L’America musicale

di Emanuele Arciuli

Autore: Silvia D'Anzelmo

13 Dicembre 2019
Abbiamo incontrato il pianista Emanuele Arciuli, interprete dalla forte personalità e dal tocco estremamente originale. Con lui abbiamo affrontato il ‘problema’ della musica americana contemporanea: la sua inesistenza nel repertorio europeo e le sue caratteristiche estetiche, soffermandoci sul programma che Arciuli ha deciso di eseguire per il 56° Festival Nuova Consonanza, il prossimo mercoledì 18 dicembre.

Come nasce il suo amore per la musica americana?
È nato, quasi per caso, dalla mia frequentazione del Festival di musica contemporanea organizzato dall’università di Cincinnati a partire dalla metà degli anni novanta. I giovani compositori americani preparavano l’esecuzione dei loro brani con dei tutor (tra i quali c’ero anche io) mentre i compositori di una certa fama venivano ospitati per lavorare con grandi artisti. In quell’ambiente ho avuto l’occasione di conoscere molti di loro, di lavorare con loro e attraversare parte di questo repertorio vastissimo. Più avanti, alcuni compositori americani hanno cominciato a scrivere brani perché io li suonassi quindi ho cominciato a frequentare assiduamente gli Stati Uniti. Per me è stato un vero e proprio effetto domino: conoscere i compositori americani mi ha portato poi a suonare in America e quindi a frequentare gli artisti americani, ho cominciato ad apprezzare la loro cultura e la loro arte (non solo musicale).

Stranamente queste musiche non sono molto conosciute e apprezzate in Europa. Come mai?
Onestamente è una faccenda che non riesco proprio a capire. Non potremmo mai immaginare il cinema senza i grandi capolavori americani, o l’arte contemporanea senza Andy Warhol o Jackson Pollock, né la letteratura senza Philip Roth, Jack Kerouac e tanti altri. E non capisco proprio perché la musica debba fare eccezione, è una vera e propria anomalia: l’America ha avuto un ruolo fondamentale negli sviluppi musicali del secolo scorso. Credo che sia piuttosto una ‘patologia’ europea che un problema della musica americana.

Il prossimo mercoledì, 18 dicembre, lei sarà ospite del Festival Nuova Consonanza. Cosa ha scelto di eseguire?Il programma che ho ideato per il concerto che Nuova Consonanza mi ha commissionato, in realtà, è molto semplice e ruota tutto intorno a un unico pezzo che è la Concord Sonata di Charles Ives, il più importante compositore americano della prima metà del novecento. L’ho scelta perché il programma del 56° Festival di Nuova Consonanza verte sulla dimensione filosofica della musica, anzi della musica come pensiero. E la Concord Sonata si basa su un enorme impianto teorico che prende spunto da quello che, forse, il primo movimento filosofico ed estetico nato in America: il Trascendentalismo. Non stiamo parlando di un fenomeno contemporaneo a Ives e nondimeno il compositore sceglie di omaggiare grandi pensatori come Emerson e Thoreau, scrittori come Hawthorne e Alcotts ai quali dedica i quattro movimenti della sua sonata. Credo, dunque, che la Concord sia una composizione dalla grande densità di pensiero che si adatta perfettamente al tema del Festival. A questo brano ho unito Alicudi, l’ultima casa di Emanuele Casale, scritto appositamente per l’occasione dietro la commissione mia e di Nuova Consonanza. Casale è un profondo conoscitore della cultura americana e, per comporre questo brano, ha deciso di affiancarsi a Noam Chomsky, uno dei più grandi intellettuali dell’America di oggi. Fantasia on an Ostinato di John Corigliano, invece, ho deciso di inserirlo perché si basa sull’Allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven di cui ricorrono i 250 anni dalla nascita tra brevissimo.

Ognuno di questi autori sembra puntare molto sulla comunicazione con il pubblico. Come queste strutture riescono a coinvolgere maggiormente l’ascoltatore rispetto alla musica contemporanea europea?
Silêncios, Atmosferas e Utopias di Andrea Pinto è il brano più vicino alle avanguardie europee, anche perché è una delle sue composizione giovanili, poi ha preso altre strade. Emanuele Casale, invece, è andato progressivamente verso una semplificazione. Come uno scultore che elimina il superfluo per arrivare all’essenza, così la musica di Casale è fatta di poche note tutte importanti, anzi fondamentali, e con una grande carica emotiva. Nel caso di Corigliano, la sua è una poetica sostanzialmente neoromantica che persegue una comunicazione di stampo tradizionale, oserei dire quasi ottocentesca con la costruzione di climax, effetti sorpresa e ripetizioni ipnotiche. Per Ives, invece, la faccenda è differente: la Concord Sonata ha una grande urgenza di comunicare ma è talmente corposa e ricca di idee che qualche volta diventano un ostacolo alla stessa comunicazione. È talmente tanto quello che Ives ha da dire che tutto si affastella, si concentra e si confonde. Non è certo un brano semplice da porgere al pubblico, bisogna dare un ordine a questo intricato reticolo, senza togliere nulla alla sua complessità. È una composizione che mi accompagna da molto tempo e con la quale faccio i conti da più di dieci anni ma continua a essere sempre un enigma. Qualche volta, però, gli enigmi possono essere affascinanti, anche per il pubblico. Tra l’altro è uno dei brani più importanti del Novecento ed è assurdo che non sia ancora entrato stabilmente in repertorio.

Questa organizzazione musicale presuppone un tipo di tempo e un ascolto differente. In che modo, secondo lei,  bisogna porsi per seguire queste musiche?
Credo che il problema essenziale della musica contemporanea sia proprio la sua temporalità. Il tempo della contemporaneità è molto complesso: siamo immersi in una realtà velocissima che determina una rapida caduta della soglia di attenzione rispetto al passato. Tutto è frazionato, tempi differenti si sovrappongono nella nostra vita quotidiana. Nella musica di Ives, per esempio, vediamo come ritmi e tempi differenti coesistano nel medesimo istante. Questa indagine sul tempo che ha una dimensione complessa è proprio la chiave per comprendere questo genere di musiche. Non si possono applicare le stesse categorie che solitamente guidano l’ascolto di una musica come quella di Beethoven, per esempio. Bisogna immergersi in questa esperienza, lasciarsi attraversare senza voler capire tutto lucidamente, piuttosto bisognerebbe appellarsi al proprio lato emotivo. È una musica che, ascoltata nel modo giusto, ci lascia cambiati profondamente. Ascoltandola impariamo qualcosa in più non solo sulla musica in sé ma anche su noi stessi.

Verso cosa si muovono i giovani compositori americani?
Gli interessi sono molteplici. I compositori oggi si trovano davanti un panorama non solo molto vasto ma anche estremamente eterogeneo. C’è una grande attenzione alla dimensione del rumore, alla noise music, alla musica l’elettronica. E c’è moltissima influenza del rock, del jazz, del pop che in America esiste già da molto tempo ma che continua ad avere una grande importanza. I compositori americani scrivono canzoni come nessun compositore colto europeo saprebbe fare perché non hanno paura a entrare in quella dimensione, di sporcarsi le mani. Ci sono vari compositori di grande interesse in America, alcuni sono anche deejay. La cosa da considerare è che molti di loro non hanno la nostra conoscenza del passato musicale, o meglio, ne hanno un altro. La loro storia è più recente: conoscono benissimo Frank Zappa, i Led Zeppelin o i Jefferson Airplane. Hanno una memoria e una prospettiva storica profondamente diverse dalle nostre e questo influenza la loro immaginazione che si basa su altri archetipi. La loro musica è una sfida anche per noi esecutori europei perché abbiamo una tradizione interpretativa che non ha nulla a che vedere con la loro: il loro mondo espressivo è fresco, vitale ma soprattutto libero.

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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