J. S. Bach, l’Arte della Fuga

il silenzio compiuto

Autore: Redazione

10 Dicembre 2018
Opera oscura, ancora oggi incompresa, raramente eseguita, complessa fin dalla sua misteriosa e discontinua gestazione, durata presumibilmente una decade (nonostante una versione in nuce variata del soggetto principale sia riscontrabile nella Fuga in Sol minore per organo BWV 578 del 1707), interrotta in maniera apparentemente traumatica dalla sopraggiunta morte dell’autore, e da quest’ultimo vissuta come una sfida titanica ai limiti delle proprie capacità. L’intento del compositore tedesco era quello di pubblicarne la stesura definitiva sulla rivista scientifico-musicale Musikalische Bibliothek per conto della Correspondierende Societät der musicalischen Wissenschaften (Società per corrispondenza di scienze musicali), circolo intellettuale di compositori e matematici del quale Bach era il quattordicesimo membro, fondata dall’ex allievo, matematico, medico, editore e critico musicale Lorenz Christoph Mizler, insieme a Giacomo de Lucchesini e Georg Heinrich Bümler.

L’opera, considerata all’epoca il paradigma di uno stile superato, e, per giunta, nemmeno compiuta, ebbe un insuccesso tale che le appena trenta copie vendute fino a tutto il 1756 non bastarono nemmeno a ripagare le lastre di rame necessarie all’incisione, nonostante l’uscita di una seconda edizione nel 1752, dopo la prima pubblicata nel 1751 a Zella, corredata dalla prefazione Friedrich Wilhelm Marpurg e con il prezzo inutilmente “scontato” da 5 a 4 talleri.

Nel manoscritto autografo non vi è traccia di alcun titolo, tuttavia la non casuale scelta, riconducibile presumibilmente al figlio Carl Philipp Emanuel, di utilizzare il termine Kunst, già rintracciabile nell’antologia della trattatistica musicale che la famiglia Bach conosceva bene (L’Art de toucher le clavecin di F. Couperin del 1716), indica la precisa volontà di identificare l’opera con l’Ars classico-umanistica, la dottrina, l’azione ordinatrice di un complesso di principi secondo un rigore scientifico finalizzata al raggiungimento di un equilibrio formale. Come afferma Alberto Basso in Frau Musika, la vita e le opere di J.S. Bach l’opera rappresenta il:

[blockquote cite=”Alberto Basso, Frau Musika, la vita e le opere di J.S. Bach” type=”left”]«manifesto dell’ars subtilior, della musica che assottigliandosi, riducendosi all’essenziale e all’indispensabile mirando al delicato e all’intimo, si fa silenzio, si organizza in forma talmente pura che il suono pare inafferrabile, ineffabile, le sue strutture irripetibili, […] il suo significato arcano ed occulto come una formula alchimistica».[/blockquote]

Appare sorprendente come i figli di Bach (anche Johann Christoph Friedrich oltre a Carl Philipp Emanuel) si siano adoperati per il riordino del materiale mentre Johann Sebastian era ancora in vita – seppure in precarie condizioni – fino agli anni successivi alla morte, abbiano curato al dettaglio i rapporti con gli editori, gli incisori, financo cercato il più possibile di rendere appetibile ad un pubblico distratto dalle mode un’opera di cui erano i primi – forse gli unici – ad essere consapevoli della portata. Ordunque è da intendersi in questa direzione la precisazione scritta e non firmata da Carl Philipp Emanuel a margine della prima edizione (secondo Sergio Vartolo attribuibile invece a Friedrich Wilhelm Marpurg come la prefazione alla seconda edizione) ad informare il potenziale pubblico dell’incompiutezza dell’opera, la chiusura “forzata” dall’elaborazione del corale Wenn wir in höchsten Nöthen sein BWV 668 già contenuto nell’Orgelbüchlein (BWV 641), così come la didascalia «über dieser Fuge, wo der Nahme B.A.C.H. im Contrasubject angebracht worden, ist der Verfasser gestorben» («su questa fuga, dove il nome B.A.C.H. viene usato come controsoggetto, l’autore è morto») posta nel punto in cui il manoscritto autografo si interrompe nel Contrapunctus XIV al figlio di Johann Sebastian discutibilmente attribuita.

Fu il compositore tedesco Salomon Jadassohn (1831-1902), allievo di Franz Liszt, autore di un Lehrbuch des Kontrapunkts, studioso del venticinquesimo volume della Bach-Gesellschaft, il primo a riconoscere solo nel 1894, cioè ben 143 anni dopo la pubblicazione dell’opera, in un accurato e meticolosamente analitico Saggio da lui scritto sull’Arte della Fuga, l’incomparabile complessità e l’irraggiungibile magnificenza della struttura. Ma è con l’edizione Breitkopf & Härtel del 1927 (47° volume dell’integrale bachiana) del musicologo e compositore svizzero Wolfgang Graeser (1906-1928), che si ha la consacratoria presa di coscienza dell’importanza di quest’opera. Essa viene definita dallo stesso, nella prefazione al volume, come «unica al mondo», e ancora «la più possente della musica occidentale, è il coronamento di uno sviluppo decennale della creazione bachiana, e secolare della storia della musica occidentale; il suo ultimo significato metafisico diviene comprensibile soltanto entro la cornice di questo enorme rapporto». A Graeser si deve la prima orchestrazione ufficiale dell’Arte della Fuga, la cui relativa esecuzione vide la luce per la prima volta il 26 giugno 1927 alla Thomaskirche di Lipsia. Nasce, così, la concezione interpretativa multistrumentale che affianca quella monostrumentale e speculativo-intellettuale del capolavoro bachiano.

Ma come è possibile inquadrare un’opera monumentale considerata come il vertice della letteratura musicale occidentale, dal momento che essa stessa rigetta qualsiasi velleità categorizzante? 

Luca Nurchis


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