L’inizio senza fine di Komitas Vardapet

Dietro la vicenda personale di ogni artista c’è sempre la storia, ma a volte accade che le due si intreccino in modo da diventare inscindibili, come è stato per il Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen o per la leggenda della dedica di Beethoven a Napoleone stracciata dalla Sinfonia Eroica.

Autore: Lorenzo Pompeo

4 Dicembre 2017
Attraverso questi personaggi e le loro vite conserviamo la memoria della storia più vicina a noi, quella più “nostra”, che ricordi epopee e tragedie della nostra civiltà.

Altre storie più remote, spesso, vengono dimenticate, restano sconosciute e ricordate solo dei luoghi che le hanno vissute.
La storia di Komitas Vardapet, compositore, etnomusicologo e uomo religioso armeno, è tanto viva in Armenia quanto poco lo è tra di noi, se non tra pochi appassionati che la custodiscono, specie le comunità armene sparse per il mondo dopo la grande Diaspora seguita ai tragici episodi del 1915-1916, gli anni del genocidio degli armeni ad opera dell’Impero ottomano.

A questi avvenimenti è legata la sua storia e da essi inseparabile, e tanto tragica fu questa, tanto grande è rimasta la memoria della statura artistica e personale di Komitas.

I primi anni e la formazione

Nell’Ottocento parte dell’Armenia che oggi conosciamo entrò a far parte dell’Impero russo zarista, ma molte comunità armene vivevano nelle regioni vicine, in particolare l’Anatolia, regione che dal confine con l’Armenia attraversa centralmente la Turchia. Infatti, Komitas Vardapet nacque nel 1869, allora col nome di Soghomon Gevorki Soghomonyan, a Kütahya, nella zona più occidentale dell’Anatolia, in una famiglia che conosceva e praticava la musica, ma rimase orfano di entrambi i genitori quando era ancora bambino e fu la nonna a crescerlo.

L’evento che segnò la sua vita fu il viaggio di un membro del clero armeno locale, tale Padre Dertsakyan, a Ejmiatsin, località meridionale d’Armenia considerata la sua capitale religiosa, per essere ordinato vescovo. Lì incontrò il Catholicos Gevork IV, la massima carica della Chiesa Apostolica Armena, che gli chiese di scegliere un orfano della sua regione che venisse educato nel seminario di Ejmiatsin.
Soghomon fu scelto tra venti candidati, così, nel 1881, entrò in seminario concludendone la formazione nel 1893 imparando tra l’altro anche l’armeno, che gli era precedentemente sconosciuto: quando il Catholicos volle ascoltarlo cantare, il giovane Soghomon rispose «Non conosco l’armeno, ma se lo desidera canterò», così cantò un antico inno in armeno, senza conoscerne il significato.

Fu qui che, ordinato monaco, prese il nome di Komitas, in onore di un Catholicos e poeta scrittore di inni sacri del VII secolo. Dopo solo due anni ottenne anche il titolo di Vardapet, destinato agli archimandriti della Chiesa armena dopo gli studi di teologia.

Durante il suo periodo in seminario, Komitas Vardapet studiò musica con un celebre compositore dell’epoca, Khristaphor Kara-Murza e impressionò per la bellezza del suo canto. Negli anni gli fu assegnata la cattedra di musica del seminario e, dal 1895, iniziò a seguire le lezioni di Makar Yekmalyan, maestro di armonia che fu allievo di Rimskij Korsakov e che portò in Armenia le moderne tecniche compositive europee.

Questa volontà di ampliare i propri orizzonti musicali lo condusse all’università Kaiser Friedrich Wilhelm di Berlino (il precedente nome della odierna università Humboldt), dove studiò sotto la guida di Richard Schmidt fino a conseguire il titolo di Dottore in Musicologia nel 1899.

Dopo aver completato questi studi tornò a Ejmiatsin nel settembre dello stesso anno, apportando importanti cambiamenti all’educazione musicale impartita nel luogo: istituisce un coro polifonico, allestisce una piccola orchestra e rivoluziona l’insegnamento stesso della musica.

Gli studi di etnomusicologia lo avevano infiammato e avrebbero presto indirizzato in modo decisivo la sua carriera artistica e la sua vita in generale.

La musica religiosa

Komitas Vardapet dedicò molto della sua opera all’ambito religioso, com’era naturale che fosse, e il suo capolavoro, non solo relativamente a quest’ambito, è universalmente riconosciuto essere il Patarag o Badarak, una Divina Liturgia armena iniziata a comporre dal 1892 e mai conclusa a causa della Prima Guerra Mondiale. La musica liturgica armena è differente rispetto a quella cristiana europea, è monofonica, totalmente incentrata sul canto, senza armonia o accompagnamento strumentale. Cercò di combinare questa eredità secolare con una matrice polifonica e fu per questo che i vertici delle gerarchie ecclesiastiche furono refrattari all’approvazione dell’opera, che trovavano distante dallo spirito della antichissima liturgia armena.

Dell’opera incompleta oggi possediamo tre parti: Nirvium (Offertorio), Srbatsum (Canonizzazione) e Chashakum (Eucarestia). In essi Komitas tentò di combinare gli antichi canti, la cui memoria era custodita dai preti più anziani, a temi popolari, oltre che a elementi polifonici. La versione più conosciuta è quella che prevede l’esecuzione da parte di tre voci maschili.

Oggi la Divina liturgia di Komitas Vardapet risulta tra le più eseguite ed è considerata il vertice massimo della musica sacra in Armenia.

 

La sua educazione religiosa lo spinse ad uno studio appassionato della tradizione di musica sacra armena. Questa tradizione risaliva al Medioevo, quando la creazione dell’alfabeto armeno ad opera di San Sahak (Isacco) offrì la possibilità di musicare i salmi biblici e la creazione di inni denominati Sharakans.

Purtroppo, molte di queste melodie erano andate perdute ed era molto dibattuta la struttura teorica che li sosteneva, in particolare il sistema di notazione neumatica basata su segni chiamati khaz che restò indecifrato.
Komitas si disse convinto di aver trovato la chiave per decifrare i neumi e che che presto questa scoperta sarebbe diventato un patrimonio comune, invece per noi è solo un’altra grave perdita dovuta all’oblio della sua opera e alla distruzione dei suoi lavori.

 

Il canto del popolo

Komitas iniziò a percorrere l’Armenia di villaggio in villaggio, con l’intento di raccogliere con sistematicità le radici della cultura musicale armena, tra canti e danze. In questo modo si trovò a raccogliere un patrimonio immenso che comprendeva horovel, ossia canti legati alla coltivazione dei campi, canti patriottici, canti d’amore, canti rituali per nozze, funerali o svariati eventi, canti di montagna, canti che accompagnavano le danze o anche semplici ninne nanne.

Nella scrupolosa ricerca Komitas non ricercava solo l’elemento puramente armeno, conscio che la posizione e la storia di questa terra implicava necessari e significativi contatti con altre componenti culturali, diede perciò importanza anche alla cultura turca, quella curda o quella persiana.

L’Armenia non rappresentava una entità nazionale a sé stante, non aveva grandi possibilità di controllare ed esaltare la propria cultura ed è per questo che il lavoro di Komitas acquisisce un’importanza capitale, perchè recupera e salva un patrimonio che sarebbe andato in massima parte perduto.

Questi viaggi immersi nella ricerca ebbero modo di trasformarsi e sorprendere anche lui stesso, e sono una testimonianza assai significativa per chi voglia accostarsi alla musica popolare e comprenderne le dinamiche.

Hrand Nazariantz, poeta armeno, riportò la testimonianza di Padre Komitas riguardo un episodio tipico di questi viaggi verificatosi ad Harige, in Armenia settentrionale durante una la festa religiosa della trasfigurazione:

«Io ho visto e sentito allora quanto mi fossi sbagliato nel pensare che avrei ascoltato canzoni già composte. […] Tutto d’ un tratto quattro persone si vangarono e formarono una ronda. Essi fecero qualche giro di silenzio, a passi simmetrici, verso destra come si usa in principio di una danza. La più brava cantautrice del gruppo si mise a cantare il ritornello seguente:

Amman tello, tello

Siroon tello, tello!

Il coro ripetette lo stesso, e la corifea cantò la prima parte della canzone e il primo verso del ritornello, il coro ripetette. La corifea cantò la seconda parte della canzone e il secondo verso del ritornello, con una picola aggiunta. Un nuovo corifeo passò alla testa del gruppo danzante, cambiò motivo e cantò con un tono più alto, la prima parte.

Quel giorno io ho notato trentaquattro canzoni nuove. Questo basta per mostrare in che maniera nascono le canzoni popolari, ed è l’indice più esatto della capacità musicale e poetica dell’anima del popolo armeno.»

Da queste esperienze nacquero anche composizioni originali in cui Komitas rielaborò i materiali sonori incontrati nella musica popolare, come nelle Sei danze per pianoforte, uno strumento tipicamente occidentale avvicinato però alle modulazioni di voce e alle melodie armene.

Padre Komitas non si limitò a recuperare e conservare questo patrimonio per l’Armenia e gli armeni, ma si impegnò in prima persona per diffondere la musica tradizionale armena, tra Egitto, Turchia e, soprattutto, Parigi. Qui, nel 1906 tenne dei concerti per l’Associazione degli Armeni di Parigi che emozionarono il pubblico e impressionarono Claude Debussy, per poi suscitare interesse anche in Stravinskij. Una pagina della stampa francese dell’epoca ne parlò in questi termini:

«Il concerto è stato una rivelazione, una meraviglia […]. Nessuno di noi poteva supporre la bellezza di questa arte, che non è in realtà né europea, né orientale, ma possiede un carattere unico al mondo di dolcezza, di emozione penetrante e di tenerezza.»

Tra il 1912 e il 1913 registrò delle incisioni fonografiche e l’anno successivo partecipò al V° Congresso della Società Internazionale di Musica, dove parlò di una musica che «presenta forza e vitalità, al suo interno vive una vera e propria filsofia, il vero spirito della sua stirpe.»

La fuga verso l’abisso

Komitas spaziava liberamente tra repertorio sacro e repertorio profano e questo non trovò l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche armene che non vedevano di buon occhio questa “apertura al mondo”.
Per il suo operato Komitas fu sommerso di critiche da parte di ambienti conservatori che cercarono in ogni modo di diffondere calunnie e falsità sul suo conto rendendogli la vita impossibile, al punto da spingerlo a scrivere una lettera al Catholicos per chiedere di poter vivere e lavorare pacificamente e liberamente.

Questa rottura lo portò ad una decisione che si rivelerà tragica, il trasferimento a Costantinopoli nel 1910.

L’arrivo nella metropoli turca fu illusorio. Fu accolto con entusiasmo da un ambiente che lo protesse e ne incoraggiò le attività e potè fondare un coro di trecento membri che chiamò “Gousan”. Spendeva il suo tempo in concerti e presentazioni, lui stesso vi prendeva parte come direttore, musicista anche solista con flauto e pianoforte oppure cantando come baritono o come tenore, cosa che gli era permessa dalla sua estensione vocale.

Nel mezzo di questa dinamica e preziosa attività, accorse la fatalità. Nel 1915, di cui si ricorda in particolare il 24 Giugno, il governo retto dai Giovani Turchi, con la giustificazione di non permettere agli Armeni di prendere le parti della Russia che era in conflitto con l’Impero Ottomano, ordina la cattura e la deportazione in massa degli Armeni.

Komitas e la sua attività che ponevano agli occhi del mondo il popolo armeno erano una minaccia per i Turchi, la sua apertura al profano era una eresia per il clero armeno: Komitas era rimasto solo e, fatalmente, fu vittima dei provvedimenti del 1915 e fu deportato in Anatolia.

La prigionia non durò molto grazie all’intervento di un suo buon amico, il poeta turco Emin Yurdakul e, soprattutto, dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau, che mediarono con il governo per ottenerne la liberazione.

Questo soccorso non salvò Komitas da quella che è stata definita la sua prima morte: già minato nell’anima dalle tragiche immagini della deportazione che gli erano rimaste negli occhi, una volta liberato scoprì che gran parte del materiale tanto faticosamente recuperato e e organizzato, il frutto di anni e anni di ricerca e lavoro, ciò cui aveva dedicato la vita era andato distrutto per mano degli Ottomani.

Il tracollo psicologico fu definitivo. Sconvolto dal dolore e dall’odio che gli era stato destinato, Komitas perse progressivamente la ragione in balia della depressione, di paranoie e manie di persecuzione, ma più che altro annientato dall’azione devastante della disperazione.

Il popolo di cui aveva ascoltato lo spirito raccontandone le espressioni musicali era condotto allo sterminio in massa senza pietà, la memoria di esso che egli aveva così scrupolosamente raccolto e amorevolmente protetto era distrutta. Aveva dedicato la vita al popolo armeno, alla sua spiritualità e alla sua fede, alla sua musica, ma anche alla splendida realtà del contatto tra esso e la cultura turca e svanita era anche la possibilità di conciliazione tra di essi.

La realtà restituì a Komitas una morte spirituale senza ritorno, fino a quella fisica che sopraggiungerà nel 1935, dopo vent’anni di reclusione nella clinica psichiatrica di Villejuif a Parigi.

L’anno successivo le sue spoglie furono trasferite nel Pantheon di Yerevan e iniziò un lento e complesso recupero di suoi manoscritti e riedizioni delle sue opere e oggi è il musicista forse più importante nella coscienza nazionale armena oltre che un vero e proprio martire del Genocidio armeno.

La memoria e la tragedia

Contrariamente a quanto si potrebbe udire nella musica di un Messiaen o di un altro compositore coinvolto in prima persona in una grande tragedia, non abbiamo musica di Komitas successiva alla sua “prima morte”, ed è forse il modo migliore di custodirne la memoria, ricordandolo nella sua dedizione alla sua terra e alle persone che la abitano, senza enfasi nazionalistiche di sorta, ma solo nell’amore per la sua missione di dare risonanza alla voce di un popolo, del suo spirito più vivo, nella candida immagine della vita delle persone semplici che abitano i piccoli villaggi sparsi in questa terra colma di storia e di storie.

La volontà indomabile di Komitas nel prendersi cura della voce del proprio popolo e la simbiosi tra la sua persona e il popolo che l’accolse fu sintetizzata dal Catholicos Vazgen I con queste splendide parole:

«Il popolo Armeno trovò e riconobbe la sua anima, la sua natura spirituale nelle canzoni di Komitas. Komitas Vardapet è un inizio che non ha fine. Lui vive attraverso la gente armena, ed essa deve vivere attraverso di lui, ora e per sempre.»

Komitas donò ogni energia spirituale alla propria terra e gli fu sempre a cuore di evidenziare il carattere comunitario della cultura popolare, poiché nella vita dei più semplici il canto univa tradizioni turche e armene senza bisogno di creare ponti per comunicare tra di loro.

Gli elementi delle diverse culture e fedi si incontrano dialogando nella differenza, dando vita a nuove forme nate proprio dal loro fecondo incontro. Grazie a lui questo apparve come un’opera sempre possibile nel momento in cui fosse realizzata dalle persone, dai loro canti e le loro danze, dal modo unico e indecifrabile di raccontarsi la vita attraverso la musica.

Nonostante lo spazio marginale dedicato dalla nostra cultura musicale alle realtà più “remote”, Komitas giunge fino a noi dando prova di come la sua opera musicale sia stata davvero capace di mettere in dialogo le diverse culture, la musica colta e popolare, il sacro e il profano.

La sua forza d’animo arriva oltre le sue “due morti”, come il fuoco inesauribile di cui scrisse in una sua poesia.

“Ogni giorno
Prendi una lanterna
Mantienila luminosa
e che sia fonte di luce
per la tua mente
Ancora e ancora,
Affidati quel fuoco inesauribile
come corda della speranza
del tuo cuore.”

Lorenzo Pompeo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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