Il Requiem di Verdi

secondo Daniel Oren

Autore: Silvia D'Anzelmo

3 Dicembre 2019
In questi giorni la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica risuona del Requiem più buio mai scritto nella storia: quello di Giuseppe Verdi. Il dramma dell’uomo davanti alla morte non trova nessuno scampo in questa musica, mentre la sua disperazione continua a girare in spire concentriche in cui si alternano dubbio e terrore, cifra stessa della partitura verdiana. Perfettamente in linea con questo assunto, la direzione dell’israeliano Daniel Oren riesce a solcare le profondità viscerali del Requiem, mostrando grande intimità con il pensiero di Verdi. Un’esecuzione cesellata al dettaglio, capace di sbalordire per l’incredibile rispondenza al testo che:

Manifesta l’uomo senza metafisica, o meglio l’uomo che percepisce l’assenza di fede e, terrorizzato dal nulla, cerca con tutte le sue forze una voce divina che lo rassicuri. È una forma di spiritualità cristiana profondissima, seppur laica, di colui che con ogni forza vuole credere, cerca la certezza della fede, ma è costretto a confessare di non trovare alcuna risposta rassicurante.
Antonio Rostagno, Un Requiem laico di profonda spiritualità

Il coro e l’orchestra di Santa Cecilia, insieme ai quattro solisti Eleonora Buratto (soprano), Ekaterina Semenchuk (mezzosoprano), Francesco Demuro (tenore) e Ain Anger (basso) sono pronti ai loro posti e aspettano un solo cenno della bacchetta di Oren per partire. Segno che non arriva perché il direttore decide di attendere per un lunghissimo istante per lasciar disporre l’animo a questa invocazione disperata. L’attenzione dell’intera sala è protesa verso il palco, il silenzio è totale. Solo a questo punto, i gesti lenti di Oren danno inizio al rito laico. Il suono profondo del violoncello di Gabriele Geminiani sembra venir fuori dalle viscere della terra stessa, teso e agghiacciante.  Un brivido percorre il pubblico che tende l’orecchio verso il pianissimo quasi impercettibile degli archi acuti a cui risponde il coro: Requiem eternam, dona eis domine. L’Introito si trascina a fatica, lento e inesorabile. La direzione di Oren evoca un’umanità stanca, prostrata e confusa dalla sua stessa condizione terrena. E mentre ancora risuonano le ultime invocazioni alla luce (Et lux perpetua luceat eis), il fagotto di Francesco Bossone punteggia magistralmente il tema discendente che dà inizio al Kyrie. A fargli eco è ancora una volta il violoncello, mentre le quattro voci soliste cominciano ad alternarsi e sovrapporsi disperatamente nelle invocazioni a Cristo: a quella spiegata (e pienamente verdiana) di Demuro risponde cupamente Anger, poi entra la Buratto con la sua voce tersa (che non ha nulla di angelico o confortante, in questo caso) cui si accavallano le scure inflessioni della mezzosoprano Semenchuk. Verdi isola e ripete la parola eleison (pace) e Oren invita i cantanti, con gesti perentori della mano, a eseguire i fraseggi con trasporto ed enfasi. Ogni volta che la parola appare ha una sfumatura differente nelle loro voci, quasi a indicare la volontà ferrea di sperare in una pace eterna mentre qualcosa dentro teme il contrario. E questo lavoro di cesello è stato fatto sull’intera partitura. Ogni parola che il compositore sottolinea con ripetizioni viene esaltata dal coro e dai cantanti sia nelle dinamiche che nei fraseggi lasciando venir fuori la drammaticità insita in quelle insistenze: quella di un’umanità che invoca, per quasi due ore filate, pace, luce, liberazione dalla morte senza ricevere in cambio cenno alcuno.

L’inizio della Sequenza disorienta totalmente l’ascoltatore: brutale, secco arriva il Dies Irae che non lascia scampo per nessuno. Le dinamiche e i tempi scelti da Oren esaltano l’arco drammatico di questa musica. E se l’Introito cammina volutamente a fatica, l’inizio della Sequenza procede a passo marziale distruggendo tutto quello che c’è stato prima. I violenti colpi di timpano invadono la sala come fossero minacce reali, mentre il coro dimostra tutta la sua potenza sonora: compatto, chiaro, un’unica colonna di suono da far venire i brividi. Dopo questa prima occorrenza, il tema del Dies Irae non lascerà mai più le orecchie dell’ascoltatore. È indelebile, e torna come un tarlo nella mente: Oren sonorizza questa reminiscenza in maniera sempre meno aggressiva a livello sonoro ma, al tempo stesso, più cupa e inquietante, come l’eco di un ricordo lontano che si intromette nel flusso dei pensieri, lasciandoci madidi di sudore per l’angoscia.

E così si procede alternando terrore e sconforto con pochissimi momenti luminosi (come il Sanctus e l’Agnus Dei). Coro e orchestra diventano sempre più presenti mentre le voci soliste cominciano a retrocedere quasi sentissero fisicamente quell’agitazione insita nella partitura. Nel Lacrymosa, ad esempio, torna a dominare la fatica. Le voci, perfette nella dizione e nei fraseggi senza sbavature, procedono stanche e meste. I cantanti dimostrano di essere dentro quelle parole che non sono vuote formule prive di significato. La densità di questa esperienza d’ascolto è tale che si arriva al Libera Me sfiancati. Il soprano, solo difronte a coro e orchestra, cerca disperatamente di farsi ascoltare da un Dio muto, ceco e sordo. A più riprese la Buratto chiede misericordia davanti alla morte, invoca la pace. La sua voce è rotta, furiosa e inconsolabile allo stesso tempo. Oren torna ad affrettare i tempi, mentre gli archi sottolineano la tragicità della situazione. Arriviamo alla fuga conclusiva, il Requiem si avvia a tappe forzate verso la fine spegnendosi nel grido estremo, senza forza, del soprano.

Coro, orchestra, cantanti e direttore rimangono immobili, quasi cristallizzati per alcuni minuti. Torna il silenzio, questa volta carico di angoscia più che di attesa. Solo dopo aver creato nuovamente il vuoto, la posa si scioglie e arriva l’applauso: scrosciante, totale e violento tanto quanto la musica appena ascoltata. Si va via dalla sala attoniti, ognuno immerso nelle proprie intime considerazioni. Una cosa è certa: non c’è alcuna consolazione in questa musica, alcun messaggio di redenzione. Ma è proprio questa la fortuna di aver assistito a un’esecuzione del genere, avere la possibilità di lasciarsi invadere dalle amare considerazioni verdiane rievocate da un lavoro autentico fatto sulla partitura da interpreti straordinari. 

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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