Autore: Redazione

8 Dicembre 2019
La storia del pianismo sovietico è costellata da innumerevoli grandi nomi, molti pressoché sconosciuti in Europa; tra questi vi è senza dubbio Grigorij Mihaijovich Kogan.
Nato nel 1901 a Magiliev, nell’attuale Bielorussia, si trasferisce ben presto insieme alla famiglia a Berlino, dove inizia la sua educazione musicale. Rientrato a Kiev già nel 1911, viene ammesso in conservatorio successivamente, nel 1914, nella classe di pianoforte di V.V. Puhalskij e nella classe di composizione di R. Gliere, diplomandosi infine a pieni voti nel 1920. Un’epoca dorata, questa, per il conservatorio di Kiev, all’interno del quale passano e si intersecano nomi che faranno la storia della musica e del pianismo sovietico.

[blockquote cite=” Heinrich Gustavovič Neuhaus, 1956″ type=”left”]Conosco Grigorij Mihajlovich Kogan già da ben quarant’anni. Quando ci siamo conosciuti, io ero relativamente un giovane professore del Conservatorio di Kiev, mentre Grigorij Mihajlovich aveva con successo terminato gli studi al conservatorio nella classe dell’eccellente e famoso pianista e didatta V. V. Puhalskij.[/blockquote]

Kogan

Grigorij Mihaijovich Kogan

I grandi successi arrivano dopo il diploma, quando agli innumerevoli concerti, il giovane Kogan affianca l’insegnamento presso il Conservatorio di Kiev dal 1920 e successivamente dal 1936 presso il Conservatorio di Mosca, nel quale lavorerà fino al 1943. Qui fonderà una nuova cattedra che prenderà il nome di “Storia e teoria del pianismo”. All’interno della sua classe passerà anche un giovane Svjatoslav Richter, annoverato in seguito tra le maggiori personalità che abbiano contrassegnato il XX secolo musicale.
Nel 1943 si licenzia. I motivi di tale licenziamento si trovano nel libro “Romanzo della mia vita” di recente pubblicazione. Le sue dimissioni furono un atto di protesta contro l’antisemitismo e repressioni durante l’evacuazione del conservatorio di Mosca presso la città di Saratov. La lettera di protesta portante la firma di illustri professori e rivolta al Comitato non ebbe mai risposta. Rimasto senza lavoro, trovò supporto nel 1948 da parte dell’Unione dei compositori dell’URSS. Dal 1949 al 1951 fu però nuovamente oggetto di accuse e repressioni da parte del governo. In questo triennio si dedicò intensamente alla scrittura e alla ricerca.

Tornerà ad insegnare in conservatorio solo nel 1951 a Kazan. In questi anni tra i suoi allievi è da annoverare la celebre musicista e compositrice Sofija Asgatovna Gubajdulina.

Kogan

Kogan e Gubajdulina

Dopo un lungo periodo ed un rapporto complesso, ritornerà presso il conservatorio di Mosca soltanto nel 1965.
Musicista, didatta e teorico molto prolifico, lasciò in eredità ai giovani pianisti molti saggi e scritti, tra cui anche una biografia di Busoni (musicista nel quale rivedeva una sensibilità simile alla sua) e un trittico fondamentale per comprendere non solo il pensiero dell’autore, ma più in generale i principi del pianismo sovietico: Alle porte del mestiere (premesse psicologiche per il successo nel lavoro al pianoforte) (1958), Il lavoro del pianista (1963) e La struttura del pianoforte (1961).
Molto di quello che è contenuto in questi scritti, che hanno trovato la loro pubblicazione solo dopo la seconda guerra mondiale, è il frutto del lavoro svolto durante gli anni di insegnamento nei diversi conservatori.

Sfogliandoli , Kogan si rivela a noi come uomo del suo tempo: sovietico (e convinto marxista fino alla fine dei suoi giorni), scienziato e poeta; estremamente pragmatico e sicuro nelle sue convinzioni, non pecca di superbia. Una sincera e forte vocazione all’insegnamento lo porta all’uso di un linguaggio chiaro e pratico, svelando i “segreti del mestiere” a un lettore pianista che diventa il protagonista del saggio stesso. D’altronde, la generosità è una caratteristica comune agli uomini sicuri di sé…

L’elemento psicologico e il rimando continuo a Konstantin Sergeevič Stanislavskij è ciò che sicuramente contraddistingue i suoi scritti, anche se non è una sua esclusiva.
Il pensiero del celebre attore e regista sovietico è, infatti, una chiave d’accesso fondamentale per comprendere il pensiero di quell’epoca e la ricerca verso la quale tutti gli artisti in qualche modo tendono, indistintamente dal campo specifico di appartenenza.
Del resto, l’opera sopra citata Alle porte del mestiere è una sorta di applicazione del metodo Stanislavskij allo studente pianista. Seppur differente nella forma (non è un metodo-romanzo), lo scritto è ricco di citazioni ed esempi da Il lavoro dell’attore su sé stesso di Stanislavskij, tanto che sembra ricalcarlo sulla medesima falsariga. Non stupisce allora che il secondo saggio, dedicato alla performance artistica e più strettamente tecnico, Kogan decida di intitolarlo come Il lavoro del pianista.

Il lavoro e l’osservazione di sé stessi nella fase di approccio dello studio e dell’interpretazione pianistica sono i fili che muovono tutto il pensiero didattico di Kogan. La prefazione della prima edizione di Alle porte del mestiere ne sono una chiara esemplificazione.

[blockquote cite=”G. Kogan” type=”left”]L’osservazione pluriennale del processo del lavoro pianistico ha condotto l’autore alla convinzione che il successo di esso, incluso anche il lavoro puramente tecnico, dipende non solo da come interpretare un pezzo, eseguire una frase, tenere le mani, mettere le dita, produrre i suoni e così via, ma anche da come è “installata” la psiche del pianista e dallo stato della sua “configurazione” psicologica durante i compiti a casa. Questa condizione, secondo il parere dell’autore, ha un significato assai importante, decisamente più di quanto si pensi e spesso decisivo per il destino del giovane pianista, determinante il successo o l’insuccesso del suo lavoro. Questo vuol dire che la giusta “configurazione” […] è una condizione indispensabile per il raggiungimento di un pieno successo, condizione che se violata a volte è sufficiente per subire un insuccesso anche in presenza di buone doti pianistiche e di un docente altamente qualificato.[/blockquote]

Ciò che denuncia Kogan in questo lavoro è la costante sottovalutazione del fattore psicologico sia da parte dei giovani pianisti sia da parte della letteratura pianistica dell’epoca. Il fine che egli stesso si propone, è proprio quello di fornire all’esecutore gli strumenti per comprendere appieno questo fattore, e trovare così la strada per il successo.

Leggendo le pagine del libro, si scoprono delle “leggi generali dell’arte” attraverso esempi di pensiero di diversi artisti in differenti campi, anche a prima vista lontani dall’ambito pianistico. Ma, come ci si domanda nella prefazione sopracitata: Non soffre già il nostro pianismo proprio a causa di ciò che troppo bolle nella pentola dei “puri” problemi pianistici? Non servirebbe, prima di tutto, allargare il proprio orizzonte?
Lo scritto, infatti, non ha annotazioni strettamente tecniche (a quelle si dedicherà ne Il lavoro del pianista), ma piuttosto considerazioni che, come annuncia il titolo stesso, sono “premesse” indispensabili “alle porte del mestiere”, e per ciò dedicate quasi esclusivamente al giovane pianista studente che si avvia alla vita professionale.

Per raggiungere l’obiettivo, il successo, l’autore mette nell’ordine tre condizioni, argomentate ognuna in un capitolo specifico: direzionare l’attenzione sul fine, sulla concentrazione e sul desiderio.
Considerazioni che possono sembrare ovvie, ma come scrisse lo stesso Stanislavskij: non è altro che “la scoperta di verità da tempo conosciute”.

Direzionare l’attenzione sul fine è la prima condizione che Kogan argomenta, e per farla comprendere appieno cita una serie di esercizi proposti da Stanislavskij: ad esempio, quello del cogliere una pesca posta su un albero. Ad un allievo fu chiesto di tenere le mani alzate verso l’alto. Nella semplicità dell’esercizio, la posizione risultava però rigida e poco convincente. Allora l’insegnante consigliò all’allievo di immaginare di cogliere una pesca situata in cima all’albero. Il corpo dell’allievo cambiò subito diventando visibilmente armonioso. Questo è quello che Stanislavskij chiama “compito vivo” ed è quello che Kogan intende per prima condizione:

“Il compito vivo”, ovvero la tendenza della coscienza essenzialmente non nell’azione realizzata, ma al fine per cui essa viene compiuta, è la levatrice della tecnica, il successo nel lavoro.
(G. Kogan)

Queste riflessioni vertono intorno a quello che possiamo chiamare “azione cosciente”, non molto distante dall’insegnamento di filosofi come Gurdjeff e Steiner e da ciò che gli psicologi del cognitivismo negli anni 80 del secolo scorso definirono come “processi attentivi controllati e automatici”.
L’inizio di una nuova attività richiede uno sforzo cosciente importante. L’intensità di questo sforzo, però, man mano diminuisce perché tale abilità viene “imparata”, “metabolizzata” dal corpo fino a diventare praticamente meccanica.
L’insegnamento di Kogan è di quello che esorta a non entrare in questa meccanicità, ma a dare sempre uno scopo all’azione, una direzione verso cui tendere.
Per inciso, osserviamo che tali concetti si ritrovano nelle sue argomentazioni tecniche, ad esempio nello studio sulla cantabilità, ne Il lavoro del pianista: non solo la direzione verso cui tendere viene intesa in senso stretto, dove e come condurre la frase, ma proprio l’azione cosciente, la consapevolezza del proprio movimento, e del proprio corpo quindi, è il fattore indispensabile per la risoluzione dell’elemento tecnico.

[blockquote cite=”G. Kogan” type=”left”]La cosa importante da cui dipende quest’ultima [cantabilità al pianoforte] non è soltanto il modo di estrarre separatamente ogni suono della melodia, ma quanto la modalità di combinazione dei suoni, la loro fusione in una intonazione, proposizione, periodo, modalità di fraseggio. […] Cosa c’è alla base del saper “cantare” al pianoforte una frase? Alla base c’è il possesso di quello che può essere chiamato come il respiro della mano. […] La mano del pianista […] deve saper prendere una successione logica di suoni “in un respiro”, in un unico difficile, ma globale movimento. […] L’unitarietà di questo movimento non deve essere violata da nessuna spinta, da nessuna mossa aggiunta, da nessun movimento per “liberare” il gomito […][/blockquote]

Cioè, il fine a cui tendere è sempre rivolto ad un processo creativo attivo e non si perde nei dettagli biomeccanici; al contrario, contestualmente all’identificazione di uno scopo artisticamente alto a cui protendersi, le difficoltà tecniche trovano la loro adeguata risoluzione.

Ritornando allo scritto Alle porte del mestiere:

“Guarda dritto al fine”, questa è la prima regola in qualsiasi lavoro, la prima premessa per il successo nel lavoro. Relativamente al pianoforte, questo significa: ascolta mentalmente quella musica che hai intenzione di eseguire, immaginati quel suono che hai intenzione di produrre.

Kogan, quindi, espone un possibile dubbio che può sorgere nel lettore, che però presto risolve:

Non c’è probabilmente un pianista che non miri al suonar bene. Da dove quindi una così grande quantità di sfortunati in questo campo? Come mai “guardare dritto al fine” sembra esser per loro senza risultati?

[…]Perché l’allievo vede mentalmente ciò che succede dopo l’esecuzione; mentre quello che succede durante l’esecuzione lo immagina considerevolmente peggio, lo ascolta ancor più sfocato. Ed anche pensando alla stessa esibizione, si prefigura il proprio stato d’animo, le proprie sensazioni sotto lo sguardo di centinaia di persone, più che come lui esegue, come interpreta il brano, come esso battuta dopo battuta si svolge e come suona questo o quell’altro punto.

[…] Ma questo vuol dire che il fine delineato dall’allievo è sbagliato, che la sua coscienza è occupata non da quello che serve, è distratta da quello che dovrebbe essere lo scopo delle proprie azioni compiute: da qui la non riuscita nel lavoro.

Kogan

Edizione unita di “Alle porte del mestiere” e “Il lavoro del pianista”

Arrivati al capitolo successivo del libro, non ci allontaniamo molto da quanto egli ha scritto nel precedente, poiché la concentrazione, la seconda delle condizioni propedeutiche al successo del pianista, è strettamente legata al soggetto precedente e ne è un proseguimento naturale.

Concentrare l’azione significa, che si ha un punto focale, nel quale è raccolta tutta la psicologica e consapevole attività.

La concentrazione non è soltanto la chiave di un buono studio, ma è specialmente ciò che “lava via” l’agitazione prima di una esecuzione in pubblico.

L’ansia da prestazione è un sentimento a quanto pare antico, e nonostante le considerazioni di Kogan siano di un momento storico e geografico diverso dal nostro, l’attualità di esse è piacevolmente sorprendente e rincuorante.
Le motivazioni di tale ansia sono molteplici. Kogan, citando un professore di matematica, asserisce che l’agitazione avviene perché “voi non pensate al teorema, ma a voi stessi”.
Concentrarsi sul proprio lavoro e non su sé stessi è quindi l’essenziale consiglio:

Anche nei casi di serio pericolo, quando c’è davvero di cui avere paura, l’uomo non prova affatto paura o agitazione, se la sua testa è pienamente occupata da ciò che sta facendo.

Saltando nel tram in corsa, rischiamo di gran lunga maggiormente che “saltando” sul re diesis nella “Campanella”; tuttavia nel primo caso noi non siamo agitati, perché non c’è tempo per questo.

[..] Il dodicenne Cernyshevskij [Nikolaj Gavrilovich Cernyshevskij (1828 – 1889) fu un filosofo, scrittore e giornalista russo, protagonista del movimento rivoluzionario democratico della metà dell’ottocento] si spaventò per un incendio; ma non appena iniziò, insieme agli altri, a guardarsi attorno e portar a più riprese dalle case brucianti il legname e gli oggetti, tutto cambiò: “Dove è finito – raccontava lui – tutto il mio terrore!… Colui che lavora non ha mai… di che spaventarsi…”

Riportando questa e altre testimonianze, Kogan traspone questi atti di concentrazione nel lavoro artistico, con il sostegno ovviamente dell’insegnamento di Stanislavskij, citandone due passi:

“Il segreto sembra essere proprio semplice: per distrarsi dal pubblico in sala, bisogna appassionarsi a quello che c’è in scena”

“Il vero studente non conosce paura, poiché in lui tutto è dedito al compito che gli è stato assegnato dal ruolo, dall’insegnante o dal regista. Dove trovare qui il tempo per pensare: “Riuscirò nella recitazione?”, “Cosa diranno le persone qui sedute?”, “Che paura uscire sul palco, tutti mi guarderanno e mi criticheranno”… Dirottate la raddoppiata vigile attenzione verso le specificità del ruolo, distogliete l’attenzione da voi stessi e portatela al rafforzato esame delle organiche qualità del vostro eroe.., e così rinforzerete il vostro processo creativo… L’artista, profondamente dentro ai compiti artistici del ruolo, non ha tempo di occuparsi delle proprie agitazioni e di se stesso come personalità …”

Ma l’attenzione e la concentrazione non bastano purtroppo da sole. La terza, e forse anche più importante condizione per il successo è il desiderio, la passione verso il proprio operato.

[blockquote cite=”G. Kogan” type=”left”]Il desiderio, la passione genera l’abilità, ma non la sostituisce, come una madre non sostituisce i propri figli. Ma l’abilità ha, come si suole dire, non soltanto una madre ma anche un padre. Il padre dell’abilità è il lavoro.
[…]
“Tutto nell’arte è costruito sul lavoro” – afferma Stanislavskij, – e amaramente si disillude chi “vede solamente un lieto ponte portante le sue ispirazioni” nel mondo dei desideri. “… Non il talento, non organizzato e vinto dalle impressioni esterne, ma il lavoro su esso è l’unica via per l’arte[/blockquote]

Il talento non è sufficiente senza il lavoro e soprattutto la passione per esso. Nel suo estremo attaccamento alla realtà, Kogan però pone un dubbio riguardo a questa prospettiva fin troppo rosea: cosa fare se l’allievo non ha una forte propulsione verso l’impegno? Possibile che il celebre pianista e didatta polacco Theodor Leshetinskij avesse ragione nell’asserire che uno studente flemmatico e privo di temperamento non può in nessun modo dedicarsi all’arte, poiché tali indispensabili caratteristiche non possono essere sviluppate (semmai soltanto affinate)?
Secondo il parere di Kogan, il poco interesse riscontrato in molti allievi è dovuto alla non trovata lingua in comune con il proprio insegnante.
Le frettolose decisioni di molti docenti sull’incapacità artistica dei propri allievi nasce dallo scontro di personalità musicali diverse, anche nel caso di docenti di alto prestigio. L’esempio riportato dal nostro autore è di un allievo dello stesso Leshetinskij, Dezso Zádor targato come senza speranze che cambiando docente (passò nella classe di Busoni) diventò ben presto un celebre pianista.

“Ora, non è che Busoni fosse un docente migliore di Leshetinskij, semmai il contrario. Ma tra Zádor e Leshetinskij non c’erano sufficienti contatti artistici, non c’era una lingua comune nella musica, la quale si è invece manifestata nel rapporto tra Zádor e Busoni.”

Molto spesso, alla radice degli insuccessi professionali si trova proprio questo scontro, unitamente all’assenza di sentimenti in comune verso un determinato repertorio o genere musicale. Il mutamento di questi fattori può essere determinante per costruire un rapporto docente-allievo migliore, sin dai primi anni di studio.
Kogan non è il solo artista che abbia affrontato le tematiche legate alle potenzialità dei giovani pianisti. Altri grandi pianisti e didatti hanno dedicato un considerevole impegno a questo tema e ai problemi connessi ai primi anni di studio.
Ma, questa, è tutta un’altra storia.

Linda Iobbi

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Articoli correlati