La maggior parte di noi dispone di una tecnologia portatile in grado di riprodurre musica. Selezioniamo ogni giorno una colonna sonora personale, dei brani che ci accompagnino nella nostra giornata, che ci impegnino nell’ascolto o permettano, magari, di distrarsi.Grazie a questi dispositivi noi possiamo costruire un ascolto individualizzato, che si basi non solo sulla scelta del brano da riprodurre, ma sulla modalità stessa di riproduzione, sull’intensità di volume, sulla possibilità di interrompere o al contrario enfatizzare un determinato momento. La creazione di questo micro-cosmo personale è quello che potremmo chiamare l’appropriarsi di un brano, ovvero il far diventare proprio un ascolto. Il problema risiede tuttavia, nella condivisione: se dovessi descrivere a qualcuno gli aspetti di un brano – o di una determinata esecuzione – che lo rendono particolare a me, in quel momento riscontrerei una grave lacuna del linguaggio nei confronti dell’esperienza musicale tout court. Quello che è il mio ascolto, ciò che io di quella musica rilevo in prima istanza – o anche in ultima, se vogliamo – sembra intraducibile nella lingua. Certamente il senso della vista è molto più in relazione con il linguaggio che l’udito. Nonostante la rilevanza del tema, l’esperienza dell’ascolto di un brano musicale ha iniziato ed essere tematizzata solo recentemente. Dove ha origine la mia esperienza dell’ascolto? Si può tracciare una storia dell’ascolto, fino ad arrivare alle caratteristiche dell’ascoltatore moderno? Questi interrogativi sono affrontati in maniera interessante nel saggio di Peter Szendy, Écoute. Une histoire de nos oreilles (Minuit, 2001), non ancora tradotto in italiano. Il titolo va preso alla lettera: si tratta di una delle storie possibili perché, come Szendy accenna nell’Introduzione, è impossibile tracciare una chiara e netta genealogia dell’ascoltare. L’udito non ha infatti mai rivestito un ruolo di prim’ordine nella cultura umana, poiché considerato sempre un senso poco affidabile e ingannevole (e in fondo marginale).

Szendy ricorda come solo nell’ultimo secolo l’attenzione verso questo genere di tematiche si sia sviluppato (basti pensare ai cosiddetti Sound Studies) e che questo interesse tardivo si rifletta anche nel concetto stesso di musica: dal punto di vista legislativo, infatti, fino alla Rivoluzione Francese, la musica era accorpata al genere artistico della letteratura; in seguito, dal 1793, essa è stata accomunata al teatro e alle arti sceniche (in Italia, De Sanctis è noto per aver accomunato la musica al ricamo).

Tutto ciò risulta interessante per comprendere come la musica non sia stata mai concepita come un campo “a parte”, ma come sia stato sempre necessario ricorrere ad una sorta di ausiliare, un ponte che consentisse di poterne parlare. Il nostro stesso modo di esprimerci, così intriso di metafore visive, difficilmente riesce a descrivere un fenomeno sonoro. Si tratta di una problematica annosa, quella che concerne il domandarsi se la musica sia o meno una forma di linguaggio. Lungi dal poter rispondere ad una tale questione in questo contesto, seguiamo l’argomentazione dell’autore.

Ci chiediamo infatti: come è possibile vedere il mio ascolto? Come è possible mostrarlo a qualcun’altro? Szendy osserva acutamente – e senza alcuna pretesa innovatrice – che per poter rispondere a questa domanda, si deve ricorrere all’operazione dell’arrangiamento, quella procedura secondo la quale un autore trascrive un brano (suo, o di un altro autore) per una strumentazione diversa da quella originale. Per Szendy, l’arrangiamento costituirebbe il lato visibile di un ascolto personale, la sua materializzazione e incarnazione. Liszt ha ascoltato Beehoven e quella sua peculiare maniera di ascoltarlo lo ha portato a trascriverlo e arrangiarlo, come ha fatto Stokowski con delle fughe del Clavicembalo Ben Temperato di Bach o Gould con l’Idillo di Sigfrido di Wagner.

Il fatto di arrangiare un pezzo, d’altronde, segna chiaramente uno sbilanciamento dell’autore in questione, una sua predilezione. Si pensi all’arrangiamento del Quartetto in Sol Minore di Brahms ad opera di Schönberg, di cui lo stesso ha scritto: “le mie ragioni [per aver arrangiato il Quartetto di Brahms]: 1. Mi piace questo pezzo. 2. È suonato raramente. 3. È suonato sempre in modo miserevole, se il pianista è bravo allora suonerà in modo tale da non far sentire nulla degli archi. Io volevo sentire tutto, e ci sono riuscito.”

Dal canto di un semplice ascoltatore, grazie allo sviluppo delle tecniche di riproduzione e di cattura del suono, è anche a lui consentito di operare qualcosa nella musica, di alterarla a suo piacimento. Szendy sembra qui approfondire quello che già Glenn Gould (L’Ala del Turbine intelligente, Adelphi 1988) aveva sottolineato come cruciale nel passaggio all’esperienza musicale moderna: la necessità di una completa libertà, per chi ascolta, di riadattare l’esecuzione secondo i propri criteri estetici, motivo per il quale Gould considerava in progressivo declino l’esperienza della sala da concerto, data la sua proposta non democratica e non flessibile all’ascoltatore.

Nella terza parte del saggio, Szendy si confronta poi con l’inevitabile ‘sociologia dell’ascoltatore’ di Adorno; eppure Szendy non sembra qui afferrare davvero la pregnanza della critica adorniana: secondo Szendy, il punto debole della caratterologia di Adorno è quella di coinvolgere tipologie non flessibili, ossia quella dell’ascolto esperto ; insomma, per Adorno tertium non datur, e l’ascoltatore occasionale, cioè distratto, non ha posto nel mondo della conoscenza musicale. Eppure Adorno – contrariamente a Szendy – presuppone un elemento importantissimo: l’opera musicale non è – come invece afferma Szendy – paragonabile ad un libro; l’opera musicale è, prima di tutto, un insieme di armonie, anzi una progressione di determinate armonie, se vogliamo.

Una sinfonia ha una “trama”? Una risposta affermativa implicherebbe che una sinfonia fosse costituita da momenti non essenziali ad essa – poiché la trama è, secondo il vocabolario, “la linea essenziale di svolgimento dei fatti più importanti”; in tal modo, l’ascoltatore sarebbe legittimato a “spegnere” talvolta il cervello e interrompere l’ascolto. L’organicità di un’opera, il fatto che se ad un brano venisse prelevato un frammento ne consegua una perdita del senso totale – della direzione – del brano stesso, sembra quindi essere un elemento ignorato da Szendy.

In generale, ci troviamo di fronte ad un comportamento consueto nei confronti del radicalismo di Adorno, comportamento che preferisce salvare la discrezione – la moderazione – pur di opporsi a un (presunto) dogmatismo. Eppure, Adorno non nega la possibilità, a un “profano”, di accedere alla conoscenza e all’esperienza musicale. Si afferma solamente che un tipo di ascolto esperto – che, ovviamente, con tutti i meccanismi di distrazione di massa, che modulano progressivamente la nostra sensibilità, è ad oggi utopico – richiede il poter e dover seguire un brano nel suo intero svolgimento. Se mai, si potrebbe obiettare alla sociologia adorniana che un tale tipo di ascolto sia d’un lato irraggiungibile, per i motivi sopra accennati, dall’altro più acquisibile rispetto al passato, proprio per lo sviluppo tremendo delle tecniche di riproduzione che – come per la critica cinematografica, che si può permettere oggi una cura del più minuto dettaglio, inimmaginabile anni fa – consente di poter analizzare un brano dettagliatamente e, soprattutto, riascoltarlo.

Molti saggi musicali odierni trascurano l’aspetto fenomenologico dell’ascolto, o meglio una descrizione di cosa accada dal punto di vista coscienziale quando “prestiamo orecchio” a un brano musicale. Eppure già Edmund Husserl aveva affrontato l’argomento nelle sue Idee – senza dimenticare Helmuth Plessner, e Alfred Schütz, fino ad arrivare al compianto Giovanni Piana, in Italia. Non è possibile omettere che cosa succeda quando ascoltiamo un accordo di Do maggiore e il fatto che, se a questo segue un accordo di Sol maggiore o invece uno di Re Maggiore, si avranno due tipi di fenomeni diversi. Da questo punto di vista, perdersi (non ascoltare) un passaggio armonico è perdere gran parte del senso di un’opera musicale. Nessuno vieterà mai (si spera) l’ingresso ai teatri a chi voglia godere superficialmente di un brano, ma il livello di fruizione sarà necessariamente diverso da quello di chi ha un’abitudine e un esercizio all’arte dell’ascolto musicale.

Artin Bassiri Tabrizi