Dialogando con Sergej Krylov

il violino nel XXI secolo

Autore: Redazione

21 Marzo 2019
Il violoncellista Mstislav Rostropovič lo ha considerato “uno dei cinque migliori violinisti contemporanei al mondo”. Nato nel 1970 a Mosca, Sergej Krylov inizia a 5 anni lo studio del violino completando la sua formazione alla Scuola Centrale di Musica di Mosca. Debutta giovanissimo come solista e da allora inizia una carriera concertistica che lo vede tuttora protagonista della scena dei più prestigiosi teatri al mondo. Fu l’Italia, tuttavia, il luogo di un incontro indimenticabile, che lasciò in quel giovane talento diciottenne un segno destinato a durare nel tempo.

Dal suo curriculum artistico è possibile leggere che dopo la formazione musicale in Russia si è perfezionato in Italia con Salvatore Accardo. Com’è stato l’incontro con la scuola violinistica italiana e cosa conserva maggiormente di questa esperienza?

Il primo ricordo è quello di aver incontrato un grandissimo violinista, che mi era naturalmente già noto per fama, in quanto avevo ascoltato alcuni suoi dischi a Mosca. Nel 1989 avevo 18 anni ed ero fresco vincitore del concorso “Rodolfo Lipizer”. Venuto a Cremona, Salvatore Accardo mi prese subito nella sua classe, dove ho continuato a perfezionarmi per circa sei anni. Accardo è indubbiamente considerato un rappresentante della scuola violinistica italiana, ma in realtà ciò che ricordo principalmente è che lui è stato in grado di indirizzare il mio sguardo alla visione europea della musica. Bisogna considerare che la chiusura geo-politica della Russia, negli anni precedenti a questa mia esperienza, non aveva permesso una facile circolazione delle informazioni musicali riguardanti lo stile della prassi esecutiva europea. Ricordo che in quegli anni, quando comunque ero già un violinista in un certo senso formato e vincitore dei miei primi premi ai concorsi internazionali, ciò di cui avevo più bisogno era senza alcun dubbio l’apertura all’interpretazione occidentale della musica: necessitavo di questo come di vero e proprio ossigeno. Quello con Accardo è stato un incontro con un grandissimo musicista e una persona straordinaria, che mi ha permesso di comprendere nel profondo i diversi linguaggi musicali dei più importanti compositori , secondo una prospettiva occidentale.

I brani scelti per questo concerto sono tutti celebri capolavori della scrittura cameristica per violino e pianoforte, tuttavia molto diversi fra loro. In qualità di interprete, qual è il suo personale rapporto con le due Sonate – rispettivamente la Sonata in si bemolle maggiore K 378 di Mozart e la “Kreutzer-Sonata” n. 9 op. 47 di Beethoven – e la Fantasia in do maggiore D 934 di Schubert?

Sicuramente sento di dire che la Sonata di Mozart K378 in si bemolle maggiore è una delle mie preferite tra quelle dell’autore. Pezzo davvero complesso, di un’estesa durata temporale e quasi somigliante come difficoltà stilistica e interpretativa alle Sonate per violino e pianoforte di Beethoven. Tra le Sonate di Mozart scritte per questo duo, la K378 è senza alcun dubbio una delle più impegnative e importanti. La Fantasia in do maggiore di Schubert è invece l’apice della difficoltà violinistica, strumentale e musicale, ma chiaramente lo stesso potrebbe dirsi in riferimento alla parte pianistica. Già dall’inizio della Fantasia, infatti, si avverte un virtuosismo estremo racchiuso in una musicalità ancor più elevata. Tra i brani del repertorio di musica da camera per violino e pianoforte, questo pezzo è al massimo livello della difficoltà interpretativa: lo è per il violinista, per il pianista, ma lo è in misura ancor maggiore per l’insieme delle due voci strumentali. Considero questo brano il culmine dell’arte schubertiana per quello che riguarda la scrittura per il duo violino-pianoforte. La celeberrima Sonata “Kreutzer” di Beethoven può invece essere definita una sonata storica, difficilissima anch’essa e in qualche maniera simile alla Fantasia di Schubert – in quanto come quest’ultima è strutturata in forma di tema e variazioni. Il programma di questo concerto è in definitiva, per me, una panoramica delle più difficili espressioni di tre diversi stili compositivi in relazione alla loro rispettiva epoca storica.

Lei è un solista, un camerista ed anche direttore d’orchestra. Nello specifico, è per Lei possibile evidenziare una particolarità che contraddistingua il musicista da camera dagli altri ruoli presenti nel panorama dell’esecuzione musicale?

Innanzitutto, parlando di violinisti, i differenti ruoli possibili nel panorama esecutivo – considerando chiaramente anche i musicisti d’orchestra – sono tutte specializzazioni artistiche differenti. La pratica della musica da camera in duo violino-pianoforte può andare sicuramente d’accordo con una carriera solistica: quest’ultima può senza dubbio includerla, anche dal punto di vista di affinità di repertorio. Le cose risultano più complicate già quando si parla, ad esempio, di una formazione seria di quartetto: è questa una pratica artistica che richiede infatti un impegno da parte dei musicisti a tempo pieno. Per questo il duo violino-pianoforte (o al massimo un trio con il pianoforte) si adatta molto bene all’impegno di una carriera solistica. Dal mio punto di vista, io cerco di avvicinarmi alla musica da camera il più spesso che posso. Per quanto riguarda l’evidenziare una qualità del musicista da camera rispetto agli altri ruoli, io penso che basti dire che un vero musicista, in quanto tale, è inevitabilmente portato a fare musica da camera o quantomeno ha voglia di farla. L’unica particolarità che potrei sottolineare è quella, chiaramente, del saper ascoltare il proprio partner musicale, provando gusto nel farlo e nel sentirsi parte di una squadra. Ma una squadra è ciò che si crea anche suonando con l’orchestra: questa è una capacità che viene rispecchiata e contenuta in maniera generale nella musica in sé. La particolarità allora sta solo nello scegliere di voler fare musica da camera o meno. Una sostanziale differenziazione musicale del camerista rispetto agli altri ruoli esecutivi penso dunque che non esista: si parla solo di bella musica e si cerca di farla in tutto e per tutto. Dirigere l’orchestra è invece una pratica che mi onora: lavoro con l’Orchestra da Camera Lituana ormai da 10 anni, ho diretto da poco l’orchestra della Radio di Lugano ed ho in programma anche impegni di direzione di orchestra sinfonica a breve, con la Russian National Orchestra. Mi rende molto felice avere in programma prossimi eventi in qualità di direttore: questo è per me un “in più” importantissimo, una bellissima realtà musicale che sto scoprendo sempre di più.

Lei, m° Krylov, ha inciso nel 2017 il Concerto per violino solo e orchestra n° 2 di Krzysztof Penderecki, intitolato “Metamorphosen”. Come è stata la collaborazione con l’autore e qual è il suo modo di rapportarsi con le opere contemporanee?

Penderecki mi ha chiesto personalmente di suonare e registrare questo concerto e prima di me lo aveva fatto Anne Sophie Mutter, negli anni ’90. Il Concerto è presente in una raccolta di pezzi di Penderecki, il quale – tra l’altro – ha da poco compiuto 85 anni. E’ stata una formidabile esperienza: il Concerto “Metamorphosen” è un’opera di una grande bellezza, ma anche complicatissima. Posso dire che registrare questo concerto è stato un lavoro che mi ha tenuto impegnato non poco. Per quanto riguarda il rapporto con la musica contemporanea, credo che l’atteggiamento di sorpresa che si poteva avere negli anni ‘ 50, ‘60 o ‘70 verso la musica “moderna” sia stato in gran parte superato, tanto da poter considerare oggi molti brani ritenuti “nuovi” in passato ormai come grandi classici. Noi musicisti siamo assolutamente obbligati a guardare al futuro e a scoprire i nuovi compositori contemporanei, cercando di dare massima importanza alle loro opere. Bisogna dedicare la nostra attenzione prima alla comprensione delle loro idee e, successivamente, bisogna saperle rendere attraverso l’esecuzione. Tutto ciò però dipende anche dalla collaborazione del pubblico e degli organizzatori delle stagioni concertistiche che decidono i programmi dei concerti. Nel mio caso, propongo volentieri agli organizzatori di concerti musiche come quelle di Philip Glass, Ezio Bosso, dello stesso Penderecki, Arvo Pärt ed altri: chiaramente non è sempre facile in relazione al pubblico, si preferisce a volte iniziare un concerto prima con brani in programma della tradizione classica o del XX secolo, per poi successivamente proporre un brano contemporaneo. Proporre subito o solo un programma contemporaneo è invece una cosa che risulta ancora molto difficile, a volte è come trovarsi di fronte a un vero e proprio muro in tal senso…
Per quanto riguarda il mio atteggiamento da interprete verso i brani contemporanei e verso quelli più tradizionali del repertorio, c’è da dire che tutto dipende molto dal brano che ho davanti: è chiaro che, parlando di concerti per violino, già quelli del XX secolo scritti da Bartók, Prokof’ev , Šostakovič o Stravinskij sono tutt’altra cosa rispetto all’opera italiana sul violino di Paganini o alle sfere emotive, altissime, toccate dal Concerto di Beethoven. I concerti contemporanei sono invece spesso atonali, ma non sempre: la chiave di lettura è saper cogliere l’intenzione del compositore. Ad esempio, mi viene in mente l’ “Offertorium“ di Sofija Gubajdulina che ho avuto modo di suonare diverse volte, anche a Londra con la London Philharmonic Orchestra: è stato un enorme successo dal punto di vista della reazione del pubblico, nonostante sia molto complesso dal punto di vista dell’ascolto e della ricezione. C’è da dire che questo è un brano che ha già la sua storia, essendo stato registrato più volte da vari interpreti. Quello che avviene è che nel tempo questi pezzi stessi diventano grandi classici: se sono veramente belli, si è anche in grado di accoglierli. E’ la stessa cosa che accade ad esempio alle Sinfonie di Šostakovič: oggi se ascoltiamo la n° 6 la sentiamo ormai un pezzo di tradizione , non più un qualcosa di contemporaneo, come fu a suo tempo. Ribadisco, da esecutore sia del repertorio classico che di tantissima musica del XX secolo e contemporanea, che abbiamo il dovere, anche in qualità di ascoltatori, di aprirci a queste musiche e non correre il rischio di crogiolarci nel passato.

Lei è anche docente di violino presso il Conservatorio della Svizzera Italiana a Lugano. Quale deve essere la vera missione di un didatta del violino nel panorama musicale attuale?

Bisogna saper insegnare il violino e soprattutto tramandare le tradizioni di una scuola violinistica da una generazione all’altra. Posso dire che questo è un processo estremamente complesso e lungo, ma ciò vale per qualsiasi didatta, di qualsiasi campo artistico. Potrebbero rispondere infatti a questa domanda, in tale maniera, anche un pittore, un regista o un ballerino. La missione dunque è quella di trasferire al meglio il proprio sapere alle nuove generazioni.

Maestro Krylov, qual è la più importante raccomandazione che sentirebbe di dare ai suoi migliori allievi e ai talenti in genere, che vogliano e possano intraprendere a tutti gli effetti la carriera di interpreti del domani?

Parto col precisare che i miei allievi sono tutti ad un livello “post-diploma”: sono in linea di massima già grandi di età e con una formazione già presente alle spalle. Quello che io vorrei augurare loro è di saper sempre rapportare le proprie capacità alle proprie ambizioni, di saper allineare il più possibile questi due fattori. Bisogna essere molto coscienti di ciò a cui si ambisce: se desidero essere uno dei migliori violinisti del mondo devo chiedermi veramente se ne ho le effettive capacità. Di fatto, diventerebbe un grosso problema ambire ad essere tra i migliori in assoluto e rendersi conto poi di non avere l’effettiva concretezza che porti ad esserlo. Ma può succedere anche il contrario: essere veramente capaci di eccellere in assoluto ma non avere alcuna ambizione affinché ciò accada… L’ambizione è senza dubbio fondamentale, come in tutte le cose. Essa serve, ma bisogna saperla sfruttare sempre nel suo senso positivo. Per questo dico che ambizione e realizzazione devono andare di pari passo, deve esserci un giusto equilibrio tra le due e mi auguro che i miei allievi possano sempre tenerlo a mente, non sbagliando mai in questa valutazione. E’ un consiglio che si può estendere a tutti gli aspiranti violinisti già formati e che si trovano ad un certo punto a dover scegliere per la loro carriera: è fondamentale che stiano attenti a non sbagliare questo” tiro”.


Marica Coppola

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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