I Vier letzte Lieder di Richard Strauss, la psicosi del rimosso: appunti per una “storia della mentalità”

Tentare di inserire l’opera musicale di Richard Strauss all’interno dei perimetri di uno studio di storia delle mentalità è opera ardua.

Autore: Valerio Sebastiani

20 Luglio 2017
Il compositore bavarese ha sempre dimostrato di avere un flatus artistico proteiforme, mutevole. Così come ambigua e inintelligibile era la sua personalità.

Prendendo in prestito l’analisi sociomusicologica di Adorno – che, si badi, va sempre maneggiata cautamente – si può affermare che: “il soggetto compositivo, pur travisandosi necessariamente come mero Essere per Sé, costituisce esso stesso un momento delle forze sociali di produzione”. E ancora: “ogni musica, sia pure il suo stile il più individuale possibile, possiede inalienabilmente un contenuto collettivo: ogni singolo suono già dice noi”. Chiaramente non può esistere una diretta proporzionalità di contenuti tra la produzione del soggetto compositivo e la società in cui è calato; né tantomeno tra il soggetto e il suo prodotto culturale. Ma sicuramente se si vuole indagare il caleidoscopio della storia delle mentalità di un’epoca, di una generazione, non si può ignorare le intersezioni che si vengono a produrre tra individuo e collettività, sia in termini inconsci che intenzionali. La storia delle mentalità in questo senso non è meramente applicata alla musica. Si tratta dello sviluppo di alcuni dispositivi analitici che non prescindono più dall’analisi sociale e culturale di un prodotto musicale, intendendolo come astratto dal contesto sociale, storico e politico e quindi autosufficiente di per sé.

Indagare quel “non so che della storia” attraverso la musica e analizzare la musica per riconoscere le strutture mentali di un’epoca forse però non significa soltanto cercare la mentalità dominante di un’epoca. Ma può darsi che sia ancor più interessante andare ad analizzare i conflitti che hanno prodotto quella mentalità, e ovviamente la mentalità che rimane dietro al sipario, in attesa di emergere dalle sintesi di quei conflitti.

Il compito di uno storico della musica in questo senso diventa ancora più arduo di prima, perché non presuppone più lo studio filologico di un brano, di un’opera, di un minuetto –  nemmeno di un frammento musicale per giunta. Per addentrarsi in questo sistema di studio quindi sono da prendere in considerazione tutti quegli elementi costitutivi di una società e saperli cogliere nelle loro complessità. Tuttavia, processi e relazioni che vengono sviluppati attraverso questa sinergia di analisi rimangono sterili se non riescono a sfociare anche nell’analisi estetica. L’estetica non è mai coerente. Non è mai, tranne in pochissimi casi, conciliante e definitiva. In questo senso l’opera tarda di Richard Strauss può dare degli elementi aggiuntivi e si adatta bene a queste considerazioni. Vediamo come.

Mentre a Darmstadt nell’immediato dopoguerra si iniziava a delineare il processo costitutivo della cosiddetta “Nuova Musica”, Strauss, costretto all’esilio coatto in Svizzera, iniziò a comporre questi lieder dopo ben trent’anni dedicati al teatro musicale. Della loro genesi sappiamo ben poco, tranne che i testi gli furono suggeriti dal figlio. Particolari sono invece le dichiarazioni del compositore sull’opera precedente, Capriccio, che a detta di Strauss sarebbe dovuto essere l’ultimo, definitivo, testamento. Invece ebbe ancora da scrivere, forse con disimpegno data la consapevolezza di aver raggiunto vette di perfezione con l’ultimo suo lavoro; oppure perché conscio che la morte sarebbe sopraggiunta a breve. Ma è anche – e forse soprattutto – dalle opere se così vogliamo chiamarle “limite” o “minori” che emergono le contraddizioni più complesse.

In questo Strauss tardissimo, esiliato dalla società, prossimo alla morte troviamo sublimata l’espressione più radicale del Neoclassicismo: la conservazione; la monumentalità. Mutuata e sussunta direttamente dal tardo Romanticismo tedesco, dallo scomodo oracolo che è stato eletto l’anima delle vestigia del Terzo Reich: Richard Wagner. Dietro il congedo dalla collettività, dietro il testamento inattuale incarnato da questi quattro pezzi, si forma la regola costitutiva di tutte le tendenze neoclassiche: “l’uomo può creare una propria sintesi del tempo, senza essere vincolato dai modelli che il tempo gli impone” (Glenn Gould). Il trauma soggettivo dell’annientamento di tutte le sue radici culturali ed estetiche con il passato immediato provoca quindi l’impossibilità di trovare una riconciliazione con il presente. Ogni tentativo di questa riconciliazione storica, ma anche puramente intima, sarebbe risultata per il soggetto una forzatura brutale.

L’inconscio collettivo che qui si esplicita, ad un primo livello, quello formale risiede nella frizione tra il bisogno soggettivo di recuperare il presente e di tornare indietro. Non a caso per l’ultimo dei lieder, Strauss recupera una lirica di Joseph von Eichendorff (1788-1857), poeta tedesco a lui tanto caro quanto lontano era dall’attualità.

Il suo “stile tardo” è estremamente conflittuale con la sua epoca, proprio perché vuole consciamente fuggire il deserto del reale, esprimendo però inconsciamente dei processi soggettivi propri dello psicotico. Quando la Storia finisce, consumata dai sensi di colpa di una civiltà, dall’atomizzazione del sociale, entra a gamba tesa la nostalgia, o meglio dire il dolce consumarsi proprio della melanconia. Un conflitto eterno tra il desiderio di un passato che non tornerà più e un presente di sofferenza e agonia.

Qui ritorna utile evocare Jacques Lacan, psicanalista e filosofo francese che ha contribuito ad ampliare gli studi sulla psicosi e sulla nevrosi.

Tutto sommato non ci sono documenti che testimonino un contatto tra il musicista di Garmisch e lo psicanalista francese, non sappiamo nemmeno se Strauss lesse mai una sua pagina; per giunta Lacan riportò in volumi scritti i suoi seminari sulla nevrosi e sul ritorno del rimosso solo nel 1955. Tuttavia la psicanalisi riconduce sempre ad un “collettivo”  e non sarebbe assurdo ravvisare in questo testamento estetico totalmente eterodosso, che mette così profondamente in discussione l’intera carriera musicale di un grande compositore e che al tempo stesso la fa marcire in fasti germanissimi, i sintomi di una psicosi che abbia contatti con la percezione collettiva della fine di una civiltà. Coerentissimo anche nell’esplicitarla questa psicosi: rifugiandosi nella pura forma di questi lieder inconsciamente tenta di censurare la realtà, che comunque emerge sempre, che “continua a […] esprimere le sue esigenze, a far valere il suo credito”. E ancora: “il soggetto è alla ricerca dell’oggetto del suo desiderio [la ricerca estenuante di conciliazione con la realtà], ma nulla ve lo conduce. La realtà, in quanto sottesa dal desiderio, è allucinata in partenza” (J. Lacan, Il seminario. Libro III. La psicosi, Milano, Einaudi, 2010). 

Come si traduce in musica questa psicosi latente? Il lied più struggente Beim Schlafengehen (Andando a coricarsi), le cui liriche sono tratte da un testo poetico di Herman Hesse, racchiude tutti i motivi dominanti del ciclo di Lied. Dal tono crepuscolare offerto in particolare da un’orchestra ridotta quasi al modello cameristico, la cui iridescenza suggerisce sempre una sorta di instabilità, al grande carico di significato che assumono determinati strumenti come nel corno nel secondo Lied, per esempio, che evoca la morte in un panorama di spossatezza: “l’estate sorride stupita ed esausta / nel sogno morente del giardino”.

In questo terzo Lied subitamente compare un elemento caratterizzante che per certuni è elemento di consolazione, di sereno congedo. Aprendo delle “finestre sul brano” però, ci accorgiamo di altro. Una semplice frase musicale pronunciata dai contrabbassi e dai violoncelli in pp, per poi passare a violini e viole: una citazione più o meno letterale del leitmotiv del sonno che compare in chiusura dell’atto terzo de Die Walküre. Su questa breve particella motivica (es. musicale) si costruirà l’intero brano, costituisce quindi un dato strutturale e non a caso aggiungerei.

Es. musicale n.1 

Il leitmotiv del sonno incarna più profondamente l’annullamento della volontà di Wotan, non solo la punizione che un padre (anche se combattuto con sé) infligge alla figlia: da questo momento in poi assisteremo all’inevitabile distruzione dell’antico mondo della divinità.

Dopo aver vagato in un cromatismo altalenante tra la bemolle e sol bemolle per pochissime battute l’orchestra si assesta nella tonalità di re bemolle Maggiore. Per tutto il brano si alterneranno nebulose sonore e a solo del violino che con un lungo cantabile traccia il solco sul quale si insinuerà la voce, riprendendolo interamente, in una dimensione trascendentale, costruendo degli arabeschi ultraterreni. Il disegno melodico che qui si sviluppa (Es. musicale n.2-3) tenta una scala ascendente, ma la conclusione della frase porta l’orchestra a ricominciare la frase musicale intraprendendo un cromatismo che farà ricadere l’orchestrazione in una nebulosa indefinita: il re bemolle nel quale si ritrova fu sempre per il compositore un “veicolo all’abbandono” come in Capriccio  (M. Bortolotto La Serpe in Seno. Sulla musica di Richard Strauss. Milano, Adelphi Edizioni, 2007). Su questo passaggio Strauss vuole farci soffermare con molta attenzione, tant’è che per imprimerla bene nel nostro intimo la frase viene ripetuta dal soprano.

Es. musicale n.2

Es. musicale n.3

È la volontà che viene annichilita, è  quasi un’invocazione sfinita della perdita di sé nel mare del non-essere (ricordiamoci il Rheingold wagneriano) che si nasconde nel formalismo oggettivo più cristallino – questo potremmo anche scorgerlo nella dimensione puramente cameristica, ridotta, della scrittura orchestrale. È questo ciò che sconvolge di più: Richard Strauss si autoimpone l’assenza di conflitti, ma questa sublimazione di sé non fa giungere alcuna elevazione, alcuna “redenzione”.

Norman Del Mar ha suggerito un’interessante chiosa del periodo tardo di Richard Strauss: “La stanchezza dell’epoca d’oro in presenza di una morte prossima e auspicata non è triste, ma qualcosa di ben più profondo. È prerogativa della grande arte suscitare emozioni senza nome, capaci di straziarci”.

Strauss è sempre stato un soggetto granitico. Con un sé molto elefantiaco. Difficile ricondurre queste dinamiche soggettive così conflittuali tra di loro a un “inconscio collettivo”. Andiamo a trovare tedeschi che nel 1946 si sentivano pacificati con il proprio contesto sociale… Magari solo una parzialità, magari proprio quei rappresentanti dell’establishment scampati ai processi e fuggiti in Argentina. Strauss difficilmente può essere adottato come paradigma per spiegare la mentalità della sua epoca: il suo individualismo abulico è uno scoglio troppo grande. E soprattutto non è questa la sede per dare giudizi sull’uomo Strauss, ma spiegare come nella sua musica, soprattutto nella sua forma musicale si siano espressi delle tensioni, che lette attraverso una  particolare lente di ingrandimento, potrebbero dare valore aggiunto ai contenuti espressivi della sua opera.  Ed è proprio su questo nodo che si potrebbe ravvisare in parte quel “conflitto di mentalità” di cui sopra.

Questi ultimi quattro canti dunque dimostrano avere un aspetto bifronte, contraddittorio: se da una parte tradiscono la ricerca di un rifugio dal grande tracollo della civiltà germanica e fanno percepire il vacillare del baricentro culturale europeo; dall’altra in questa forma adamantina, in cui tutto sembra reggersi a filo d’acqua, si ravviva la pesantezza insostenibile dello straniamento, della censura e infine di una fuga così meravigliosa e così raccapricciante al tempo stesso dal passato.

In Im Abendrot si colgono altri elementi di questo straniamento: la musica è per l’appunto presaga in ogni anfratto tonale della morte che viene evocata in chiusura, mentre l’orchestra affidandosi ai flauti in una melodia incatenata, pronuncia un canto di uccelli, una guida verso l’aldilà, una pace infine “così profonda nel rosseggiante tramonto”.

Strauss non li sopravvisse. L’opera venne eseguita per la prima volta all’Albert Hall di Londra il 22 maggio 1950 da Kirsten Flagstadt e Wilhelm Furtwängler, altro astro di cui godettero tanti rappresentanti della stanza dei bottoni del Reich hitleriano.

Sarebbe stato molto più semplice analizzare questo specifico brano del ciclo degli ultimi quattro lieder come espressione di una mentalità di un popolo, quello tedesco, in cerca di pace, straziato e dilaniato dalla guerra, che si rifugia in una consolazione estetica meravigliosa. Ma sarebbe stato come dire che dentro i fatti storici gli uomini e le donne non agiscono, si fanno agire. E che le tracce che lasciano non sono mai complesse, mai contraddittorie mai bisognose di essere osservate da prospettive diverse.

Valerio Sebastiani

*nella foto: Richard Strauss in esilio a Garmisch

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Valerio Sebastiani

Classe 1992. Laureato in Musicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato Pianoforte presso il Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Ha frequentato i corsi del MaDAMM (Master in Direzione Artistica e Management Musicale) tenuti dall’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca. Attualmente è assistente alla direzione artistica dell'Accademia Filarmonica Romana e consulente scientifico della Treccani. Ha svolto attività di ricerca presso l’Akademie der Künste di Berlino e per conto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Milita in Quinte Parallele dal 2016.

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