Ricostruzione della vocalità di una primadonna tardo settecentesca, Brigida Giorgi Banti

Divismo e teatro d’opera sono due fenomeni indissolubili. Tanti erano, e sono ancora oggi, gli elementi che rendono una Diva tale: l’aspetto fisico, la personalità, le capacità interpretative e soprattutto ciò che ha la capacità di riempire il teatro, ossia la voce.

Autore: Emanuela Borghi

22 Ottobre 2017

Come afferma il filosofo Roland Barthes ogni rapporto con una voce è necessariamente amoroso e, grazie ai vari supporti tecnologici dei quali disponiamo, il rapporto con la voce può diventare privato, ripetitivo, a tratti parossistico. Possiamo ascoltare e riascoltare la voce di un  cantante all’infinito, coglierne ogni sfumatura, ogni piccolo ed unico dettaglio. Cogliere la grana della voce. Com’è però possibile innamorarsi di una voce del passato, dovendo obbligatoriamente rinunciare all’ascolto? Il destino di tutte le dive che hanno reso grande il teatro d’opera prima dell’avvento della registrazione sonora sembra quello di esser dimenticate. Le voci del XVIII secolo diventano così voci perdute. Questo accade solo quando la descrizione di una vocalità ruota intorno solo ed unicamente ad un dato sonoro. Nel percorso che si intraprende tentando di ricostruire la grana di una voce perduta, dovendo rinunciare alle preziosissime registrazioni, si ricorre ad una altro tipo di materiale. La letteratura secondaria, fatta di articoli di rivista, recensioni, diari e lettere, è una grande risorsa.

Ricostruire una vocalità appartenente ad un cantante del XVII secolo risulta un’operazione estremamente complessa ed a volte fallimentare. Gli aspetti maggiormente interessanti di una vocalità, quelli che la rendono unica, come la capacità di eseguire quelle lunghissime e complesse cadenze, che conquistavano l’attenzione e l’ammirazione del pubblico, spesso appartengono ad una prassi esecutiva estemporanea, fatta d’improvvisazioni che non vengono fissate in partitura.

Tentare quindi di strappare dall’oblio delle voci perdute alcuni casi particolari significa saper cercare, soprattutto nella letteratura secondaria, qualche cantante che si è sottratto alla sola prassi estemporanea, lasciando delle tracce scritte. Uno degli aspetti che principalmente sottrae l’interprete dalla prassi dell’ornamentazione improvvisata è l’incapacità di comporre autonomamente la cadenza stessa, così come accade per gli abbellimenti più complessi. I grandi castrati generalmente possedevano una solida conoscenza dell’armonia, che li rendeva autonomi nella composizione delle parti virtuosistiche, quasi fossero dei co-autori delle arie maggiormente virtuosistiche. Verso la fine del XVIII secolo, col declino del castrato, iniziano ad emergere nelle parti di soprano le primedonne, che in alcuni casi avevano ricevuto una rapida e sommaria istruzione musicale impartita all’unico scopo di affidarle rapidamente ad un impresario teatrale, in modo che potessero guadagnare. Un celebre esempio di questo iter, proveniente da un ceto sociale basso e priva di istruzione, ma in grado di conquistare i più grandi teatri europei fu il soprano Brigida Banti Giorgi, che diventò una delle più grandi cantanti d’opera del XVIII secolo.

Così la troviamo descritta da Lorenzo Da Ponte in un episodio delle sue celebri Memorie:

La Banti era una femminaccia ignorante, sciocca ed insolente che, avvezza nella sua prima giovinezza a cantar pei caffè, e per la strada, portò sul teatro, dove la sola voce la condusse, tutte le abitudini, le maniere e i costumi di una sfacciata corista.Libera nel parlare, più libera nelle azioni, dedita alla crapola, alle dissolutezze ed alla bottiglia, appariva sempre quello che era in faccia a tutti, non conosceva misure, non aveva ritegni, e quando alcuna delle sue passioni era stuzzicata dalle difficoltà, dalle avversità o dalle opposizioni, diventava un aspide, una furia, un demone dell’inferno che sarebbe bastato da solo a sconvolgere tutto un impero, non che un teatro.[1]

Da questa breve ed incisiva descrizione è possibile ricavare alcuni elementi caratterizzanti. Brigida Banti conquista i più grandi teatri d’Europa con l’unica risorsa della quale disponeva: una magnifica e potente voce. Non era bella, non era colta e non era di buona famiglia, aveva solo talento e voce. Incomincia a cantare da bambina, esibendosi insieme ai genitori, artisti girovaghi, per le piazze del nord Italia. Continua a cantare per le piazze, anche quando la sua intraprendenza e voglia di emergere la portano in Francia. Le esibizioni agli angoli delle strade ben presto si trasformano in recital davanti alla Regina Maria Antonietta. La sua ritrattista ufficiale, Madame Vigée-Le Brun, nei Souvenirs parla di un incontro avvenuto con la Banti, senza precisarne l’anno o la città.

Io non so il perché, ma mi ero prefigurata la Banti essere di corporatura prodigiosamente giunonica. Al contrario, quando la vidi, constatai che era di una corporatura piccola, minuta ed i aspetto non bello, con una tale quantità di capelli che il suo chignon rassomigliava ad una criniera di cavallo. Ma che voce! Non si può istituire alcun paragone con la potenza e l’estensione si quella voce: la sala, in tutta la sua grandezza, non poteva contenerla. Lo stile del suo canto, lo ricordo bene, era assolutamente lo stesso di quello adottato dal famoso Pacchierotti, cui Madame Grassini venne in seguito paragonata. Questa famosa cantante aveva un aspetto del tutto particolare: il petto era notevolmente alto e costruito a guisa di un mantice. Questo è ciò che mi sovvenne quella sera allorchè, alla fine del concerto, assieme a qualche altra dama, feci in modo di passarle accanto in un camerino. Fu allora che io pensai che questo inconsueto meccanismo respiratorio potesse contenere e sprigionare la forza e l’agilità della sua voce.[2]

Con un simile potenziale diventare una delle più grandi primedonne del XVII secolo non le risultò difficile. Interpretò numerosissime opere serie nei principali teatri italiani ed ebbe un enorme e duraturo successo anche al King’s Theatre di Londra. Tra le maggiori e più costanti collaborazioni è presente quella col compositore Francesco Bianchi. Attraverso le sue opere la cantante esplorò il mondo dell’opera seria settecentesca, interpretando celebri eroine tragiche come Semiramide, Briseide e Tisbe. Fu la  Aricia nella Fedra di Giovanni Paisiello e fu l’Alceste di Christoph Willibald Gluck.

Brigida Banti è stata la protagonista di uno dei momenti più significativi della storia del melodramma italiano: nel 1792 inaugurò il Teatro La Fenice di Venezia con l’opera I Giochi di Agrigento composti da Giovanni Paisiello. In questa occasione ebbe anche modo di cantare insieme al celebre castrato Gasparo Pacchierotti. L’aria di tempesta collocata all’interno dell’opera è un ottimo strumento per mostrare le capacità della cantante.

Analisi dell’aria Stridea da un lato il vento

Brigida Banti, nel ruolo della principessa Aspasia, compare in scena con un’aria di tempesta, molto mossa e strutturata appositamente per mostrare le grandi capacità tecniche della cantante. Viene creato un paragone fra i moti del mare in tempesta e l’animo scosso della principessa, tormentata dalle pene d’amore. L’organico dell’aria è composto da violini primi e secondi, oboe, clarinetti in si bemolle, fagotti, trombe in si bemolle, viole e basso. L’aria è bipartita, per la prima parte è indicato Maestoso, mentre la seconda parte, più mossa e veloce, riporta l’indicazione Andante moderato. L’aria presenta tre strofe, dopo averle cantate una prima volta consecutivamente, la protagonista riprende la terza strofa, interpolata dagli ultimi due versi della prima strofa, per concludere nuovamente sulla terza strofa, con risoluzione alla tonica.

Stridea da un lato il vento,
s’apria dall’altro il flutto.
Era per noi spavento,
la terra, il cielo, il mar.
Pietosi alfin gli Dei
l’orror cangiaro in calma
ei mesti voti miei
seppero il Ciel placar.
Or che sereno è il Fato
potrò sfogar gli affetti
e del Germano amato
al caro sen volar.

La cantante attacca dopo solo tre battute strumentali ed espone tutte e tre le strofe del testo. La prima strofa viene presentata con un lieve accompagnamento strumentale, suggerito dalla presenza del termine sottovoce, dopo aver suonato le prime battute in forte.  La linea melodica, sulla quale vengono cantati i primi quattro versi, appare sinuosa, con alcune appoggiature, è impostata sulla tessitura medio-alta, spingendosi verso le note più acute sulla ripetizione dell’ultimo verso, che è più mosso ed accompagnato dal crescendo dell’accompagnamento strumentale e dalle note tutte staccate degli archi e dei fiati.

 

La seconda strofa ha una linea melodica simile alla prima, ma con alcuni passaggi più interessanti, come la presenza del do 4 lungo e tenuto per due battute sul termine calma. Questo suono tenuto a lungo riesce ad evocare un momento di quiete e stabilità adatto al messaggio del testo, che parla della pietà degli Dei mossa dalla visione di un gran tormento. La calma concessa dagli Dei in seguito alle preghiere di Aspasia viene quindi evocata nel corso dell’opera da una nota lunga e tenuta, eseguita contemporaneamente dalle trombe.

Il primo passaggio virtuosistico elaborato è collocato sulla seconda strofa, sulla ripetizione del verso seppero il Ciel placar. La prima battuta è composta da gruppi di semicrome che descrivono un andamento discendente, seguiti da crome legate a due semicrome, con le prime ornamentate con un’appoggiatura, che scendono sino al la 3. Altri gruppi di semicrome discendenti mostrano l’agilità della cantante, in grado di eseguire la prima nota staccata e le atre legate, culminando sul si bemolle 4.

La terza strofa è la sede dei passaggi virtuosistici più elaborati, soprattutto nella sua ripresa, che avviene immediatamente dopo averla presentata per la prima volta.. Un tempo più veloce si adatta bene al messaggio che vuole veicolare il testo, ossia la possibilità che la principessa ha finalmente di sfogar gli affetti attraverso il suo canto.

I passaggi virtuosistici tendono ad espandersi, a diventare progressivamente più complessi ed estesi, ma la loro struttura è ricorrente. Molto interessante è anche il passaggio che descrive una struttura melodica ad arco, che culmina col do 5 ed è composta tutta da note staccate.

Il soprano riesce, anche in questo caso, a sfoggiare la sua ottima estensione vocale arrivando a toccare il do 5. Sulla prima ripresa della terza strofa viene collocata la cadenza più lunga e complessa dell’intera opera, che si estende per diciassette battute.

L’esecuzione di questo passaggio testimonia la sorprendente agilità di Brigida Banti, capace di eseguire una serie di note rapide, ricche di abbellimenti, esplorandola zona più acuta della sua estensione vocale, senza trascurare le note meno acute e più profonde, passando dal la3 al si bemolle 4. Un ulteriore passaggio virtuosistico ricade su volar e riprende tutti i moduli già presentati in altre occasione, ribadendo però la risoluzione verso la tonica, segnalata anche dalla presenza della scala discendente di si bemolle maggiore. L’ultimo verso viene ornamentato a piacere dalla cantante, come indicato dalle due corone che lo sovrastano.  

 

 

Riflessioni metodologiche 

Paradossalmente la presunta ignoranza di Brigida Banti, ricordata da Lorenzo Da Ponte come una femminaccia insolente, diventa una risorsa. La cantante, nata come artista girovaga, non aveva mai ricevuto un’educazione musicale teorica. Oltre alla voce, la rese famosa anche la facilità con la quale, dopo un primo ascolto, era in grado di riprodurre anche la più complessa aria d’opera. Carlo Schmidl riporta nel suo Dizionario una testimonianza di questa particolare attitudine al canto:

Si disse che cantasse ad orecchio, di certo ebbe pochissimo studio, ma in compenso possedeva una memoria prodigiosa ed era capace di assimilare all’istante quanto le si faceva udire.[3]

La mancanza di una conoscenza teorica della musica le impediva di ornamentare i da capo autonomamente, come erano soliti fare i grandi cantanti del teatro serio barocco, soprattutto i castrati, che avevano ricevuto da bambini una solida istruzione musicale. Questa sua incapacità di improvvisare si trasforma in una grande risorsa, poiché i compositore indicavano sempre per esteso gli abbellimenti e le cadenze nelle arie più complesse, come le cavatine e le arie di tempesta che il soprano doveva eseguire. L’analisi dell’aria Stridea da un lato il vento tratta dalla copia manoscritta de I Giochi d’Agrigento conservata nella biblioteca del conservatorio di San Pietro a Majella, permette di ricostruire, almeno in parte, il modo in cui i cantanti ornamentavano le arie sul finire del XVIII secolo. La modalità che i compositori che adottavano nelle collaborazioni con Brigida Banti, ossia quella di occuparsi anche delle ornamentazioni ed indicarle per iscritto,  ci permette di afferrare un universo sonoro altrimenti perduto, a causa delle più frequenti improvvisazione estemporanee effettuate dai cantanti direttamente in scena. La voce di Brigida Banti riesce così, almeno parzialmente, grazie alla pagina scritta, a sottrarsi al triste destino delle voci perdute.

[1] Lorenzo Da Ponte da Caneda, Memorie scritte da esso, vol. III, New York: Gray and Bunce, 1823.

[2] Louise-Élizabeth Vigée-Le Brun, Souvenirs de Madame Louise-Élizabeth Vigée-Le Brun, 3 voll., Paris: H. Fournier, 1835.

[3] Carlo Schmidl, Dizionario universale dei musicisti, vol. 1, Milano: Ricordi, 1887.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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