretto e nutrito dalla stima, dalla confidenza e dalla riconoscenza che si evince dalle loro numerose lettere.

«Le sarà noto che allo scopo di assicurare la buona esecuzione dell’Aida mi trovai costretto a eliminare alcuni elementi dell’orchestra e nei cori di questo teatro, la cui incapacità sarà resa evidente durante le prove della Dinorah. Non posso negare che quest’operazione non fu la cosa più indifferente del mondo, in quanto le mie proteste colpivano persone (meno qualche eccezione) che danni e danni s’erano fatte arbitre del teatro con l’audacia e con l’intrigo. Perciò minacce anonime, personali, timore di sciopero che commossero perfino la Questura, ed altre noie che non le dico per non tediarla; io tenni duro, ed il pubblico, che era venuto al fatto di tutte queste porcherie, applaudì al mio contegno, facendomi una specie di ovazione (mi passi la parola troppo sonora) in teatro. Intanto ho la soddisfazione di dirle che la lettura di Aida (orchestra sola) fu completamente soddisfacente. Questa mattina metterò insieme, al pianoforte, artisti cori, e questa sera se la prova riescirà efficace, porterò in orchestra toute la boutique, e la informerò in seguito sull’andamento delle prove successive. Alle modificazioni personali nelle masse corali e orchestrali non si limitò il mio compito: feci alzare il piano dell’orchestra che discendeva di un gradino dal livello della platea con danno evidente della sonorità, adottai la disposizione della Scala pel collocamento degli strumenti, e feci chiudere un infetto botteghino, posto sotto il palcoscenico, e tollerato per forza d’abitudine dalla Direzione di questo teatro, ove fra un atto e l’altro, coristi e comparse andavano sconciamente ad avvinazzarsi. S’immagini quale esecuzione potevano dare i cori nelle opere, per es. in cinque atti. Io ho pensato all’atto quarto dell’Aida e voglio assolutamente che il botteghino in questione venisse inchiodato. Che le mie spalle poi non pagano le conseguenze di tutti questi scompigli, è quello che si vedrà in seguito: pel momento vado avanti con animo fermo sereno perché ho la coscienza di fare il mio dovere, i cambiamenti nell’orchestra sono i seguenti: il primo violino (scusi se è poco), Il primo flauto, Il primo fagotto, la seconda tromba, secondo corno, la grancassa e qualche strumento d’arco. Ora primi violini sono eccellenti; assai buono, in complesso, il rimanente del quartetto; ottimi gattoni, il primo flauto, devo fagotto, discreto il resto. Mezzanotte dopo la prova d’insieme. Bene, bene, bene. I due primi atti furono eseguiti con amore, con fuoco che mi rendono ormai sicuro della eccellente esecuzione dell’Aida. Oh! feci pur bene purgando le masse degli elementi cattivi! Come sarei felice se anche in questa circostanza ella potesse essere contento di me. Le stringo le mani con l’amore di figlio e discepolo».

Franco Faccio, Lettera a Giuseppe Verdi

La professionalità di Faccio divenne una garanzia per il teatro, per i compositori che gli affidavano le loro opere e per Verdi che lo riteneva insostituibile per i suoi titoli: fu un insuperabile interprete del suo Don Carlo, di cui si ricorda la memorabile edizione di Bologna del 1878, il Simon Boccanegra, nella versione del 1881 alla Scala e la prima esecuzione assoluta di Otello sempre nel teatro milanese, il 5 Febbraio 1887 di cui i critici lodarono la concertazione raffinata ed efficace.


Ricordiamo anche che con Otello, Franco Faccio ebbe modo di definire il ruolo incisivo del protagonista, di cui restò un’icona, il tenore torinese Francesco Tamagno, primo interprete di Otello e che Faccio aveva già guidato come primo interprete di altre partiture: Azaele ne Il Figliol Prodigo di Amilcare Ponchielli, alla Scala nel Dicembre1880, e Didier nella Marion Delorme sempre di Ponchielli, in prima rappresentazione alla Scala il 17 Marzo 1885.

Tra i numerosi debutti, Franco Faccio portò alla Scala, nel febbraio del 1880, il successo memorabile della prima esecuzione de La Gioconda, di Ponchielli, come testimoniato dai critici de «La Gazzetta Musicale» riportano la testimonianza:

«Il Faccio ebbe la sua parte degli onori toccati al Ponchielli di cui è il principale collaboratore. Noi ci chiedemmo che cosa diventerebbe il finale terzo senza l’interpretazione così scrupolosa, ardente ed appassionata che il Maestro ne diede. Il gran finale del terzo atto, che bisognò ripetere e che fece balzare in piedi due volte il pubblico elettrizzato. Di questo finale i meriti principali, quelli che lo fanno cosa sublime, sono l’impasto delle voci, la condotta meravigliosa, la sonorità enorme e soprattutto l’intelligenza con cui questa condotta del pezzo serve alla scena. Il finale è, come introdotto, da una frase, quasi parlata, di Gioconda che si promette a Barnaba purché salvi Enzo, poi ripiglia con solennità crescente ed è sospeso, con una insolita e fortunata arditezza, sospeso per poi finire da Alvise che fa vedere agli invitati il cadavere della moglie Laura, segue un grido intenso e prolungato di tutte le voci del palcoscenico e dell’orchestra, dove il tam-tam aggiunge il suo fremito lugubre».

La Gazzetta Musicale

Faccio consacrò anche il giovane Giacomo Puccini dirigendo sempre alla Scala, nel gennaio del 1885, Le Villi, nella versione in due atti, e Edgar, nell’aprile del 1889.

Fece apprezzare anche l’Edmea e la Dejanice di Alfredo Catalani e fu la bacchetta indiscussa del Mefistofele del suo caro amico Boito, per il quale riuscì a riproporlo alla Scala, nel maggio del 1881, consacrandone il valore. Nella sua intensa attività Faccio si dedicò molto al repertorio sinfonico e il 18 Aprile del 1878 alla Società del Quartetto e al Conservatorio diresse un programma tutto beethoveniano, che prevedeva l’Ouverture Re Stefano, l’Ouverture Coriolano e, dopo la pausa, la prima esecuzione italiana della Nona Sinfonia.

Fu un grande successo per Franco Faccio, come riporta il «Corriere della Sera»:

«Il Maestro Faccio ha trionfato e la sua vittoria non fu facile. Egli ha interpretato splendidamente l’opera colossale e ne ha evidenziate tutte le bellezze. Egli mostrò quanto valga egli stesso e quanto valgano i professori della sua orchestra. Egli mostrò che anche in Italia si possono comprendere ed eseguire alla perfezione i più ardui lavori strumentali».

Corriere della Sera

I coristi impegnati furono 160, provenienti da due distinte società corali, tutti molto elogiati dai critici:

«Molta lode spetta alle società corali per il modo con cui eseguirono il difficile Inno alla Gioia dell’ultimo tempo e per avere, con il loro concorso, tolto gli ostacoli che avevano impedito ai milanesi di sentire una tra le più grandi opere d’arte che siano mai state prodotte».

Corriere della Sera

Nel 1884 il Maestro veronese fu invitato all’Esposizione di Torino per dirigere i programmi previsti dal mese di aprile a novembre con l’orchestra torinese e due concerti con l’orchestra della Scala. In quell’occasione presentò opere in prima assoluta di giovani compositori, il Capriccio Sinfonico di Giacomo Puccini e anche alcuni suoi brani sinfonici tra cui lo Scherzo, frammento di Sinfonia, il Preludio dell’atto terzo, la Marcia Funebre dell’Amleto e anche l’Ouverture del dramma Maria Antonietta, un testo teatrale in cinque atti, un prologo e un epilogo del drammaturgo Paolo Giacometti del quale Faccio aveva scritto le musiche di scena.

Sempre in quella circostanza compose la Cantata Inaugurale dell’Esposizione su testo dell’avvocato e letterato canavesano Augusto Berta, che fu molto applaudita e che coinvolse 150 coristi, 100 professori d’orchestra ed anche la banda civica.
Ecco qualche impressione su «La Stampa», il 24 Aprile del 1884:

«La Cantata inizia con un’epica introduzione… Ecco sorgere da lontano i genii dell’Esposizione che cantano la gloria del pensiero italiano. Sono i genii dell’industria, della scienza, dell’arte… la musica diventa d’un tratto cupa e minacciosa…un altro canto ci arriva alle orecchie, il coro degli eroi che sono caduti nei campi di battaglia combattendo per la nostra libertà e che, in un funebre recitativo, ci rammentano quel che essi hanno fatto e quel che per essi noi siamo, la musica è diventata essenzialmente drammatica, il cannone romba sopra il campo coperto di gente che geme ed implora, il freddo della morte si percepisce nel suono degli ottoni ma la vita riprende tosto il sopravvento e con alterna vicenda di voci maschili e femminili i genii invocano il dio Sole perché fecondi le messi ed invocano il mare, perché sopra di esso si stenda una folta selva di vele ed invocano la pace, perché stenda le sue ali sicure e con il suo raggio immortale brilli sopra di noi e si termina in una invocazione, dove la musica evoca, nella più solenne sonorità che orchestra di questo mondo possa ottenere, tra un insieme di coro e di orchestra a cui si unisce la fanfara, che squilla le prime battute della Marcia Reale, che è un inno alla gloria d’Italia».

La Stampa, 24 aprile 1884

Il suo lavoro in quegli anni fu incessante e il 25 marzo 1886, in occasione di una recita dell’opera I Pescatori di Perle di George Bizet, il Maestro Faccio fu festeggiato per la sua millesima direzione alla Scala. Coltivò un grande interesse per la musica tedesca e soprattutto l’antico amore per le architetture wagneriane: si commosse a Bayreuth per il Parsifal, amava il Tristano e I Maestri Cantori. Compose la musica per i recitativi del Freischütz di Weber, che diresse alla Scala come il Lohengrin, sempre alla Scala nel marzo del 1888, una rivincita importante sull’edizione infelice del 1873.


Fu proprio in quel periodo che la sua lucidità sembrava smarrita e dopo le recite del Lohengrin veniva accompagnato a casa perché tendeva a dimenticare la strada del ritorno. La sua salute cominciò a dare segnali di stanchezza, disorientamento e amnesia che da lì a poco sarebbero peggiorati. Nella tarda estate del 1889, la malattia mentale divenne più evidente e invalidante. «L’arte è il mio rifugio. Nel campo dell’arte sono sempre io!», diceva nei momenti di consapevolezza.
Si narra che, in occasione della seconda recita de I Maestri Cantori alla Scala, il maestro Faccio, dopo il secondo atto che lo vide acclamato sul podio, andò in camerino, per poi avviarsi all’uscita. Tra lo stupore dei presenti, lo convinsero a rientrare perché avrebbe dovuto dirigere un altro atto. Nell’imbarazzo generale la recita fu affidata all’ex allievo, Gaetano Coronaro. Dopo qualche giorno di riposo Faccio tornò alla Scala per dirigere il Simon Boccanegra. Fu la sua ultima volta e il 24 marzo abbandonò definitivamente la Scala.


Anche Verdi prese coscienza dello stato di salute di Faccio e nel 1890 gli consigliò di accettare l’incarico di Direttore al Conservatorio di Parma. Faccio accettò, ma la sua salute peggiorava giorno dopo giorno e Boito fu costretto a sostituirlo a Parma. Fu l’epilogo. Franco Faccio morì il 21 luglio del 1891.

Boito con un telegramma avvisò Verdi della morte dell’amico. Questi scrisse una lettera del 24 luglio molto affettuosa, alla quale Boito rispose:

«L’amico riposa in pace ed è rientrato nella eterna normalità delle anime e delle cose. Non poteva guarirlo che la morte e la morte lo ha veramente guarito. Su quel viso, dopo la vita, ricomparve la nobile espressione della ragione umana».

Arrigo Boito, Lettera a Giuseppe Verdi

Al suo funerale furono presenti solo pochi amici. 
La funzione si svolse nella Chiesa di San Gerardo di Monza e il feretro fu portato a Milano dove fu sepolto in una semplicissima tomba nel Cimitero Monumentale.

Nicola Guerini

 

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