Cosa significa il premio Pulitzer a Kendrick Lamar per noi?

Lo sguardo di mio fratello quando mi ha trovato intento ad ascoltare DAMN. a tutto volume su Spotify era decisamente sorpreso. Cosa ci faceva Kendrick Lamar al posto di Mozart? Che fossi entrato sul suo account?

Autore: Filippo Simonelli

20 Aprile 2018
La verità è che il fatto che il Board del premio Pulitzer si sia riunito a New York, e dopo aver fatto molteplici ascolti e studiato valanghe di partiture abbia deciso che il disco del rapper sia ciò che di meglio ha espresso la musica americana nell’anno trascorso mi ha sorpreso e inevitabilmente fatto riflettere. Davvero è il miglior lavoro di quest’anno, e merita di ricevere lo stesso premo che hanno ricevuto personaggi come Aaron Copland e Samuel Barber?

Il disco e i suoi meriti

Partiamo da un punto sul quale probabilmente siamo tutti d’accordo. Designare DAMN ha fatto sì che tantissime persone si ricordassero del Pulitzer e/o che scoprissero che esiste un Pulitzer per la musica, cosa che non succedeva verosimilmente da anni. O che forse non c’era mai stata: verosimilmente anche alla grande maggioranza degli appassionati di musica e ai professionisti del settore non suonano familiari i nomi di Du Yun ed Henry Threadgill, i vincitori delle due edizioni precedenti.
Sul disco di Lamar ho poco da dire. Non è la prima volta che ascolto rap ed Hip-Hop, anche grazie al fratello sorpreso di cui sopra che mi tiene costantemente aggiornato sulle novità musicali; non ritengo comunque di essere un esperto ma mi pare che DAMN. abbia una qualità diversa e superiore rispetto a gran parte degli altri prodotti simili. Nel suo genere si tratta di una musica consapevole, studiata e ricercata in ogni dettaglio, dove addirittura si ravvisano delle formule studiate, clichées stilistici originali e personali, con una riconoscibilità che salta subito all’orecchio, e ad arricchire il tutto non mancano collaborazioni illustri per il settore.
Ma questo è sufficiente per raggiungere il pantheon della musica americana?

Lamar, lo story-telling e la politica

Probabilmente le ragioni di questo successo sono da ricercare anche altrove. Il comunicato pubblicato sul sito ufficiale, scarno come da prassi, afferma: “[DAMN. is a r]ecording released on April 14, 2017, a virtuosic song collection unified by its vernacular authenticity and rhythmic dynamism that offers affecting vignettes capturing the complexity of modern African-American life.”

Le reazioni del mondo dell’informazione a questa notizia, inattesa pressoché a tutti, sono state tendenzialmente positive. Si è detto che DAMN meritava il Pulitzer, perché in fondo è giornalismo, perché finalmente il Rap arriva a prendersi il suo posto in una grande istituzione, o perché finalmente la musica nera si inserisce in un contesto dominato dai bianchi. Si nota un certo compiacimento per il fatto che DAMN risulti particolarmente indigesto all’attuale presidente degli Stati Uniti ed infine c’è chi ha lodato le origini difficili del musicista venuto direttamente dal ghetto a forzare le regole di un premio fino ad allora dedicato solo alla musica definita, con un certo disappunto, colta. Gli spunti di riflessione offerti da una buona parte dei quotidiani in testa ad i motori di ricerca, insomma, sembrano ben poco rivolti al contenuto artistico e musicale di questo premio, preferendo il significato politico. Nessuno di questi fattori è irrilevante, naturalmente. Sono all’ordine del giorno persino sui nostri media le storie di violenze ingiustificate a danno degli afro-americani, che al netto di qualsiasi emancipazione spesso faticano ad intraprendere la scalata verso la middle-class o a mantenere il benessere desiderato. E tutte le fatiche, lo struggle che Lamar si porta con sé traspare nei solchi del disco, senza dubbio.
Ma tutto lo story telling che questo comporta, e che sul rapper è stato costruito con la stessa cura che lui stesso ha impiegato nelle tracce di ciascuno dei suoi dischi. La dimensione musicale è quasi del tutto assente negli elogi. Persino il modo in cui si esprime lo stesso comitato menziona solo “virtuosismo e di dinamismo ritmico” ma in funzione del racconto della complessità della vita moderna degli afro-americani.

[…] a virtuosic song collection unified by its vernacular authenticity and rhythmic dynamism that offers affecting vignettes capturing the complexity of modern African-American life.

Qualcuno si è posto delle domande sul versante musicale: se una buona fetta della conversazione virtuale sulla musica classica non è stata particolarmente entusiasta all’annuncio, in una doppia intervista Michael Gilbertson e Ted Hearne, i due finalisti del premio mancati hanno dato una loro prospettiva sul premio. Entrambi i due musicisti si dicono entusiasti per la vittoria di Lamar, sarebbero onorati di poter lavorare in futuro con lui e felici per la rottura della parete che separava musica colta ed hip-hop. Due dei giurati che hanno assegnato il premio, con una votazione all’unanimità, hanno spiegato le loro ragioni per questa scelta. Per Farah Jasmine Griffin, docente alla Columbia University, non esiste nessun criterio scritto per cui il premio debba essere assegnato necessariamente alla musica classica. In fondo, sostiene la studiosa, la decisione è stata presa dopo un lunghissimo setaccio tra più di 100 brani, e nessuno ha espresso remore nei confronti dell’hip-hop. Anzi, in molti erano già familiari col disco prima di studiarlo per la nomina, e tutto sommato è un bene che chi è incaricato di giudicare sulla cultura abbia riconosciuto il valore del frutto più maturo della musica afro-americana. Anche un altro giurato, David Hadju, sostiene che non essendo la rosa delle possibilità limitata alla musica di tradizione classica ma alla miglior musica in generale, occorre tenere conto delle vette che possono essere toccate anche da altri generi musicali, cosa che Lamar ha fatto.

Dunque?

Spulciando con maggiore attenzione gli annali del Premio, si notano in effetti altre piccole stranezze, sotto forma di menzioni speciali per la musica a Janis Joplin e Bob Dylan ad esempio. Ma Lamar è diverso: non si tratta di un riconoscimento a latere: è proprio lui che ha prodotto la miglior musica in America nel 2017.

A questo punto i primi che si dovrebbero fare delle domande sono i compositori professionisti, di origine e formazione classica. Possibile che nessuno sia stato in grado di scrivere un brano che pur nel canone della tradizione classica riuscisse a rappresentare meglio la produzione artistica di un paese di quasi 300 milioni di abitanti? Questa scelta dovrebbe essere un punto di rottura non solo per il premio, ma anche per chi dovesse ambire in futuro ad ottenerlo. Il fatto che i giurati abbiano deciso e lo abbiano fatto all’unanimità è un segnale che spetta ai compositori del futuro interpretare.

Personalmente non condivido, sotto nessun punto di vista, ma lo stimolo che può nascere potrebbe riservarci belle sorprese per il futuro. Se queste sono le motivazioni e gli auspici di chi ha giudicato non condivido ma accetto. Se invece, come pare che sia dalle reazioni del pubblico e della stampa, è veramente un pessimo segnale. Certo, non sarebbe la prima volta che un Pulitzer alla musica viene assegnato a brani dal forte messaggio sociale, e del resto la storia della musica pullula di esempi di musica impegnata, ma se questo diventa il fattore preponderante o addirittura esclusivo forse è superfluo tenere la categoria “Premio Pulitzer per la musica”.

Filippo Simonelli

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Filippo Simonelli

Fondatore di Quinte Parallele, Alumnus LUISS Guido Carli, Università Cattolica del Sacro Cuore e Conservatorio di Santa Cecilia

Articoli correlati