Onore e terrore di un compositore. Šostakovič e il regime stalinista

Dandosi l’aria di difendere con tutte le sue forze la tendenza realistica in musica, il Comitato [delle arti N. d. A.] ha favorito in tutti i modi la tendenza formalista, issando sullo scudo i suoi rappresentanti, e proprio per questo ha reso possibile la disorganizzazione e l’introduzione del disordine ideologico nei ranghi dei nostri compositori. Inoltre incolto e incompetente nelle questioni musicali, il Comitato si è messo alla coda dei compositori del clan formalista.

A. Ždanov, Intervento alla Conferenza dei musicisti sovietici

Con la salita al potere di Josif Stalin, nel 1929, inizia quello che verrà definito il “periodo del terrore”. “Periodo del terrore” che non è da intendersi solo a livello politico, ma a livello generale, e, forse semplicemente, umano. In questo periodo ogni cosa, dalla politica alle arti di ogni genere, letteratura, pittura e musica, alla vita dei cittadini e al muoversi delle foglie degli alberi in autunno, doveva rispettare i dettami di quella che era a tutti gli effetti una dittatura, un periodo tremendamente quadrato e spigoloso, in cui nulla contava o aveva una minima importanza se non in funzione dell’Unione Sovietica. Per legare a politiche e dure catene di propaganda l’Arte, tutta, nel 1934 venne convocato il primo Congresso Panrusso dell’Unione degli Scrittori. Durante questo “illuminante” Congresso vennero definiti quelli che dovevano essere i canoni da seguire per scrivere, e non solo. Si trattava del cosiddetto “realismo socialista”, che condannava il pessimismo, tipico dell’ideologia borghese del secolo passato, a favore di un forte e ferreo ottimismo “rivoluzionario”. Questo ottimismo non avrebbe potuto essere “rivoluzionario” appieno se fossero mancati soggetti di estrazione proletaria, nella cornice di un preponderante spirito nazionalista. E in questo modo, solo e unicamente in questo modo, gli scrittori, o chi per loro, sarebbero diventati “ingegneri di anime”.

Il formalismo musicale

Chiunque si fosse opposto al “realismo socialista” era accusato di “formalismo”, termine che solo a pronunciarlo faceva gelare il sangue agli artisti nelle gelide strade della Russia stalinista. Per comprendere meglio la vexata quaestio, è necessario addentrarsi in una piccola digressione sul cosiddetto formalismo in musica. Per “formalismo” (quello artistico) il Dizionario Treccani intende «ricerca eccessiva della perfezione stilistica, prevalenza data ai valori formali, per cui più che le cose e i sentimenti da esprimere conta il modo di esprimerli, la parola o il colore o il suono in sé, e l’armonia o piuttosto l’euritmia esteriore, lo stile accademicamente e retoricamente inteso». Ristretto all’ambito musicale il concetto di “formalismo” ha origine da un nome in particolare, Eduard Hanslick (1825-1904). Andando controcorrente rispetto a quello che era stato il “bello artistico” in tutto il Romanticismo, fino ad arrivare alla wagneriana apoteosi in cui tutte le arti convergevano insieme per raggiungere il bello emotivo e spirituale, Hanslick si approccia allo studio della musica in maniera positivista e scientifica. «Se non vuol divenire affatto illusoria, l’indagine sul bello dovrà avvicinarsi al metodo delle scienze naturali […]» (Eduard Hanslick, Il bello musicale, Aesthetica, 2007). Nel suo celeberrimo saggio, pubblicato nel 1854, Il bello musicale, Hanslick afferma che «le leggi del bello in ogni arte sono inseparabili dalle caratteristiche particolari del suo materiale, della sua tecnica» (Ibidem), sostenendo quindi che ogni arte trova il “bello” solo in sé stessa e nella sua forma e non più nel sentimento. Il “formalismo” approda in Russia negli anni ’14-15 del ‘900 nella critica letteraria. Anche qui ci si soffermava sul sistema linguistico fine a sé stesso, mettendo da parte una qualsiasi interpretazione metatestuale. In breve tempo il “formalismo” si diffonde in tutti gli altri ambiti artistici, musicale in primis.

La Lady Macbeth del Distretto di Mcensk

È in questo clima politico e culturale che si fa strada tra i suoi pentagrammi Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. Nato a San Pietroburgo nel 1906 e morto a Mosca nel 1975, pur essendo troppo giovane per prenderne parte, si sente figlio della Rivoluzione d’Ottobre (prova di ciò la sua Seconda Sinfonia soprannominata appunto “All’Ottobre”). Tra alti e bassi Šostakovič faceva a tutti gli effetti parte dell’elité dei compositori sovietici. Anno di svolta della sua già rinomata fama fu il 1934, quando si tenne la prima di Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, opera che segnò platealmente l’inizio dei problemi di uno Šostakovič che andava contro il tanto richiesto “realismo socialista”, a favore di un atteggiamento e un modo di comporre piuttosto “formalista”. La Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, composta nel 1932, ispirata all’omonima storia di Nikolaj Leskov, doveva essere la prima opera di una trilogia poi lasciata interrotta. La Lady aveva una trama complessa, degna della cronaca nera: una donna sposata, Katerina L’vovna Izamajlova, nella Russia zarista del XIX secolo, si innamora di Sergey un servo del suocero gretto e violento; i due amanti uccidono prima il suocero e poi il marito ma, scoperti, finiscono deportati in Siberia. Lì Sergey si innamora di un’altra prigioniera; umiliata e ferita, la Lady si annega nel fiume ghiacciato portando con sé la rivale. Šostakovič stesso ne parlava in questi termini:

L’opera è per me tragica. Direi che la si potrebbe definire un’opera tragico-satirica. Anche se Katerina L’vovna è un’omicida – assassina infatti il marito e il suocero – ho per lei simpatia. Mi sono preoccupato di dare a tutti gli avvenimenti che la circondano un oscuro carattere satirico. Il termine “satirico” non è certo da intendersi nel suo significato di “ridicolo, canzonatorio”. Al contrario: con la Lady Macbeth mi sono preoccupato di creare un’opera che sia una satira larvata e, gettando la maschera, obblighi a odiare lo spaventoso arbitrio e i soprusi della classe dei commercianti.

F. PULCINI, Shostakovich, Torino, EDT, 1988

Quest’opera, di cui la prima, di grandissimo successo, fu il 22 gennaio 1934 al Malij Teatr di Leningrado, deve la sua potenza e la sua genialità a un grandissimo Šostakovič imperniato delle lezioni di Modest Petrovič Musorgskij e Gustav Mahler. L’indiscusso successo della Lady Macbeth rimase tale fino al 26 dicembre 1935, quando venne rappresentata al Teatro Bol’šoj di Mosca, dove nel Palco A, dietro una piccola tenda, c’era ad assistere Stalin in persona. Poco meno di un mese dopo, il 22 gennaio 1936, uscì sulla Pravda, il giornale del Partito, un articolo, anonimo, ma che per quanto ci si sforzi è quasi impossibile non pensare che sia stato Stalin stesso a scriverlo. L’articolo era intitolato Caos anziché musica. L’attacco a Šostakovič fu forte. «Il potere della buona musica di avere effetto sulle masse è stato sacrificato per un tentativo piccolo-borghese e formalista di creare l’originalità tramite una clownerie a buon mercato. Un gioco di astuta ingenuità che può finire molto male». Šostakovič tuttavia non dovette sopportare solo questa accusa di finta originalità: l’intero articolo era una climax ascendente di critiche via via più pesanti e smaccatamente violente. «Tutto ciò è grezzo, primitivo e volgare. La musica ringhia e grugnisce […]. Apparentemente, il compositore non ha mai considerato il problema di quello che il pubblico sovietico si aspetta dalla musica. Come se lo facesse deliberatamente, scrive la sua musica confondendo tutti i suoni in modo che raggiunga solo i logori “formalisti” che hanno perso tutto il loro gusto salutare». Continuando in questi termini, l’articolo esprime un’amara delusione nei confronti dell’opera di Šostakovič, e, è cosa nota, la delusione porta, più della rabbia, a preoccupanti conseguenze, che in questo caso emergono in una non tanto velata minaccia finale. «I nostri teatri hanno speso una grande energia nel dare all’opera di Šostakovič una presentazione adeguata. […] La recitazione di talento merita gratitudine, gli sforzi sprecati rammarico». Questo articolo fu il primo di una lunga serie di attacchi a Šostakovič, che per questo si guadagnò la bolla di “nemico del popolo”. Era cominciato il periodo delle “grandi purghe staliniane”, durante le quali moltissimi artisti di ogni genere vennero deportati in Siberia. Inizialmente Šostakovič tentò di ergersi in difesa della sua Macbeth: «La mia interpretazione di Lady Macbeth è che il crimine di Katerina Izamajlova è una protesta contro l’atmosfera in cui vive: contro la triste e soffocante atmosfera dell’ambiente sociale mercantile dell’ultimo secolo», però, dopo le altre accuse, si rese conto di trovarsi in una situazione di grave pericolo. Da una testimonianza fatta a Solomon Moiseyevich Volkov emerse la tangibile paura del compositore: «Due attacchi della Pravda in dieci giorni: era troppo per un uomo solo. Nessuno ebbe dubbi che sarei stato fatto fuori e devo ammettere che il ricordo di quella prospettiva non mi ha più abbandonato». Nessuno ebbe dubbi che Šostakovič sarebbe stato fatto fuori, e, in effetti, nemmeno il compositore stesso, che, dopo le varie accuse, girava per le fredde strade con una piccola valigia, in cui teneva lo stretto indispensabile, nel caso fosse stato improvvisamente arrestato. E in più, da vero gentleman, parecchio terrorizzato, secondo quanto raccontò il suo amico Jurij Petrovič Ljubimov, aspettava, nelle immobili ma inquiete notti, il suo arresto sul pianerottolo vicino all’ascensore, per non disturbare la sua famiglia, nel caso fosse arrivata la polizia.

“Il nostro dovere è giubilare”

Guidato dall’istinto di sopravvivenza Šostakovič ritirò la Quarta Sinfonia e, nel 1937, pubblicò la Quinta Sinfonia come «una risposta positiva e stimolante da parte di un artista sovietico a delle giuste critiche». Quando, nel 1936, Šostakovič la ritirò, le prove della sua Quarta Sinfonia erano già in corso, sotto la direzione di Fritz Stiedry, che però, a detta del compositore, non stava facendo un lavoro brillante, perché terrorizzato di dirigere una sinfonia che, si vedrà, era tutto fuorché tradizionale. Articolata in soli tre movimenti, il primo particolarissimo (Allegro poco moderato. Presto) è pieno di temi, che spesso sono abbandonati a loro stessi in quegli scorci di partitura, pieni di contrasti, tempo veloce e tempo lento, parte cantabile e parte ritmica, temi affidati all’intero organico e temi affidati a sezioni dell’orchestra, trattati come squarci di musica da camera. Il secondo movimento (Moderato con moto) è il più breve, e gira intorno a un inciso marcato e ritmico, che porterà poi a un cantabile, il quale tornerà infine all’inciso iniziale sotto forma di Fuga. Tutto ciò caratterizzato da una scrittura portata quasi al limite dell’udibile immaginabile, sia per i timbri e le altezze delle note che per il ritmo e il necessario virtuosismo. Il terzo, stranamente ultimo e macroscopico movimento (Largo, Allegro), si articola in cinque sezioni. La prima è una sorta di marcia funebre, sulla scia di un ricordo mahleriano; la seconda sezione è il passaggio all’Allegro ed è basata su un pesante ostinato introdotto dagli archi; la terza è invece un ricordo di un agile valzer che danza tra le sezioni dell’orchestra, dal grave all’acuto; la quarta sezione consiste in un divertente, ma ugualmente pesante, gioco di accenti lungo tutto l’organico; la quinta e finale sezione è un tradizionale corale a pieno organico aperto dagli ottoni. Corale che però di tradizionale ha molto poco, perché negli accordi degli ottoni, prima del grandioso tema a pieno organico, c’è sempre una nota che, all’orecchio rilassato e ormai comodo in una tonalità, risulta stonata, ma che porterà l’ascoltatore fino alla fine, in un morendo immobile, fatto di sordine e di pianissimo, concluso con il suono dell’impercettibile celesta.

Per quanto riguarda invece la “giusta” Quinta Sinfonia, nel 1938, sul giornale russo Vechernyaya Moskva uscì uno scritto di Šostakovič che ne spiegava il filo conduttore e l’intento.

Il soggetto della mia Sinfonia è il divenire, è la realizzazione dell’uomo. Perché è lui, l’individuo umano con tutte le sue emozioni e le sue tragedie che io ho posto al centro della composizione. […] Il mio nuovo lavoro può esser definito una sinfonia liricoeroica. La sua idea principale si fonda sulle esperienze emozionali dell’uomo e sull’ottimismo che vince ogni cosa.

Articolata, come da manuale, in quattro movimenti, il primo (Moderato) segue, fortunatamente viene da dire, lo schema della forma-sonata, con un primo tema puntato e ritmico esposto a canone dagli archi scuri e archi chiari, e un secondo tema più melodico affidato inizialmente ai violini primi. Il secondo movimento (Allegretto) ha un che di bandistico comunque compensato da un’atmosfera che scavando non è fatta di serenità e leggerezza. Il terzo e profondo movimento è un Largo, ed è senza dubbio il movimento in cui Šostakovič ha cercato di estraniarsi dal mondo circostante; tutto poteva e doveva annullarsi per mettersi totalmente a servizio della musica. Un quarto ultimo e scoppiettante movimento (Allegro non troppo) chiude in vena di festeggiamenti questa sinfonia, questo viaggio introspettivo dell’uomo.

Chiusura all’insegna però di un falso ottimismo, di un ottimismo che deve esserci per forza, frutto di costrizioni. «È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: “Il tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare” e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremando, e riprendi a marciare, bofonchiando: “Il nostro dovere è di giubilare”. Si può dunque definirla un’apoteosi quella della Quinta?» disse in privato Šostakovič al solito Volkov.

Lo Zdanovismo

Il dito ormai universalmente puntato su Šostakovič sembrò ritirarsi in tempo di guerra, in cui l’amor di patria sembrò, solo apparentemente, riunire tutti contro un nemico più grande di quanto, “stranamente”, non lo fosse una manciata di formalisti. Šostakovič cercò in più modi di farsi arruolare nell’Armata Rossa, ma venne più volte respinto per via della sua cagionevole salute. Trovò comunque il modo di servire l'”Amata Russia”, nei pompieri. Faceva parte di un gruppo addetto al controllo degli incendi, e, piccola curiosità, a lui fu affidato il tetto del Conservatorio.

Shostakovic

Stalin e Zdanov in un’occasione ufficiale

Nel 1941 un patriottico e volenteroso Šostakovič iniziò a lavorare alla Settima Sinfonia, la “Leningrado”. Si era creato il mito della sinfonia che rappresentava la patria contro i nemici tedeschi. Folle urlanti e commosse che si stringevano attorno a questa composizione fatta e voluta da e per il regime. E fu così che il “nemico del popolo”, il “formalista”, colui che si era salvato per un pelo, grazie a terrore e razionalità allo stesso tempo, dal viaggio di sola andata in Siberia, divenne l’emblema della patria contro gli oppressori. Fu così? Purtroppo per Šostakovič, all’appena concluso conflitto mondiale seguì il periodo della Guerra Fredda, con forti attacchi a tutti i valori occidentali. Se fino al 1947 aveva ricevuto onori quali l’essere nominato Presidente della Lega dei Compositori di Leningrado, ed eletto deputato del Soviet Supremo delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, un anno più tardi tornarono, più forti di prima, le accuse di “formalismo”, attraverso la voce di Andrej Aleksandrovič Ždanov, pezzo grosso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica a cui era stato affidato il controllo sulla cultura nell’Unione. Nel gennaio del 1948, alla Conferenza dei musicisti sovietici, Ždanov pronunciò un discorso, nel quale tutte le accuse furono scagliate contro molti compositori sovietici, tra i quali, oltre a Šostakovič, Sergej Sergeevič Prokof’ev e Aram Il’ič Chačaturjan, e in cui vennero dettate le linee guida essenziali per una musica veramente e correttamente socialista. Come se si fosse fatto un grande salto indietro a quel famoso articolo contro la Lady Macbeth del Distretto di Mcensk sulla Pravda, 12 anni prima, i toni e gli oggetti d’accusa erano rimasti tali. «Questa tendenza rimpiazza la musica naturale, bella, umana, con una musica falsa, volgare, a volte semplicemente patologica».

Šostakovič

Prokofiev, Šostakovič e Khachaturian

Centrale, prima come ora, doveva essere il popolo, e Ždanov fu pronto a ribadirlo. «Si dimentica la notevole frase di Glinka sui rapporti tra il popolo e gli artisti: “Chi crea la musica è il popolo e noi artisti non facciamo che comporla”». E ancora «La musica inintelligibile per il popolo, gli è inutile. I compositori devono prendersela non con il popolo, ma con sé stessi […]». Il dovere del compositore era infine logico e naturale.

Il vostro compito non consiste solo nell’impedire la penetrazione delle influenze borghesi nella musica sovietica. Il vostro compito consiste nel confermare la superiorità della musica sovietica, nel creare una possente musica sovietica, […], che rifletta la società sovietica di oggi e possa elevare ancora più in alto la cultura del nostro popolo e la sua coscienza comunista.

Questo discorso scatenò diverse reazioni da parte dei compositori. Dal rifiuto assoluto, per scelta critica di Chačaturjan di comporre, all’adeguamento di Prokof’ev. Šostakovič decise di adattarsi rinunciando però alle composizioni che prevedevano grande organico orchestrale a favore di organici ristretti, cameristici, e musica da film. Questa scelta di adattarsi fu ben recepita dal regime, tanto che, nel 1949, il compositore fu inviato come ambasciatore alla Conferenza internazionale della Pace a New York insieme ad altri artisti. In questa occasione, Šostakovič rappresentava per gli occidentali un simbolo di propaganda sovietica. La più macroscopica delle conseguenze del suo simboleggiare la “Patria Russia” fu che era previsto un concerto, che aveva per programma la Quinta Sinfonia, ma questo venne bloccato da una manifestazione. Altra conseguenza, meno macroscopica ma piuttosto deludente per il compositore russo, fu che Arturo Toscanini, che già aveva espresso il desiderio di incontrarlo anni prima in America, si rifiutò di vederlo. La simpatia del PCUS nei confronti del compositore continuava e lo portò, nel 1951, alla rielezione nel Soviet Supremo.

Il disgelo

Il 5 marzo del 1953 morì Stalin. Immediatamente, tirando un sospiro di sollievo, come “omaggio”, Šostakovič torna al sinfonismo, con la Decima Sinfonia. Sinfonia che può essere trionfalmente considerata, dopo anni di restrizioni, momento di assoluta libertà espressiva e compositiva.

Il “periodo del terrore” era così terminato e iniziava, con la salita al potere di Nikita Sergeevič Chruščёv, il “disgelo”. E finalmente, nel 1961, si riaprì il cassetto in cui un impaurito Šostakovič aveva chiuso la Quarta Sinfonia, che ebbe un grande e meritato successo.

 

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