Il ritorno di Ulisse

al Reate Festival

Autore: Matteo Macinanti

9 Ottobre 2018

L’Auttore al molto Illustre et molto Reverendo Sig. Claudio Monte Verde Gran Maestro di Musica: non per farmi concorrente di quelli ingegni, che negli anni adesso hanno publicato le loro compositioni ne Veneti Teatri, ma per eccitare la virtù di V.S. a far conoscer a questa Città che nel calore degl’affetti vi è gran differenza da un sol vero a un sol dipinto. Mi diedi da principio a comporre il ritorno d’Ulisse in Patria.


Così scriveva il librettista Giacomo Badoaro ad un Monteverdi ormai più che settantenne per incoraggiarlo a scendere nell’agone operistico di Venezia.
L’anziano maestro di cappella guardava riluttante al fermento musicale che ribolliva nei nuovi teatri imprenditoriali di Venezia. Tuttavia il successo della sua nuova opera ispirata al celebre racconto dell’arrivo di Ulisse a Itaca convinse l’autore de L’Orfeo a riprendere quel mondo operistico che lui stesso aveva definitivamente segnato con il suo marchio indelebile.

Nonostante il travolgente successo — si registrano dieci messinscene a Venezia e una a Bologna — la nuova creazione del celebre cremonese dal 1640 a oggi non ha mai visto la luce a Roma.
O meglio, non aveva.
È proprio rilevando questa lacuna che il Reate Festival — di cui Quinte Parallele ha già raccontato le precedenti edizioni — ha scelto di inaugurare la sua decima edizione con il Ritorno di Ulisse in Patria.
Scelta coraggiosa, indubbiamente; il tutto esaurito dei tre spettacoli romani tuttavia ha saputo ripagare questo coraggio, dimostrando ancora una volta quanto lo spettacolo secentesco abbia tante cose da dire all’ascoltatore di oggi.
Un senso di intramontabile attualità che è stato messo in luce anche durante la conferenza-stampa da Lucia Bonifaci, sovrintendente del festival, e Cesare Scarton, direttore artistico e regista dell’opera, all’interno della splendida cornice della Villa di Alberto Sordi.

Ma veniamo allo spettacolo.
L’opera è stata allestita all’interno del Teatro di Villa Torlonia: la capienza contenuta (intorno ai 120 posti) e la prossimità tra pubblico e palcoscenico proprie di questo teatro ben si attagliano alla rappresentazione di opere barocche.
La scenografia è nuda: sul palco campeggiano solo dei grandi monoliti mobili che, nel rappresentare la petrosa Itaca, alludono all’ “incertezza e labilità della condizione mortale”, come si può leggere nelle note di regia di Scarton.
Dopo la splendida Sinfonia d’apertura suonata del Reate Festival Baroque Ensemble di Alessandro Quarta, è proprio l’Humana Fragilità di un notevole Enrico Torre a introdurre la vicenda su una nota dolente e pessimistica — “Mortal cosa son io, fattura humana” — a cui rispondono Tempo (Piero Facci), Fortuna (Vittoria Giacobazzi, la cui voce a volte viene leggermente superata dall’ensemble orchestrale) e Amore (Sabrina Cortese).
Il quartetto, convincente e scenicamente efficace, lascia poi il posto alla voce dolce e pulita di Penelope.
Lucia Napoli interpreta magnificamente il nobile sussiego del personaggio attraverso il suo lamento  “Di misera Regina”, declamato su un letto di pietra che pare più una lapide sepolcrale, a cui assiste anche la nutrice Ericlea (Tonia Lucariello, un timbro equilibrato e davvero particolare).
Gli strumenti dell’orchestra e il basso continuo accompagnano magistralmente, e in maniera mai scontata, lo svolgersi degli eventi. Alessandro Quarta, sia nel suonare che nel dirigere, infonde alla musica la forza scenica che le appartiene.
All’amore casto e fedele di Penelope si contrappone poi quello disinvolto e cinico della bella Melanto la cui procacità incanta e ammalia il suo inconsistente amante Eurimaco. Consistente è invece la presenza scenica dei due cantanti: Michela Guarrera, capace di dominare egregiamente la scena, e Antonio Sapio.
Lo spazio scenico subisce successivamente un innalzamento sia fisico che di registro: è nella galleria del teatro, accanto al pubblico, che prende vita il dialogo tra Nettuno, Piero Facci, e Giove, Gianluca Bocchino.
Convince altresì la scelta dei costumi — una divisa da ammiraglio di Marina per il primo e una napoleonica feluca per il secondo — che secondo un’interessante scelta registica si ricollegano all’élite ottocentesca che ha promosso la costruzione del teatro come manifestazione autocelebrativa del proprio potere. I due cantanti, nonostante l’entità ridotta della parte, si inseriscono bene nella faccenda scenica e il loro canto si dimostra all’altezza dell’intero complesso vocale.
Alla scarna asciuttezza scenografica si contrappone la pomposa ricchezza degli abiti di scena (Anna Biagiotti), in modo particolare delle dee Minerva e Giunone.
L’ensemble orchestrale segue senza sbavature la vicenda e si rivela particolarmente efficace durante il coro dei Feaci (molto bravi Enrico Torre, Luca Cervoni e Giacomo Nanni, anche nel ruolo dei Proci), e soprattutto durante la risposta musicale, beffarda e cinica, al declino psicofisico del parassita Iro (lodevole, è necessario dirlo, l’interpretazione di Alessio Tosi).

All’appello mancano solo Roberto Manuel Zangari, un Telemaco giovane e vocalmente valido, Andrés Montilla Acurero, un Eumete — pastore di anime più che di greggi — pulito ma non strabiliante, e l’ultimo ma di certo non meno importante, Mauro Borgioni/Ulisse di gran lunga l’elemento vocale più appariscente e valido, sia per potenza vocale, che per tecnica che per presenza scenica.

Per i ritardatari e per coloro che si sono dovuti scontrare con il sold-out è prevista un’ultima chiamata: mercoledì 10 ottobre al Teatro Flavio Vespasiano di Rieti.

Matteo Macinanti

(foto dalla pagina FB del Reate Festival)

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