Rinaldo Alessandrini

la voce del Barocco

Autore: Redazione

9 Dicembre 2018
Igor Stravinskij, in un suo celebre commento sulla musica barocca, insinuava che Vivaldi, nel realizzare la sua musica, avesse semplicemente composto un solo concerto, per poi svilupparlo in tutti i modi possibili nei suoi componimenti successivi; per comprendere quindi tutta l’opera di Vivaldi sarebbe bastato ascoltare un solo concerto, tanto il compositore veneziano non ne aveva composti quattrocento, ma aveva bensì rielaborato lo stesso concerto per ben quattrocento volte. Seppur è noto che la battuta non è di Stravinskij ma di un altro compositore suo contemporaneo, Luigi Dallapiccola, l’affermazione è senza dubbio sintomatica della fortuna, o meglio sfortuna, che Vivaldi conobbe in quegli anni fino alla Seconda Guerra Mondiale. Oggi certamente è molto difficile immaginare un giudizio del genere e se ciò è possibile è proprio grazie all’attività indefessa di direttori d’orchestra e studiosi come Rinaldo Alessandrini i quali, attraverso approfondite ricerche, sono oggi in grado, più o meno fedelmente, di dare nuovamente voce al barocco.
L’attività musicale di Alessandrini, infatti, si incentra prevalentemente sul repertorio barocco e prebarocco italiano, con particolare riguardo a Monteverdi, di cui il musicista romano ha messo in scena nel 2009 la trilogia L’Orfeo, L’incoronazione di Poppea e Il ritorno di Ulisse in patria presso il Teatro alla Scala di
Milano e di cui ha inciso tutti e otto i libri di madrigali.

Claudio Monteverdi

Claudio Monteverdi

Maestro, Lei è innegabilmente uno dei massimi esperti di musica barocca a livello internazionale. Qual è il Suo approccio alla prassi musicale antica e fino a che punto può essere definito filologico?

Domanda assai complessa. Relativamente alle edizioni possiamo definire il mio approccio filologico, nel senso che nelle esecuzioni cerco sempre di fare riferimento agli strumenti musicali che erano disponibili trecento o duecentocinquanta anni fa. Questa prassi, naturalmente, è animata dalle migliori intenzioni, ma il risultato che dà è solamente parziale, nel senso che oggi i musicisti hanno a disposizione uno, due, i più fortunati tre strumenti, e con quegli stessi strumenti eseguono tutto il repertorio senza grosse differenziazioni. Quindi, non ponendosi problemi organologici, dato che in fin dei conti in Europa c’è sempre stato un grande circuito di strumenti, specialmente ad arco -mentre più complesso è il caso dei fiati- quello che facciamo è sicuramente una presa di posizione e i risultati ottenuti possono essere più o meno soddisfacenti. A voler fare le cose per bene, dunque, bisognerebbe sempre munirsi di strumenti geograficamente congrui. Questo vale in particolar modo per il repertorio clavicembalistico, che mi tocca molto più da vicino; eseguire, ad esempio, una sonata di Frescobaldi su uno strumento francese di metà Settecento è qualcosa di davvero poco coerente, visto il divario geografico e cronologico che si creerebbe. L’approccio filologico che seguo, quindi, fa senza dubbio riferimento alle fonti del tempo e per quanto concerne gli strumenti si fa il possibile. Fortunatamente oggi, rispetto a una trentina d’anni fa, si sono fatti grandi passi avanti nell’indagine delle fonti antiche: le conoscenze sono più assimilate e metabolizzate e quindi le scelte riguardanti gli strumenti sono sempre più oculate. Vi è poi tutto l’aspetto esecutivo, argomento estremamente complesso, che non può prescindere dalle informazioni del tempo. Per quanto mi riguarda considero la musica come un’espressione linguistica: intanto è espressione di una cultura più o meno circoscritta, specialmente in Italia, e dunque identitaria. Essa è una lingua e per essere “parlata” con un minimo di proprietà deve essere curata a tutti i livelli, tenendo conto anche del fatto che la musica dell’inizio del Seicento era musica prettamente vocale. Nelle esecuzioni di brani di questo periodo, dunque, ci si può avvantaggiare del fatto che la musica vocale ha tendenzialmente influenzato quella strumentale, a mio avviso molto più profondamente di quanto si pensi. Con l’avanzare degli anni, poi, lo stile strumentale è andato arricchendosi parallelamente sia di evoluzioni dovute ad esigenze tecniche che di mutamenti di un linguaggio che alla base era vocale, perciò parlato. Quindi non è possibile tener separati i due repertori, ma è bene farli dialogare, specialmente nel caso della musica della prima metà del Settecento, quando nell’aria c’era questo perenne rispecchiarsi di cantanti e musicisti, in una sorta di sfida amichevole basata sulla reciproca imitazione. Da qui, a cascata, tutte le conseguenze date dalle informazioni utili al saper “parlare”: distinguere, ad esempio, una danza da forme più rapsodiche, senza tralasciare gli elementi nazionali, come, ad esempio, lo stilus fantasticus in Germania.

Rimanendo in tema di musica vocale e alla luce della Sua esperienza nell’esecuzione madrigalistica, quanto è importante essere madrelingua per cantare in un determinato idioma?

È importante relativamente alle capacità di simulazione dell’esecutore, e dunque alla recitazione. Avendo a disposizione una buona traduzione del testo poetico italiano, una serie di informazioni relative al momento storico nel quale è stato composto e, ovviamente, una buona pronuncia; da qui in poi dipende tutto dalla capacità di simulazione del singolo cantante, ovvero se l’esecutore riesce a valutare con correttezza come e perché il suo apporto, all’atto della restituzione, può effettivamente cambiare o meno l’immagine del testo. Francamente devo dire che, contrariamente a quello che si è pensato, non ho particolari preclusioni nei confronti di cantanti non italiani; mi è capitato molto spesso di dirigere produzioni di opere italiane all’estero nella totale assenza di cantanti italiani e il risultato è stato eccellente. Oggi come oggi, inoltre, per un artista straniero avere una buona pronuncia italiana non è un elemento trascurabile, deve anzi far parte del bagaglio professionale di qualsiasi cantante lirico. Tuttavia è sempre necessario che un cantante, italiano o meno, sia in grado di rintracciare nel pezzo i punti di accumulazione della frase, sappia dare un senso alle parole e restituire tutto il sistema della pronuncia, legato, da un punto di vista sonoro, all’effetto più o meno emotivo; intendo dire che la pronuncia di una qualsiasi parola, a seconda del contesto, della velocità o dell’estensione, cambia senso. Di conseguenza per un cantante è d’obbligo possedere una capacità di simulazione tale da rendere credibile il testo che sta pronunciando.

Parlando di musica vocale viene subito da pensare all’opera lirica. Secondo Lei, quanto è importante il rapporto tra direzione scenica e direzione musicale, tra regia e concertazione?

Varia molto in base all’opera, principalmente al libretto. Ci sono libretti che danno l’opportunità di leggere una quantità importante di sotto testi, che possono essere messi in luce da una regia più o meno oculata; altri libretti sopportano senza problemi una differente dislocazione temporale ed altri infine pretendono invece di essere seguiti alla lettera nei più minimi dettagli del dialogo. Ora, senza nascondersi dietro un dito, è vero che la tendenza dell’attività registica odierna è quella di voler, in un certo senso, trasfigurare o trasformare l’opera, attualizzarla, per utilizzare un verbo scottante a riguardo. Io, francamente, mi sentirei a disagio con un materiale che necessita di dover essere attualizzato; alla base ne dovrei dichiarare una mancanza di efficacia, ma, dopotutto, anche questa può essere una strada percorribile. Dall’altro lato, poi, vi è la strada più pratica, quella riguardante l’idea registica e la sua realizzazione, possibile solo avendo tecnica e sagacia nel segnalare al pubblico con un buon modus operandi e con una prontezza millimetrica quale è il significato che c’è dietro determinati tagli registici. A volte i problemi più grandi sono dati proprio dal fatto che i registi si accontentano dell’idea di base per poi cadere in una realizzazione trascurata. Per quello che ho potuto vedere in questi anni a volte il regista sbaglia pensando di poter dissociare completamente l’azione registica da quella musicale perché in tal modo disconosce il fatto che un compositore, in una maniera o nell’altra, fornisce sempre una quantità non trascurabile di effetti registici; con determinate scelte egli definisce un percorso, un’evoluzione della trama che conduce la trama del libretto da una parte piuttosto che da un’altra. A volte i registi trascurano volontariamente lo sviluppo musicale facendo ciò a scapito della comprensione dell’azione, specialmente quando parliamo di opere di repertorio, creando delle specie di mostri a sette teste in cui la regia va da una parte, la musica da un’altra e di mezzo c’è il pubblico che non capisce. Vi sono poi registi più collaborativi, anche se la concezione scenica di un’opera, non percorrendo un sentiero battuto come quello del direttore, il quale ha a che fare spesso con partiture dettagliatissime su cui non può e non dovrebbe intervenire, si pone nell’ottica di stare sempre a destra o a sinistra, allontanandosi troppo spesso dal vero significato del libretto. Le forme semisceniche invece, più semplici, prevedono spese minori e meno dispendio di lavoro, creando inevitabilmente uno spettacolo meno ricco la cui forma, di fatto, è un eufemismo che non ha niente a vedere con la realtà dei fatti.

Parliamo della recezione e della fortuna della musica, specialmente barocca, presso le nuove generazioni. Secondo Lei per quale motivo oggi la musica classica è vista dai più giovani come un qualcosa di noioso a cui non vale la pena interessarsi? È un fatto sociale o culturale?

Ormai ho superato il fatto che la musica classica sia considerata noiosa.
Il caso italiano è frutto di un sistema culturale al collasso. La musica classica è uno degli elementi, insieme con il teatro, che non riesce più ad avere attenzione; forse solo il cinema riesce ha ancora un margine di successo, ma sempre a seconda dei titoli e della capacità mediatica dell’iniziativa. Tendenzialmente potremmo considerare la questione allargando il discorso sulle arti e collegandolo alla “fame di bellezza” e alla capacità di capire se si ha o meno questa esigenza. Oggi sicuramente si ha fame, dato che in Italia si mangia e si beve dovunque e sono perfettamente d’accordo con ciò, anche perché la cucina italiana ha una quantità di informazioni legate agli usi culturali e regionali e a tutto quello che concerne la produzione del cibo che non è affatto deprecabile. Però siamo circondati il più delle volte da ristoranti e cibo di pessima qualità; tutto il resto sembra come essere passato in secondo piano, forse perché troppo impegnativo o forse perché non a “buon mercato” per tutti, ma, a mio avviso, sembra che in realtà il livello di esigenza intellettuale di questa nazione si stia abbassando notevolmente al punto da chiedersi chi sia dietro questa legittimazione e dove si voglia arrivare, dove la lungimiranza possa apportare delle migliorie che chiaramente mancano. Il campo musicale ne risente, naturalmente. Non voglio dire di aver combattuto chissà quale guerra, ma a volte ci sono situazioni relative a scelte artistiche che risentono di una immutabilità indiscutibile, al di là del fatto che alcune scelte possano essere giustificate dall’esigenza o meno di far cassa. Tuttavia, abbiamo saggiato con mano che vi sono repertori che possono essere ascoltati con estrema soddisfazione tanto quanto le sinfonie di Tchaikovskij o Beethoven; in questo la musica barocca ha aperto grandi orizzonti su produzioni sterminate. Si possono cominciare a prendere in considerazione musicisti assolutamente conosciuti come, ad esempio, Alessandro Scarlatti, di cui erano note solo sonate per clavicembalo, ma nemmeno un’opera, oppure lo stesso Vivaldi, che certamente non ha scritto solamente le Quattro stagioni. Non dimentichiamo, inoltre, che la forma mediatica delle proposte che si avanzano è fondamentale; non so se per merito o per fortuna, ma la trilogia alla Scala ha avuto un certo successo e di questo sono stato contento ancor prima che fiero, dato che si è trattato di una scommessa tutt’altro che trascurabile. Tutto il resto deve essere costruito con impegno e criterio; a volte, infatti, un titolo buttato lì senza giudizio non ha alcun senso e di certo con contribuisce a cambiare le cose.

Danilo Lupi

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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