“Let me tell you” di Hans Abrahamsen: evocazione sonora di un inverno psichico

A Marialuce Sarti

La seconda generazione della scuola danese

Autore: Redazione

9 Febbraio 2018
Hans Abrahamsen (1952) è un compositore danese, tra i più importanti della sua generazione. È stato allievo di Pelle Gudmundsen-Holmgreen e Per Nørgård, impegnati nel movimento della New Simplicity nato in reazione alle complessità delle avanguardie del ‘900. Interessatosi alle correnti americane, venne in contatto a partire dagli anni ‘70 con il Minimalismo di Riley e Reich, e la Pop Art di Andy Warhol. Il suo linguaggio si è poi contaminato sia con l’influenza di certe esperienze d’avanguardia che con la fondamentale presenza di György Ligeti del quale aveva seguito per un periodo i seminari di composizioni tenuti ad Amburgo nei primi anni ’80.

 

https://www.youtube.com/watch?v=CGzr2z09o68

 

Nello spazio creativo di quasi cinquant’anni di lavoro ha avuto più di una volta ‘il coraggio di fermarsi, e l’eguale coraggio di ricominciare con rinnovata freschezza’ (Paul Griffiths). Fermarsi in senso letterale del termine: tra il 1990 e il 2000 riduce fin quasi al silenzio l’attività compositiva.“I couldn’t find the way to make what I wanted…” “Non riuscivo a trovare il modo di fare ciò che avrei voluto”, dichiarò in un’intervista al New York Times, poiché aveva la sensazione che il suo sistema musicale fosse divenuto così complesso da non riuscire più a liberare l’immaginazione.

 

Un altro procedimento compositivo: la trascrizione

Creare nuovo materiale gli era quindi impossibile, ma non ‘ricreare’, ossia rielaborare qualcosa di preesistente. In quel periodo dunque mette mano a proprie composizioni o altrui, trascrivendo per organici differenti. Questa pratica, in realtà, è da sempre parte integrante del lavoro di Abrahamsen – come lo è stato e lo è tutt’ora per altri compositori. Tra le opere da lui trascritte – oltre suoi precedenti lavori confluiti in nuove composizioni – ricordiamo quattro dei Sechs kleine klavierstücke Op. 19 di Schoenberg per ensemble; Kinderzenen di Schumann e Le tombeau de Couperin di Ravel per quintetto di fiati; composizioni di Bach, Satie e Nielsen, e Children’s corner di Debussy per orchestra. Segnaliamo a questo proposito due recenti incisioni per l’etichetta danese Dacapo di trascrizioni di Abrahamsen, eseguite dai musicisti dell’ensemble MidtVest. Qui invece possiamo ascoltare, Commotio, originariamente per organo, di Carl Nielsen:

https://www.youtube.com/watch?v=FaWlzeGpmsA

 

La forma di canone: un eterno ritorno

 

Negli anni ’90, nel momento in cui l’ispirazione sembrava essersi ‘congelata’, Abrahamsen elabora una realizzazione per flauto, clarinetto, vibrafono, chitarra, violino e violoncello di otto canoni di Bach (BWV 1072-1980 e BWV deest). La modernità di queste brevi, magistrali opere, secondo lui è tale da ricordargli la musica di Steve Reich.

“In the beginning of the 90s, I arranged some of Bach’s canons for ensemble. I became totally absorbed into this music and I arranged them with the intention of the music being repeated many, many times as a kind of minimal music. Obviously, I didn’t know which durations Bach had in mind, but by listening to his canons in this way, a profound new moving world of circular time was opened to me.” (Abrahamsen) Così egli parla della propria versione dei canoni di Bach. Traducendo: “Agli inizi degli anni ’90 ho arrangiato alcuni canoni di Bach per ensemble. Sono stato assorbito così totalmente da questi lavori da voler fare una trascrizione in cui la musica fosse ripetuta molte volte, quasi fosse musica minimalista. Naturalmente non avevo idea delle durate stabilite da Bach, ma ascoltando i canoni in questo modo, si è rivelato ai miei occhi un profondo e nuovo mondo in movimento di tempo circolare.”

Non è un caso che a colpire la sua attenzione fosse proprio il canone. Questa forma musicale si basa infatti sul principio della ripetitività, uno degli aspetti cardine della corrente minimalista, di cui Reich come è noto ha fatto parte. Data una melodia, più voci subentrano cantando la sua versione esatta o una modificata secondo i sistemi di variazione degli intervalli melodici o dei valori ritmici (ad esempio per moto retrogrado, inverso o cancrizzante).Gli ingressi sono sfalsati. Terminata la melodia le voci ricominciano da capo – senza interrompersi – proseguendo per un numero di volte deciso dagli esecutori. Man mano che l’esecuzione prosegue senza alcun sviluppo – il che la rende una forma che potremmo definire ‘rigida’– emergono però dettagli su cui l’orecchio inizia a focalizzarsi. L’ostinato ripetersi del brano porta la percezione dello scorrere del tempo e delle durate dei vari elementi a variare: a un dato momento si può avere la sensazione che il tempo stesso si sospenda, si dilati o si annulli. La totale assenza di sviluppo, e il continuo e ossessivo ripetersi costringono l’orecchio ad evadere, quindi a distrarsi, o a focalizzarsi su altro. Questo altro può anche essere l’ascoltare stesso. In questo esempio possiamo sentire la prima forma di canone a noi pervenuta, la cosiddetta Rota di Reading.

 Il tempo psicologico tra gli interrogativi del Novecento

Molti compositori del XX secolo, tra cui lo stesso Abrahamsen, hanno subìto il fascino degli studi e della letteratura sul tempo psicologico. Nei primi anni del secolo scorso infatti, con le nuove teorie della fisica, in particolare quelle relativiste, l’interrogativo sul tempo ha riguardato, oltre che filosofia e scienza, anche varie forme artistiche, in particolare musica, teatro, letteratura e arte figurativa. Il concetto spazio-tempo subisce infatti un brusco rovesciamento che stravolge l’idea del tempo della fisica tradizionale. Esempio ne sono le opere, tra gli altri, di Beckett, il quale, attraverso una personale concezione del teatro, propone un distaccamento dalle voci ossessive del passato e del futuro che continuamente ritornano, ostacolando lo svilupparsi del presente. Penso inoltre a Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, o a Thomas Mann – in particolare al romanzo La montagna incantata. Nella pittura la ‘pluralità dei momenti della percezione’ è un tratto fondamentale della corrente cubista che si sviluppa proprio a partire dalle riflessioni sul tempo, quarta dimensione. In tal senso cercano di riunire nell’oggetto del dipingere anche l’atto del dipingere stesso e quello dell’osservare.

Il filosofo Henri Bergson, che attraversa il diciannovesimo secolo arrivando alle porte della Seconda Guerra Mondiale, distingue tra tempo e memoria: ‘tempo esterno’ come successione omogenea di stati uguali e ‘tempo interno’, ossia memoria, quale flusso continuo, dove passato, presente e futuro si compenetrano. Tale interrogativo nel ‘900 musicale ha dato vita alle poetiche di Cage, Stockhausen e Ligeti, intenti a cercare mezzi espressivi e concettuali per esprimere la domanda sul tempo. Per quanto riguarda Abrahamsen, egli nota come ascoltando i canoni di Bach si fosse trovato dinnanzi a un “new moving world of circular time”, ossia “un mondo in movimento di tempo circolare”. Il tempo circolare crea la percezione di un universo temporale in movimento. Il musicista danese afferma infatti: “Depending on the perspective on these canons the music and its time can stand still or move either backwards or forwards.” Ossia: “A seconda della prospettiva con cui vengono percepiti questi canoni, il tempo e la musica stessa possono sembrare immobili o muoversi sia avanti che indietro”. Interessato ad approfondire l’effetto che il canone può generare nell’ascoltatore e nell’esecutore, decide di iniziare un nuovo lavoro basato esclusivamente su questa forma musicale, addentrandosi così in un nuovo ambizioso progetto: esplorare l’universo temporale. Nel frattempo infatti – si parla dei primi anni 2000 – aveva ripreso a comporre, tra l’altro con risultati notevoli, basti ascoltare il Concerto per pianoforte e orchestra.

Nel 2008 dunque completa Schnee (Neve), un vero e proprio laboratorio per l’autore, l’esecutore e l’ascoltatore. In circa sessanta minuti di musica per un piccolo complesso strumentale (tre legni, tre archi due pianoforti e due percussionisti), Abrahamsen esplora il suono e le sue possibilità espressive facendo uso di soluzioni timbriche, ritmiche o armoniche quasi alienanti. Lo scopo è di muoversi, dunque trasportarci, in molteplici stadi della percezione temporale.

Per fare ciò si ispira alla neve, fenomeno che lo ha interessato fin dalle sue prime composizioni, da Winternacht (1978), Zwei Schneetänze (1985), fino alla citata Schnee (2006-8) – già pubblicamente nota come capolavoro del repertorio moderno e contemporaneo – e alle successive composizioni Schneebilder (2013), Let me tell you (2013), per arrivare all’opera The snow queen, al momento in cantiere che si basa sulla novella La regina delle nevi di Hans Christian Andersen. La neve quale fonte di ispirazione probabilmente concilia nel compositore un personale e biografico fascino, con l’interesse a studiare la funzione del tempo e dello spazio – complice forse l’influenza delle lezioni ad Amburgo tenute da Ligeti a cui aveva preso parte. Un fenomeno atmosferico può infatti alterare la nostra percezione di spazio e di tempo. Per quanto riguarda Schnee, Abrahamsen si è ispirato a varie manifestazioni della neve, quali per esempio il ghiaccio, o più in generale l’inverno, per ciò che evocano a livello sensoriale ed emotivo. L’effetto della neve fresca che cadendo si posa sulla superficie; di un paesaggio completamente bianco dove non possiamo vedere altro che una coltre che confonde la linea del cielo con quella della terra; il silenzio che caratterizza un luogo innevato. Schnee rappresenta quindi un viaggio psicologico che, allo stesso modo della Winterreise di Schubert-Müller, pone come interrogativo la relazione tra coscienza e oggetto della coscienza, in questo caso spazio e tempo.

La composizione è formata da cinque canoni (di ognuno troviamo il rectus e l’inversus), e tre intermezzi a questi interposti. Il lavoro sul suono che viene messo in atto è davvero affascinante: l’intonazione degli strumenti durante l’intero ciclo viene a calare a poco a poco, seguendo l’accorciarsi temporale dei movimenti (i canoni). Le soluzioni armoniche adottate sono apparentemente anche molto semplici (ad esempio triadi maggiori e minori) però, con il progressivo cambio di accordatura degli archi e l’uso di armonici naturali, contrapposti al suono temperato del pianoforte o delle percussioni a tastiera, ha quale risultato una sorta di ‘accordo stonato’. Sono elementi che il nostro orecchio conosce bene (una triade per esempio, la sentiamo anche negli annunci alla stazione), inseriti però in un contesto che ce li presenta non a fuoco. Sarebbe come osservare un oggetto attraverso un frammento di vetro o un cristallo di ghiaccio: lo vedremmo assumere contorni sfuocati, pur riconoscendolo. Questo avviene in particolare durante i tre intermezzi dove gli archi modificano l’intonazione delle corde di un sesto di tono, suonando però le corde vuote, perciò senza pressione delle dita, come se stessero accordando gli strumenti realmente!. La composizione è stata incisa dall’Ensemble Recherche, e annovera ogni anno un numero considerevole di esecuzioni da parte di vari complessi strumentali in tutto il mondo.

https://www.youtube.com/watch?v=SKuV6NO_f08

 

Let me tell you: anatomia del viaggio di una immobile coscienza

Tali caratteristiche musicali sono riprese anche nel consequenziale sviluppo di Schnee: il recente ciclo di sette canti per soprano e orchestra intitolato Let me tell you (2013). Commissionato dai Berliner Philarmoniker e da Barbara Hannigan si sta confermando una delle più importanti composizioni scritte in tempi recenti; dopo la prima con il soprano canadese, e la filarmonica diretta da Andris Nelson, ha ricevuto esecuzioni da oltre undici orchestre (da Berlino, Helsinki, New York, a Boston). Incisa su disco per l’etichetta Winter&Winter ha ricevuto i più importanti premi di critica e pubblico, e al compositore sono stati assegnati i prestigiosi Grawemeyer Prize for Music Composition (2016), e il Nord Council Music Prize (2016).

Il titolo è tratto da un racconto del critico, musicologo, saggista e drammaturgo Paul Griffiths, di cui l’autore e il compositore hanno scelto tre parti, ognuna a sua volta suddivisa in più sezioni. Il racconto è scritto usando le stesse parole, liberamente rielaborate, che Shakespeare ha affidato al personaggio di Ofelia nella tragedia di Amleto. Per una coincidenza non troppo casuale, anche in Let me tell you la neve è un elemento centrale in quanto motivo di riflessioni attorno alla memoria, al tempo e all’amore (che provengono direttamente da Shakespeare). Un flusso di musica e di sonorità delicatissime quanto capaci di violenza, traghettano Ofelia in balia dei suoi interrogativi, lungo un cammino di contemplazione fino alla perdita del proprio sé – compare anche qui la metafora del ‘viaggio d’inverno’. Di seguito il testo completo di Let me tell you:

PART I

 1.

Let me tell you how it was.

I know I can do this.

I have the powers:

I take them here.

I have the right.

My words may be poor

but they will have to do.

There was a time when I could not do this:

I remember that time.

 

2.

O but memory is not one but many—

a long music we have made

and will make again,

over and over,

with some things we know and some we do not,

some that are true and some we have made up,

some that have stayed from long before,

and some that have come this morning,

some that will go tomorrow

and some that have long been there

but that we will never find,

for to memory there is no end.

 

3.

There was a time, I remember, when we had no music,

a time when there was no time for music,

and what is music if not time—

time of now and then tumbled into one another,

time turned and loosed,

time bended,

time blown up here and there,

time sweet and harsh,

time still and long?

 

PART II

 

4.

Let me tell you how it is,

for you are the one who made me more than I was,

you are the one who loosed out this music.

Your face is my music lesson

and I sing.

5.

Now I do not mind if it is day, if it is night.

If it is night,

an owl will call out.

If it is morning,

a robin will tune his bells

Night, day: there is no difference for me.

What will make the difference is if you are with me.

For you are my sun.

You have sun-blasted me,

and turned me to light.

You have made me like glass—

like glass in an ecstasy from your light.

like glass in which light rained

and rained and rained and goes on,

like glass in which there are showers of light,

light that cannot end.

 

PART III

 

6.

I know you are there.

I know I will find you.

Let me tell you how it will be.

7.

I will go

out now.

I will let go the door

and not look to see my hand as I take it away.

Snow falls.

So: I will go on in the snow.

I will have my hope with me.

I look up,

as if I could see the snow as it falls,

as if I could keep my eye on a little of it

and see it come down

all the way to the ground.

I cannot.

The snow flowers are all like each other

and I cannot keep my eyes on one.

I will give up this and go on.

I will go on.

 

La prima parte del ciclo si focalizza sul tempo e sulla memoria: “lascia che ti racconti come era” inizia dicendo la giovane donna, mentre ricorda quando non aveva la forza di esprimersi, di parlare; “le mie parole possono essere deboli ma devono farlo” dice, ora che ha finalmente trovato il coraggio, “un tempo non ne ero capace, ricordo quel tempo” conclude. Nel ricordare il passato, la donna si interroga su cosa sia la memoria: “non un ricordo ma molti, come una musica che abbiamo suonato e che suoneremo ancora”; il tempo è da lei evocato per la sua fugacità. Sembra infatti stia dicendo che ricordare è l’unico modo per percepire lo scorrere del tempo e il fatto che le cose siano realmente accadute. Il tempo dell’ora che immediatamente è altro:“tempo dell’adesso che immediatamente è scivolato in un altro adesso” tempo che “curva e si allenta” che si “piega”, “immobile e che al contempo scorre”. Così si conclude la prima sezione.

La seguente si apre invece con una finestra sul presente: “lascia che ti racconti come è ora”. La donna si rivolge a una persona che “l’ha resa più di ciò che era”, colui che “ha liberato questa musica”; “Non importa se ora sia giorno o notte, ciò che importa è se tu sarai con me”, dice Ofelia, “tu mi hai reso ghiaccio in estasi per la tua luce, ghiaccio nel quale è piovuta la luce, piovuta e piovuta ancora, ghiaccio nel quale vi sono scrosci di luce, luce che non può finire”. L’intervento della musica in questo passaggio sottolinea uno sconvolgimento emotivo. Sentiamo contrasti sonori e dissonanze feroci, una sofferenza al contempo glaciale e infuocata, suoni che sfuggono dall’orchestra come una cascata di stalattiti.

 

Nella terza sezione Ofelia dice: “lascia che ti racconti come sarà”; prosegue: “So che ci sei, so che riuscirò a trovarti”. Si entra così nella settima lirica del ciclo (seconda e ultima della terza parte), la più ampia per durata tra tutte, e musicalmente la più struggente. “Lascerò andare la porta senza voltarmi a guardare la mano che la chiuse”; fuori nevica. Ofelia si incammina portando con sé la propria speranza di trovare la persona amata. Guarda in alto come se potesse vedere la neve cadere tenendo fisso l’occhio su un piccolo frammento che dall’alto cade e si deposita, ma non può: “I fiocchi di neve sono uno simile all’altro e non riesco a fissarne uno solo. Lascerò stare tutto questo, e continuerò ad andare avanti. Continuerò ad andare avanti”. Con questa frase si conclude il testo dell’opera.

Il paesaggio innevato compare come immagine solo alla fine delle liriche mentre Ofelia per ritrovare il proprio amore si abbandona a una folle ricerca sullo sfondo di un luogo sommerso dalla neve. Si trova in un stato psichico tormentato, cerca con lo sguardo un fiocco, l’incanto della neve che cade, quasi tentasse di appigliarsi a un’ultima speranza, non ci riesce. Si svuota allora, totalmente, diventando quel paesaggio che già ci appare vuoto, isolato, bianco. Attraverso la musica ci sembra di sentire la donna trascinarsi nella neve, con una lentezza quasi statica, attanagliata dal proprio dolore. Pare di vederla a poco a poco allontanarsi dal mondo, mentre la voce che le dà il compositore è un ultimo dolcissimo canto all’amato. Da un punto di vista drammaturgico la scelta di Abrahamsen sembrerebbe suggerirci che Ofelia si trovi, fin dalle prime battute della composizione, in un paesaggio innevato, in quanto il materiale è lo stesso ogni volta che ritornano le parole “let me tell you”. La musica, in ogni dettaglio e lungo tutto il corso del brano, evoca un paesaggio glaciale che non sappiamo se sia fuori o dentro la donna. È l’immagine sonora di un inverno psichico. Potremmo dire quindi che, seppure il testo individui tre distinti momenti (presente, passato e futuro), l’azione sonora  li riporta a un unico continuo presente. Un percorso della coscienza che è avvenuto, ma forse non è avvenuto mai.Riguardo al tempo drammaturgico di Let me tell you Abrahamsen dichiara in un’intervista:

“The piece moves through the past, present and future. In the first song she sings ‘Let me tell you how it was’, in No. 4 ‘Let me tell you how it is’, and in the last one she says ‘I know you are there, I know I will find you…Let me tell you how it will be’: the music here comes straight out of the very first canon from Schnee – the snow music itself! And then in the second song, where she’s singingabout memories, and what memory is, this music is again from Schnee […].” 

“La composizione oscilla tra passato, presente e futuro. Nella prima lirica [Ofelia] intona: “Lascia che ti dica come era”. Nella quarta: “Lascia che ti dica come è”, mentre in quella conclusiva canta: “So che sei là, ti troverò…. Lascia che ti dica come sarà.” Qui la musica nasce direttamente dal primo canone di Schnee – la musica della neve stessa! In seguito, nella seconda lirica [di Let me tell you], dove lei parla di memorie, e cosa sia la memoria, la musica ancora una volta è quella di Schnee …”

 

Per evocare lo stato emotivo di Ofelia, Abrahamsen fa impiego, come in Schnee, di quella timbrica ‘non a fuoco’, ossia come guardassimo attraverso una superficie di ghiaccio. Nelle battute conclusive di Let me tell you, uno strumento chiave emerge, solitario, dall’amalgama dell’orchestra, e si protrae con ostinazione fino alla fine: un pezzo di carta strofinato sulla membrana della grancassa. È un timbro già sentito in Schnee, che potrebbe rimandare, in questo capolavoro, al passo strascicato, inesorabile, della donna.

Michele Sarti

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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