Al telefono

con Ottavio Dantone

Autore: Silvia D'Anzelmo

9 Gennaio 2019
Profondo conoscitore della prassi esecutiva del periodo Barocco, Ottavio Dantone è il Direttore Musicale dell’Accademia Bizantina di Ravenna con la quale collabora dal 1989. Sotto la sua guida l’Accademia Bizantina si è affermata come uno degli Ensemble di musica barocca suonata con strumenti antichi più noti e apprezzati nel panorama internazionale. Con lui abbiamo fatto una lunga chiacchierata per farci spiegare come si affronta un repertorio così antico e come lo si porge agli ascoltatori di oggi.

L’Arte della Fuga è il testamento umano e artistico di Johann Sebastian Bach. Cosa voleva mostrarci il Kantor con quest’opera?

L’Arte della Fuga è stata scritta da Bach per la Società di Scienze Musicali fondata dal suo allievo Lorenz Christoph Mizler. Come era tipico per l’epoca, ogni componente della Società doveva inviare ogni anno dei lavori di carattere scientifico. E Bach presentò l’Arte della Fuga. Il Kantor, come suo costume, illustra tutte le possibilità che una fuga permette partendo da un unico tema elaborato in modi e ritmi differenti. La cosa interessante da sottolineare è che la fuga ha un carattere matematico, è una forma musicale molto complessa. Ma quello che Bach voleva dimostrare è che la bravura e la capacità del compositore è quella di riuscire, aggirando tutte le regole, a scrivere una musica che sia bella ed espressiva. E, personalmente, credo che Bach abbia vinto alla grande la sfida lanciata contro se stesso perché l’Arte della Fuga è una delle opere più espressive mai scritte in relazione alla complessità della forma.

Insomma un Bach come divino architetto che, con l’Arte della Fuga, mette a segno sia un lavoro di finissimo artigianato che un compendio sull’arte dei suoni intesa a livello quasi metafisico o teologico.

Bach era sicuramente legato a tutti questi aspetti, però, la cosa miracolosa della sua musica è la profondità emotiva che scaturisce proprio dalla complessità. E l’emozione nell’esecutore come nell’ascoltatore nasce proprio dall’ammirazione per un’architettura così complessa.

Quindi anche il pubblico di oggi, abituato a brani ‘semplici’ e di breve durata, riesce a seguire e apprezzare un’opera del genere?

Dipende, la musica può essere fruibile se viene comunicata con un linguaggio facile da seguire. La nostra versione dell’Arte della Fuga mira a comunicare il più possibile il significato sia formale che espressivo di quest’opera. E questo vale per tutta la musica antica. Fino a 30 anni fa non si conoscevano a fondo i codici retorici per poterla dominare e, quindi, far capire al pubblico. Oggi ha molto successo proprio perché è diventata immediata e comunicativa, tutto qui.

Come si affronta un lavoro come L’Arte della Fuga?

Innanzi tutto, è importante decidere l’organico con cui eseguirla. Nel corso della storia, molti studiosi e musicisti hanno tentato di impossessarsi di quest’opera sostenendo che sia stata scritta per organo, per cembalo, per viola da gamba… In realtà, l’errore più grande è proprio questo: connotare l’Arte della Fuga come musica destinata a un organico preciso mentre è evidente che non sia così. La musica di Bach contiene in sé una forte emotività che verrebbe fuori, paradossalmente, anche se venisse eseguita con dei tromboni. Il problema da affrontare, quindi, è come montare questa complessa struttura. Noi dell’Accademia Bizantina abbiamo deciso di utilizzare un quartetto d’archi , un organo e un clavicembalo per vestire con più colori possibili la musica di Bach e, al tempo stesso, utilizzare quella che è la nostra formazione a parti reali. Quindi, questa versione dell’Arte della Fuga è l’immagine stessa del nostro ensemble che diventa quasi l’organico ideale (ma non assoluto!) per eseguirla. Dico ideale perché credo che si presti particolarmente bene a illustrare quest’opera nella maniera più compiuta.

Dunque una scelta più funzionale che filologica.

Io tendo sempre a dire che cos’è la filologia per noi dell’Accademia Filarmonica. La filologia non è usare gli strumenti antichi, anzi, questa è l’ultima cosa che ci interessa. Li usiamo perché sono più facili per fare questo tipo di musica. Per me, la filologia, come dice la parola stessa, è utilizzare un certo tipo di linguaggio e quindi parole, articolazioni, segni, per entrare nella mentalità del compositore e della sua epoca. Solo così qualcosa che è stato scritto circa trecento anni fa riesce a veicolare i propri messaggi ancora oggi.

Il repertorio barocco, quindi, è un’arte del porgere basata sugli ‘affetti’. Tutto questo però non è segnato in partitura ma sottointeso tra le note e l’interprete ha il compito di rendere palese ciò che viene suggerito. Questo permette una gran libertà nelle scelte esecutive rispetto ad altri repertori.

In realtà, per quanto riguarda il repertorio barocco, è tutto codificato da un centinaio di figure retoriche che spiegano cosa il compositore aveva nella testa: dai movimenti melodici alle concatenazioni armoniche, alcuni segni d’interpunzione o di salita e di discesa. Se si conoscono i codici, non c’è bisogno di interpretare quel linguaggio, basta leggere quello che c’è scritto. Quindi, la cosiddetta libertà dell’esecutore barocco è un’altra cosa rispetto all’interpretazione stricto sensu del testo. L’uso degli abbellimenti, le diminuzioni, come la forzatura o l’esasperazione di determinate situazioni dinamiche dipendono dalla propria personalità ma, per quanto riguarda i gesti, il significato, io sono convinto che sia tutto scritto anche quando non si vede nulla.

La sua e quella dell’Accademia Bizantina sembrano una vera e propria vocazione, quella di far conoscere il repertorio barocco a un pubblico contemporaneo. Come mai questa scelta, pensa che una società dai gusti così standardizzati sia capace di apprezzare le sottigliezze di questa musica?

Sarebbe come dire che il pubblico di oggi non sia più capace di apprezzare la letteratura oppure la pittura antica. Evidentemente non è così. C’è da dire che la nostra epoca è l’unica che consuma arte del passato, mentre, prima del XX e XXI secolo si eseguiva musica del proprio tempo. Noi, invece, facciamo soprattutto musica di altri secoli oltre a quella contemporanea. La nostra è una civiltà in grado di apprezzare l’arte legata al passato perché portatrice di una memoria che è legata alla nostra identità culturale. Se così non fosse, dovremmo cancellare tutto di volta in volta. Inoltre, la musica barocca ha nel suo stesso significato un’attualità senza tempo: le emozioni che si provavano trecento anni fa sono le stesse di oggi, basta saperle comunicare. Gioia, rabbia, furore, amore e odio sono cose che esistevano all’ora come oggi, quindi, ci si può tranquillamente emozionare ancora con gli stessi sistemi musicali. Chiaramente è molto importante, come ho detto prima, che la musica barocca non venga eseguita a caso. Quella che sembra un’arte molto creativa e libera, in realtà, racchiude uno studio molto approfondito. Io ho studiato 25 anni le figure retoriche non per essere più bravo degli altri, ma per sentirmi libero di esprimermi all’interno di quei codici. Questa libertà la si ottiene solo con lo studio e mi riferisco anche all’improvvisazione: solo dopo aver accumulato una tale quantità di formule si può riusarle in maniera spontanea, non si può pensare di improvvisare a caso perché non ne uscirebbe fuori nulla di coerente.

Lei e i musicisti dell’Accademia Bizantina portate nel mondo un’altra idea di Italia rispetto a quella a cui tutti ci stiamo abituando. Si ripete spesso di dover proteggere la nostra identità culturale riferendosi a piccolezze meschine come la chiusura delle frontiere o il mantenere il crocifisso nei luoghi pubblici. Mentre davanti a musica, arte e scienza che ci permetterebbero un’apertura al mondo senza la paura di perdere le nostre specificità, si tagliano fondi e possibilità. Pensa che ci sia un modo per invertire questa tendenza, per rafforzare la nostra identità culturale in maniera positiva?

Attualmente la politica usa molto la demagogia, lo scontro verbale, e non parlo tanto per dire. La percentuale della spesa pubblica che pesa sullo stato della cultura è talmente esigua che tagliare vuol dire togliere il nulla, per questo parlo di demagogia della politica che considera la cultura qualcosa di elitario, mentre sappiamo che così non è. Ci sono tantissimi ensemble come il nostro che alla fine vanno via dall’Italia perché all’estero si lavora di più e meglio. Noi, come tanti altri, non abbiamo un solo euro di sovvenzione dallo stato, ci arrangiamo e viviamo degli introiti ricavati dai nostri concerti ma questo fa si che gli ensemble italiani siano i più cari al mondo. All’estero le sovvenzioni ci sono e quindi si parte da una situazione economica più favorevole che abbassa il peso dei costi di gestione. Chiusa questa parentesi, bisognerebbe provvedere davvero a una cultura musicale, ovviamente parlo della musica perché sono musicista ma vale per la cultura in generale. Nelle scuole è totalmente assente (e questo va detto!). Bisognerebbe considerare la cultura come un bene primario della salute pubblica perché una società che ne è priva si abbrutisce, come abbiamo già visto negli ultimi vent’anni. Tutto questo disinteresse noi lo pagheremo (non lo abbiamo ancora scontato fino in fondo) ma se è così che vogliamo costruire la società in cui viviamo, è così che ce la teniamo.

Progetti futuri? 

Veniamo da una sfilza di registrazioni: è appena uscito il Giustino di Antonio Vivaldi, dopo i concerti per archi, quelli per viola d’amore e Agitata con Delphine Galou. Nella prossima stagione usciranno altri due dischi, uno di musica sacra e uno di musica profana per la collana Naïve che si occupa dell’opera omnia di Vivaldi. Usciranno i concerti grossi di Georg Friedrich Haendel per la Decca. Il prossimo anno eseguiremo il Rinaldo di Haendel nei teatri di tradizione italiani (che, in questo momento, sono la parte sana del mondo operistico italiano, sono teatri che non sprecano un solo euro in più di quello che prendono e riescono a garantire sempre il pagamento degli artisti, cosa che gli enti lirici, alle volte, non riescono a fare). Poi tra gennaio e febbraio dirigerò la Cenerentola di Gioacchino Rossini al Teatro alla Scala e Le nozze di Figaro di Mozart a Zurigo. Nel 2021 abbiamo anche un’interessante novità: dirigerò un’opera per il Muziektheatere di Amsterdam e l’Accademia Bizantina, pur con i costi che ha, è riuscita a vincere la concorrenza di altri ensemble barocchi figurando come orchestra per la produzione.

Ho notato che tutti i vostri lavori sono supportati da un piano di comunicazione che si avvale dei social media e di video. Questo aiuta il vostro lavoro?

Io non sono un tecnologico, non ho neanche un profilo Facebook ma so quanto sia importante, soprattutto per raggiungere un pubblico più giovane, essere presenti su questi canali e utilizzare anche del materiale video. Non dimentichiamo che l’aspetto visivo entra in un discorso chiamato sinestetico: chi ascolta la musica e riceve anche degli input dalle immagini è più facilitato a seguire. Questo accadeva già in tempi passati, tanto è vero che si curava molto l’aspetto scenografico, alle volte, anche in concerti strumentali per destare quello che veniva definito ‘stupore’ o ‘meraviglia’. Il video, quindi, è una cosa moderna ma perfettamente attinente a questo tipo di musica perché capace di avvicinare un pubblico più  ampio e diversificato. Visto che lo stato non se ne occupa, ci proviamo noi.

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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