La musica acusmatica a Bari

il Festival Silence

Autore: Matteo Macinanti

12 Dicembre 2019
Giunto alla quindicesima edizione, il Festival Silence anche quest’anno propone al pubblico un repertorio di musiche provenienti da tempi e luoghi diversi, accomunati dall’appartenenza alla corrente musicale detta “acusmatica”.
Abbiamo intervistato il direttore artistico Franco Degrassi alla vigilia della due giorni che il 14 e 15 dicembre prenderà vita alla Cittadella Mediterranea della scienza di Bari.

Il Festival Silence è giunto alla 15esima edizione. Possiamo già fare un bilancio di questi primi quindici anni? Cosa ci possiamo aspettare da quelli a venire?

Non so se possono essere gli organizzatori a fare il bilancio del festival, quello che si può dire è che abbiamo cercato di importare la pratica di una disciplina, l’acusmatica, che 15 anni fa in Italia era poco considerata e sopratutto non vissuta come una arte autonoma ma solo come una branca di una meta disciplina – la musica elettronica, poi musica elettroacustica– che in realtà probabilmente è solo un termine ombrello oggi poco significativo. La musica acusmatica, nata con il nome di musica concreta in Francia e di musica elettronica in Germania, invece ha una sua identità precisa, è musica per altoparlanti, “Musica di suoni” come scrive M. Chion, un’arte per un “ascolto cieco”, senza ausilio del senso della vista e quindi caratterizzato da una estrema sensibilità alle sfumature del suono e da una continuo spostamento da una dimensione referenziale del suono (il rimando ad una sorgente reale o presunta) ad una dimensione morfologica (la considerazione dei tratti puramente sonori come la massa, la fattura, la dinamica ecc..) ad una dimensione puramente emotiva.

Quello che si è cercato di fare, in una realtà periferica come Bari, è dare conto del patrimonio storico di questa disciplina, presentando i classici ma anche promuovendo opere del presente; è provare a dimostrare che i concerti acusmatici possono essere una realtà viva, interessante e coinvolgente se adeguatamente programmati; è stimolare attenzione per una pratica “difficile” in un periodo in cui l’ascolto di “musiche difficili” sembra quasi bandito dai programmi, che si tratti di musica classica o anche di pratiche di popular music o di jazz. Siamo in una epoca che respinge l’impegno, anche nell’arte, come una sorta di malattia ideologica del passato: ma è un’epoca che potrebbe, io lo spero, essere agli sgoccioli ed il vento potrebbe cambiare direzione.

Del futuro, comunque, non si può dire nulla, del presente si può dire che è molto complesso mantenere in piedi una baracca sperimentale in tempi di “vento di bonaccia” culturale.

Gli albori e il presente: quali sono le trame dell’edizione 2019 che, aprendo con Parmegiani e chiudendo negli ultimi appuntamenti con Maderna, ripercorre a ritroso la storia della musica acusmatica?

Non c’è una trama precisa in questa edizione: si apre con Parmegiani perché abbiamo aperto con Parmegiani, e con quell’opera di Parmegiani, De Natura Sonorum, nel 2004. SI chiude con 2 lavori, il Maderna di “Notturno” è affiancato ad una composizione del nostro amico Gianni Lenoci, musicista jazz, improvvisatore e sperimentatore di rilevanza internazionale, che è venuto a mancare poco tempo fa. Gianni era molto legato a “Notturno” ed amava “remixarlo” con altri suoi lavori, lo usava in modo ardito ma sempre con un rispetto totale verso la figura di Maderna.

Il festival è dedicato a Gianni, e quindi abbiamo affiancato una sua composizione proprio a “Notturno”, che lui amava tanto.

Uno spazio particolare è riservato ai giovani compositori. Che direzioni sta prendendo oggi l’arte acusmatica?

Non sono in grado di individuare una tendenza precisa ma mi sembra che, nel bene e nel male, si stia formando una generazione di musicisti che vivono le loro esperienze a cavallo tra acusmatica e musica elettronica popular, come la techno o altri generi in cui il richiamo al corpo, al movimento ed alla danza è essenziale. Come ogni fenomeno anche questo va considerato in modo globale, cogliendone gli aspetti contraddittori e le potenzialità di sviluppo. Sicuramente dal punto di vista quantitativo si assiste ad un aumento di interesse verso l’arte acusmatica, probabilmente andrebbero rafforzate le strutture concertistiche e potenziati i sistemi di proiezione sul territorio nazionale, ma qualche timido segnale sembra arrivare in proposito.

Il dialogo tra Oriente e Occidente è ben vivo nel contesto del Festival Silence. Cosa vuol dire lavorare e dialogare con questo mondo?

Certamente, sin dagli albori, sia la musica acusmatica che la musica strumentale e vocale che utilizza anche tecnologie elettroacustiche dal vivo, sono state entrambe praticate in comunità diffuse in tutto il mondo, che parlavano linguaggi artistici simili, sia pure avendo alle spalle contesti nazionali o continentali differenti e significativi.

In realtà le linee di condivisione o di differenziazione poetica non seguono confini nazionali o continentali ma aggregazioni culturali e di pensiero. Per cui per esempio in Giappone in una prima fase è stato il modello “tedesco” di musica elettronica a sedimentare una scuola locale (con significative eccezioni come Toru Takemitsu) mentre da alcuni anni si è affermata una tendenza che fa riferimento alla tradizione della “musica concreta” francese.

Inoltre lo sviluppo delle reti telematiche, e dei social network, anche qui nel bene e nel male, hanno consentito negli ultimi decenni lo sviluppo di contatti orizzontali tra gruppi che nel passato sarebbero rimasti isolati, per debolezza organizzativa ed estraneità alle istituzioni concertistiche ed accademiche tradizionali, più solide organizzativamente e per possibilità di accesso ai media generalisti. Quindi dialogare con un collettivi come Hirvi, che opera avendo come base Osaka in Giappone, è magari più facile per noi che comunicare con molte realtà italiane.

Com’è la risposta del pubblico, locale e non, al festival?

La risposta ha un andamento irregolare ed è condizionata da vari aspetti: quello che si è già detto, l’impigrimento culturale e direi percettivo di larghe fasce di pubblico, quante volte ci si sente dire che “la musica deve rilassare dopo una settimana di stress lavorativi ed esistenziali”…; la difficoltà per il festival, a causa dell’esiguità delle risorse disponibili, di accedere ad una visibilità mediatica; la sede del festival che è ubicata in piena zona industriale di Bari, e non in centro; la sala che per molti anni non ha avuto riscaldamento e generi di conforto (oggi le cose sono cambiate).

Ma, nonostante questi fattori, il pubblico sembra reggere, è un pubblico giovanile, di curiosi, intendendo per curiosi gli ascoltatori che vogliono esplorare, che vogliono fare esperienze. Pochi “accademici”, pochi spettatori tradizionali della musica classica e del jazz, molti frequentatori di “musica elettronica” popular e di rock.

Non ho un quadro nazionale ed internazionale preciso, ma credo sia una tendenza generalizzata.

Matteo Macinanti
Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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