Contemporanea VS Elettronica: Capitolo Secondo

Autore: Gabriele Toma

3 Luglio 2017
Nel precedente articolo abbiamo guardato alla musica strumentale contemporanea dal punto di vista del compositore Daniele Ciminiello. In questo secondo capitolo ci immergeremo nel mondo della musica elettronica grazie al ricco contributo di Francesco Rizzo che, ricordiamo, ha 27 anni, si è laureato al triennio di musica elettronica ed è tuttora studente nonché sound designer, fonico e produttore.

Francesco, daresti ai nostri lettori delle coordinate per capire cosa s’intende con la definizione “musica elettronica”?

 

Quando oggi si parla di musica elettronica saltano subito all’occhio gli universi musicali della techno e dell’EDM commerciale, in effetti la direzione che ha preso la musica elettronica di largo consumo è stata tendenzialmente quella dagli anni ‘60 ad oggi; l’universo della musica elettronica d’avanguardia, se così si può dire, è stato però il sottobosco nel quale si sono sviluppate le tecniche più innovative ed espressivamente più efficaci che sono andate a convergere anche nella musica elettronica mainstream, definendo di conseguenza alcuni universi musicali intermedi. Quando si parla di musica elettronica, tendenzialmente si fa riferimento a quella musica composta, prodotta e diffusa grazie a sistemi di generazione e riproduzione del suono di tipo elettronico analogico o informatico digitale, a seconda delle tendenze nei decenni.

Non è solo la tecnologia alla base dell’universo musicale in questione a qualificarlo come tale però. Nella storia di questo complesso mondo vi sono state parecchie macro e micro-definizioni, per lo più di natura estetica, ugualmente assegnabili al calderone “musica elettronica”: per quanto riguarda la musica su supporto si è parlato di musica concreta, musica acusmatica, computer music, musica aneddotica (o acusmatica-aneddotica); sono stati coniati anche termini che indicano tipologie differenti di musica elettronica maggiormente legate all’interattività, ad esempio il live electronics e la definizione di installazione sonora o di sonorizzazione, il tutto spesso incluso nell’insieme della musica elettroacustica.

I compositori che si sono mossi in questo ambiente di lavoro si sono indirizzati sempre verso la sperimentazione timbrica e formale in relazione alle nuove possibilità che le tecnologie più moderne in continua evoluzione portavano alla luce, definendo così un’estetica che ancora oggi si porta avanti nelle accademie e non solo.

Rivolgo anche a te la stessa provocazione che ho rivolto a Daniele: “Non di solo pane vive l’uomo”. Quanto questa massima ti aiuta nel tuo lavoro?

 

Davvero poco. Non si vive di solo pane ma nemmeno di sole elucubrazioni, o quantomeno non tutti possono permetterselo. Una cosa credo sia certa: è difficile interessarsi d’arte o di ricerca a pancia vuota. Mentre nel lungo periodo che va dal rinascimento al romanticismo, i musicisti meno abbienti – che con spirito verista chiamerò “poveracci” – imparavano a muoversi nel mercato musicale aristocratico nell’ambito della composizione e dell’esecuzione per poi convergere socialmente negli ambienti d’élite che commissionavano loro le opere definite poi “classiche”, oggi invece un ambiente filo-aristocratico ha la presunzione di raggiungere obbiettivi musicali basati esclusivamente su speculazioni filosofico-teoriche senza dover avere a che fare con il mercato musicale nella sua complessità, in cui, a mio parere, c’è spazio anche per questo universo musicale, se lo si vuole trovare.

Scusa se ti interrompo, ma a questo proposito mi viene in mente Berio quando parlava di quel “ponderoso fardello di necessità” che permea le più grandi opere d’arte: in mancanza di questo intimo moto – interno e spesso anche esterno – , di quest’ancora, si rischia di perdersi in sterili elucubrazioni.

 

Certo, il fardello della necessità è l’unica cosa che porta alla crescita personale, in ogni ambito della vita. Ci sono stati inoltre una miriade di compositori in ambito classico e accademico che hanno faticato ad imporsi sul gusto dominante ma hanno poi cambiato la storia: la loro musica, scritta spesso da “poveracci” che sono rimasti tali, è diventato esclusivo appannaggio delle élites che hanno la possibilità economica di restare in piedi, seppur chiuse nei confronti del mercato globale.

Sono esistiti ed esistono tuttora compositori che, a qualunque costo, anche quello della povertà economica, hanno preferito rischiare e ricercare un’estetica unica e complessa, non convenzionale e non finalizzata alla monetizzazione ad ogni costo. Non sempre sono stati capiti ma hanno sicuramente arricchito la musica nella sua totalità e, dal punto di vista artistico, hanno influenzato tutta la ricerca futura. Sia chiaro: non è necessariamente la povertà a portare all’arte, anzi, per studiare e potersi esprimere grazie a un buon bagaglio tecnico bisogna spendere parecchio denaro al giorno d’oggi; allo stesso modo però leggere grandi filosofi al caldo del caminetto di una villa non alza necessariamente il livello contenutistico delle proprie composizioni musicali.

Citando ancora Berio, per restare in tema:

[blockquote cite=”Luciano Berio, cit.” type=”left”]“lo spettacolo di chi vuol spiegare il senso ultimo del suo lavoro e fa l’esegesi delle proprie opere musicali tracciandone la filosofia, l’ideologia, la sociologia e la politica, si risolve troppo spesso in deliranti elzeviri verbali, che possono dirci cose anche molto interessanti sulla personalità e sulle nevrosi dell’autore ma poco su quello che fa o che ha fatto.”[/blockquote]

A mio parere ciò è conseguenza di un processo sociale che il mio prof. Cesare Saldicco, molto provocatoriamente, esplica così:

 

 

Quello del musicista è oggi un mestiere veramente difficile, soprattutto in un paese come il nostro in cui il disinteresse verso l’arte e la ricerca parte dall’alto: “Con la cultura non si mangia” diceva un tristemente noto ministro.

 

Hai ben ragione a dire che il nostro mestiere è difficile, specialmente dopo lo studio in accademia. Di certo non piace a nessuno approfondire la musique concrète francese per anni per poi mettere in pratica quelle stesse tecniche quasi esclusivamente per produzioni pop, techno o EDM. La figura dello “schiavo elettronico” esiste: è quel compositore elettronico dedito ad uno studio capillare e profondo nelle accademie ma che viene adoperato poi come mero preset-maker, synth-programmer, fonico da palco ecc. da musicisti decisamente meno preparati ma dediti esclusivamente a generi musicali puramente commerciali. Tutto ciò è talvolta profondamente avvilente, lo ammetto, ma è l’unico modo oggi per essere presi sul serio in un mondo che non conosce e non vuole conoscere quello che fai nella tua personale intimità compositiva. C’è da precisare però che quando si lavora con persone davvero preparate che lasciano il giusto spazio all’innovazione nel loro sound la situazione cambia drasticamente: ci si esprime, ci si diverte, si suona con trasporto, si ha un bellissimo rapporto con il pubblico e si guadagna persino, così il fine musicale si compie del tutto a mio modesto parere.

Cosa pensi della definizione “musica colta”?

 

Il concetto di musica “colta” mi fa storcere il naso non poco sinceramente, lo vedo come una forzatura, come la maggior parte delle etichette che una élite si auto-assegna. Di certo l’approccio tipico dell’ambiente accademico o filo-avanguardista è drasticamente diverso da quello strettamente legato al mercato musicale, sono diversi gli obbiettivi e i contenuti, differenti i riferimenti filosofico-concettuali; ma definire un universo musicale facendolo corrispondere ad una cerchia ristretta di persone che si suppone facciano parte di una sorta di “aristocrazia musicale” rende il contesto accademico difficilmente approcciabile dai più, impedendo inoltre di riconoscere il valore artistico anche in altri universi musicali che sembrano lontani dalla definizione in sé di “musica colta”.

Vale lo stesso per la definizione, tanto abusata quanto ormai vaga di “musica classica”?

 

Quella che oggi è genericamente definita musica “classica” dalla maggior parte delle persone, ovvero quella sezione del repertorio “colto” che ha sviluppato una forte componente mainstream, per definizione non è altro che una pop-music estremamente vintage; era fruita per diletto da gruppi di persone più o meno estesi interessati a quel medium in particolare, un esempio può essere il valzer Sul bel Danubio blu di Strauss: questa era musica finalizzata alla danza indirizzata ad un pubblico interessato e disposto a pagare per fruirne. Ebbene questa composizione è oggi adoperata come musica d’intrattenimento quando il centralino di un ufficio postale ci mette in attesa, oltre che come repertorio d’insegnamento nelle accademie. Questa era e rimane, che piaccia o no, musica di largo consumo, finalizzata al rapporto diretto con il pubblico.

Tempo addietro su questa stessa rivista ho letto un articolo da cui è scaturito un intenso dibattito, il tutto verteva sulla domanda “Perché alle persone piace Rovazzi e non Stockhausen?”; ebbene Stockhausen non era interessato né ai contenuti o alle tecniche di Rovazzi né tantomeno al suo pubblico; dagli scritti del maestro di certo si evince che il suo intento non è né commerciale né puramente divulgativo ma per lo più tecnico ed espressivo, finalizzato alla sperimentazione dei mezzi di produzione e diffusione del suono, alla ricerca di nuovi contenuti e nuove strutture nonché nuove modalità di fruizione; di certo non si può dire lo stesso di Rovazzi, un fenomeno commerciale puro il cui successo dipende da produttori già abbondantemente avviati e capillari studi di mercato che hanno individuato i contenuti adatti ad un particolare pubblico, quello degli adolescenti e dei bambini italiani nel 2017; se dunque Stockhausen ha finalizzato la sua ricerca artistica ad un ampliamento di vedute e possibilità future, l’altro estrae le possibilità musicali da un linguaggio sonoro e contenutistico ben consolidato e finalizzato a tutt’altro: in questo caso si riprendono parecchi elementi tecnici che negli U.S.A. sono tutt’altro che moderni e innovativi, ma evidentemente funzionano ai fini della grande distribuzione italiana.

Se si vuole fare un paragone tra i due lontanissimi universi musicali in questione bisogna analizzare un importante passaggio, ovvero che Stockhausen compare sulla copertina dell’album dei Beatles Sgt. Peppers lonely hearts club band in quanto ispiratore delle sonorità della band pop britannica, senza la quale lo stesso concetto di pop music sarebbe decisamente differente al giorno d’oggi. Si può dire sotto certi aspetti che, se non fosse stato per la ricerca di Stockhausen, Rovazzi in quanto tale nemmeno esisterebbe: di sicuro le sue tracce strumentali elettroniche adoperate come “basi” non avrebbero un passato storico e tecnologico, forse non sarebbero stati nemmeno sviluppati i moderni sintetizzatori commerciali, abbondantemente adoperati per queste produzioni. D’altro canto senza Andiamo a comandare la ricerca del maestro tedesco resterebbe intonsa da ogni punto di vista; reputo quindi una forzatura o quantomeno una semplice provocazione la domanda stessa, la quale però nasconde una triste verità: la musica finalizzata alla sperimentazione è necessaria al mercato per il suo stesso progredire tecnico e tecnologico, ma non vende.

Detto ciò non è la differenza tra musica “colta” e “non-colta” che salta all’occhio ma quella tra musica “sperimentale” e musica “puramente commerciale”, tutt’altro discorso. Se però queste due antinomie fossero tra loro equivalenti, anche un disco che personalmente reputo di stampo “colto” quanto sperimentale come “Switched on Bach” di Wendy Carlos (il disco più venduto della storia in ambito elettronico) sarebbe da considerarsi puramente commerciale, se ci basassimo solo sulle vendite; può quindi esistere eccome, a mio parere, musica sperimentale, d’intento o d’ispirazione filo-avanguardista, che vende parecchie copie ed è composta da persone d’alto livello culturale, così come esiste musica propagandata come “colta” ma, ad un’analisi più attenta, potrebbe non essere considerabile come tale.

Va detto inoltre che oggi è il mercato, nostro malgrado, a stabilire cosa è degno o meno di essere iniettato nelle nostre orecchie: dalla radio che ascoltiamo per caso in auto fino al materiale sonoro che viene proiettato attorno a noi mentre facciamo la spesa o attendiamo il nostro turno in un ufficio. La conseguenza è che si mettono sullo stesso piano brani dal grande valore artistico e storico e brani poveri di contenuti: in questi ambienti possiamo sentire Vivaldi quanto Laura Pausini senza nemmeno percepire che siamo immersi in un ambiente d’ascolto forzato. Ciò è profondamente diseducativo per l’ascoltatore, che subisce passivamente la musica e perde gradualmente la possibilità di riconoscerne la maggiore o minore “ricchezza semantica” e dunque sviluppare uno spirito critico, cosa che all’ideologia di mercato non dispiace affatto.

E di chi è la responsabilità di tutto ciò?

 

Ciò è frutto dell’attività di due diverse élites: quella del produttore di musica commerciale che, interessato solo ed esclusivamente ai profitti, se ne frega abbondantemente delle definizioni che possiamo appioppargli e dall’altra parte quella del ricercatore musicale “integrato” che si erge a “vate”. Mi è successo di chiedere a un professore chi fossero i massimi esponenti della musica d’avanguardia in Italia in ambito elettroacustico al momento e questi rispose d’istinto “io, noi” come se facessimo parte non di un semplice sistema accademico ma di una vera e propria avanguardia, nella quale però il manifesto sembra parecchio successivo la fondazione.

Hai accostato il termine accademia al termine avanguardia, chiariresti più nel dettaglio la relazione tra questi due termini?

 

Cos’è un’avanguardia senza un passato da cui partire o senza una cultura pregressa su cui basare un’analisi, una critica, dalla quale derivare o divergere? Certamente il concetto di avanguardia è strettamente legato a quello di accademia, seppur lontano dal punto di vista della definizione. Credo che oggigiorno i manifesti delle avanguardie musicali moderne siano i piani di studio dei conservatori nei corsi meno tradizionali, ed è così che l’avanguardia come concetto muore del tutto.

In che senso?

 

Nel senso che la ricerca diviene oggi qualcosa che non è più capace di prescindere sé stessa: invece di fare ricerca si studia la ricerca passata e si dà il nome di ricerca a questo processo, proponendo raramente qualcosa di realmente innovativo. Esattamente come nelle scuole superiori c’è una materia che si chiama filosofia in cui si studia la storia della filosofia ma non si fa filosofia, tranne che in alcuni fortunati casi. In fondo è ciò che sta succedendo al Jazz: il luogo considerato tipico per conoscere profondamente questo universo musicale è oggi considerato l’accademia, e non è neanche detto che si finisca per conoscerlo, mentre originariamente non c’era nulla di meglio di un live club nei bassifondi newyorkesi per comprendere appieno questo fenomeno musicale in pochissimi minuti.

In una sua lezione Lacan dice che per studiare un oggetto bisogna snaturarlo, è necessario ergersi al di sopra di esso e definirne una fotografia statica da analizzare con facilità, e ciò lo considero un processo inevitabile ai fini del mero studio ma, per definizione, decisamente meno utile ai fini della ricerca, lì dove è necessaria la consapevolezza di un mondo che ci circonda sempre in movimento, in continua mutazione, pieno di micro-strutture: il mercato musicale, le accademie, le tecnologie, i linguaggi (o l’assenza di linguaggi), tutti aspetti impossibili da analizzare staticamente. Se volessimo fare un esperimento semplice per capire in quale epoca ci troviamo e perché posso permettermi di dire tutto ciò, basterà cercare su Wikipedia la definizione di “avanguardia”. Wikipedia Italia recita:

 

“Avanguardia è la denominazione attribuita ai fenomeni del comportamento o dell’opinione intellettuale, soprattutto artistici e letterari, più estremisti, audaci, innovativi, in anticipo sui gusti e sulle conoscenze, sviluppatisi nel Novecento ma derivanti da tendenze politico-culturali ottocentesche, connotata dal costituirsi di raggruppamenti di artisti sotto un preciso manifesto da loro firmato”

Questa definizione possiede una strana contraddizione, come può infatti un aspetto qualsiasi della produzione artistica o del pensiero umano essere d’anticipo sui gusti ma nello stesso tempo derivare da tendenze passate? Questo è il tipo d’informazione che oggi ci impedisce di sviluppare un vero e proprio senso critico e che deforma il nostro pensiero. Definizioni non particolarmente brillanti come quella sopra citata nascondono i profondi problemi delle accademie, e non parlo di denaro, senza il quale è pur difficile fare ricerca, parlo proprio delle definizioni su cui verte il disegno accademico.

Ci sono però alcuni docenti, il cuore delle accademie, che, consapevoli di tutto ciò, impostano il loro lavoro in maniera dissonante rispetto al pensiero dominante e non necessitano delle auto-definizioni e della chiusura tipica dei membri di una élite, pur alle volte facendone parte. Che il cielo mantenga salde le loro poltrone perché talvolta la poltrona è una risorsa per il Paese, laddove chi la occupa lo fa meritatamente.

Francesco, da musicista elettronico, come vedi il mondo dei compositori strumentali?

 

Ero pieno di pregiudizi prima di conoscere persone come Daniele Ciminiello e altri studenti con cui poter collaborare e confrontarmi, pensavo a una cerchia di topi di biblioteca che non prendono mai in mano uno strumento ma impartiscono lezioni agli esecutori sempre più inconsapevoli del risultato, pensavo a studenti che rimbalzano tra schemi numerici e algoritmi per raggiungere esiti sconosciuti e indefiniti, a dei pensatori che hanno studiato la notazione e il repertorio classico e sono fissati con i linguaggi tradizionali e con gli schemi, senza particolare attenzione nei confronti della sperimentazione timbrica, in quanto usufruiscono degli strumenti tradizionali. Perciò pensavo detestassero la musica elettronica e le nuove tecnologie, chi non adopera la notazione tradizionale, e di certo mi aspettavo di ascoltare brani pieni di marchette e di strutture ridondanti, mi aspettavo una musica senza alcuna emotività.

Però, ci andavi giù pesante!

 

(Ride) Mi sbagliavo di grosso. Ho conosciuto un universo di una complessità mastodontica, non basta una vita per comprenderne il 2%, persone magnifiche, ottimi musicisti e arguti pensatori, persone attente e caute quanto ardite ed energiche, pronti ad aprirsi ai nuovi universi espressivi e quindi al mondo dell’elettronica, persone umili quanto preparate, ho scoperto nuovi suoni e nuove strutture, ho riscoperto la militanza musicale dopo il mio passato come chitarrista Death Metal, ho conosciuto degli eroi, persone che credono davvero in ciò che fanno e ho capito nel profondo quanto sia difficile remare contro un mercato ostile, anche quando non ero coinvolto in prima persona in questa battaglia. Non ho trovato nerd, qui se ce n’è uno di sicuro quello sono io, passo le notti su Max/MSP e sui tutorial riguardanti la produzione musicale e spesso alterno il tutto ai videogames più complessi ed emotivi che riesco a trovare. I compositori miei coetanei che si interessano di musica contemporanea, invece, li vedo come dei veri e propri guerrieri.

E dal punto di vista strettamente compositivo, metodologico?

 

Non essendo mai entrato pienamente all’interno dell’ottica della composizione strumentale contemporanea di derivazione accademica, se non grazie a interessanti confronti verbali con alcuni compositori che si occupano di ciò, non ho modo di criticare o analizzare il loro metodo, piuttosto necessito di spostare l’argomento sui contenuti,  sulle strutture tipiche, sull’estetica e sulla forma-mentis novecentesca che hanno portato alla nascita delle tendenze in questione. A mio parere questi aspetti avvicinano molto la musica contemporanea strumentale alla musica elettronica, alcuni esempi sono sicuramente l’uso dei cluster e delle dissonanze, di strutture quali accumulazioni e dissipazioni, la ricerca del microsound, della tensione percettiva e della rottura delle aspettative sonore tradizionali.

Divergo però su alcuni argomenti fondamentali: mi rendo conto che ad esempio la parola “linguaggio”, tanto cara alla tradizione accademica e agli studenti di composizione, non sia per nulla adoperabile in relazione all’universo musicale della musica elettronica che si studia in conservatorio, anzi, sarò ancora più drastico, credo che concettualmente la musica e il linguaggio siano due cose totalmente separate. La musica può o meno adoperare dei linguaggi o dei meta-linguaggi al suo interno ma non corrisponde alla definizione di linguaggio: sarebbe come dire che una partita di calcio non è altro che 22 persone e una palla su di un prato! Il calcio adopera 22 persone su di un prato con una palla ma per definirsi tale non può ridursi a questo: il calcio, come la musica, è un complesso universo sociale che bisogna analizzare come tale, un insieme di regole, luoghi, modalità di pensiero, gruppi sociali etc. Posso scrivere musica senza mai adoperare linguaggi e senza avere alcun intento comunicativo puro, semplicemente utilizzando suoni che non hanno alcuna correlazione con il corpo sonoro che li ha generati, senza neppure sottostare ad alcuna forma di notazione, ciononostante infine ottenere un risultato musicalmente valido.

Anche la poesia adopera il linguaggio ad esempio, ma le due definizioni non corrispondono, la poesia non è un linguaggio. Da questo punto di vista, quello delle divergenze concettuali, ciò che mi aspettavo di trovare sulla bocca dei compositori strumentali contemporanei quando ero pieno di pregiudizi è purtroppo ciò che ho sentito veramente. Tutto ciò è derivato a mio parere da una profonda confusione tra “forma d’espressione” e “linguaggio”: i due concetti non coincidono, grazie al cielo; preferisco di gran lunga pensare la musica come un processo finalizzato ad evocare più che a comunicare, preferirei lasciare la comunicazione pura al giornalismo o alla saggistica. Ho letto di recente un vostro articolo che spiegava molto bene questo concetto: la musica non significa niente.

Francesco, “musica contemporanea”: è realmente necessaria questa etichetta? La musica non è di per sé contemporanea a chi l’ascolta per il solo fatto di essere riprodotta?

 

Spesso quando mi chiedono “come si chiama la musica che fai tu?”, domanda che di per sè presuppone un’inevitabile ignoranza di fondo da parte di chi me la pone, non mi basta di certo dire “acusmatica”, o parlare di musica aneddotica o di live electronics e computer music per spiegarmi adeguatamente, allora dico di comporre musica con mezzi elettronici, suoni di sintesi e campionamenti, adoperando le strutture e l’estetica della musica classica contemporanea (chiedo umilmente perdono per quanto ho appena detto perché tecnicamente non corrisponde a verità, ma la maggior parte delle volte sono costretto a rispondere in questo modo); quindi sì, dal punto di vista pratico, per farmi comprendere, la definizione mi è necessaria, comoda, è dal punto di vista compositivo e puramente concettuale che posso farne decisamente a meno; molte composizioni di musica elettronica considerata contemporanea assomigliano strutturalmente al canto gregoriano, anche in ambito meno accademico, come nel caso della “drone music”: dov’è allora, da questo punto di vista, la “contemporaneità”?

Credo che sia veramente contemporaneo a noi tutto ciò che decidiamo di ascoltare oggi, anche se si trattasse di musica pervenutaci dalla prima glaciazione, a prescindere dal momento della sua composizione; se questa musica fosse presente nelle nostre giornate, sì, sarebbe contemporanea a noi, sarebbe sopravvissuta molto più a lungo dei suoi compositori e quindi sarebbe ancora viva, musica nostra contemporanea. Mi rendo conto però che questo è un discorso teorico confutabile anche solo con un dizionario in mano, una provocazione nei confronti di chi vive di etichette, un gioco di parole, un sofisma.

Quali sono i tuoi modelli del passato?

 

In ambito non accademico ho ascoltato e analizzato davvero di tutto, sia per puro diletto, sia per poter poi lavorare con cognizione di causa negli ambienti pop. Come musica del passato ormai non posso che intendere tutto ciò che è uscito prima della scorsa settimana: JoJo Mayer, durante un concerto cui ho partecipato, disse che i periodi d’attecchimento degli stilemi musicali sono passati ad essere da circa dieci anni (anni 90, anni 80 ect) a un anno (musica datata 2015 anziché 2002) fino a periodi di una stagione o di una settimana durante i quali si susseguono centinaia di differenti tendenze estetiche.

Elencherei quindi in maniera sconnessa una serie di artisti, ancora attivi o meno che mi piace ascoltare: da Dj Premiere e J-Dilla fino ad Amon Tobin e Nosaj Thing, da Dj Gruff ad Aphex Twin, da Alan Sorrenti a Claudio Lolli, dai Pink Floyd agli ELP, dai Dream Theater a Marcus Miller, da Apparat, Modeselector e Moderat fino a De Andrè, da Vinnie Paz ai Radiohead, dai Children Of Bodom,i Suffocation, i Behemoth quanto i Nile, fino al progetto solista di Karl Sanders, dai Black Sun Empire ai Noisia fino ai Rage Against The Machine, da Victor Wooten ai Massive Attack, dai Tool a Damian Marley e Bob Marley o Capleton, da John Hopkins ai Tangerine Dream fino agli Opeth… Oddio potrei continuare per ore! Tengo però a precisare che non mi piace far convergere tutti questi nomi all’interno dell’etichetta “pop”, sebbene si tratti comunque di musica di largo consumo, perché definire pop tutto questo materiale non aiuta a comprenderne le differenze interne. Questa definizione spesso sembra servire solo a distanziare la produzione musicale accademica dal mercato musicale in generale.

 

Dovendo elencare le mie influenze musicali in ambito accademico invece partirei inevitabilmente da Schaeffer, in quanto considerato il capostipite in questo universo musicale, per poi elencare gli altri in ordine sparso: Bayle, Henry, Xenakis, Berio, Nono, Maderna, Parmegiani, Cage, Ligeti, Marchetti, Lansky, Donatoni, Sciarrino, Penderecki, Webern, Debussy, De La Lande, Smalley, Stockhausen, Ferrari, Perotino, Evangelisti, Rampazzi, Carlos, Chion. Se scavo ulteriormente nella memoria ne trovo anche altri ma questi sono i compositori che mi vengono subito in mente, quelli che vedo come modelli per analizzare, comprendere e apprezzare le estetiche passate, necessarie, a mio parere, per costruire il sound del futuro.

Alcuni di questi compositori hanno scritto grandi capolavori che non considererò mai musica del passato, bensì musica senza tempo; possiamo solo auspicarci di essere noi a scrivere la musica che i posteri definiranno tale, obbiettivo che sembra svanire in un enorme baratro che si estende tra i conservatori “conservatori” e i talent show. La definizione di Berio non sarebbe possibile senza il lavoro di questi e molti altri compositori, musicisti, teorici, ingegneri e ricercatori, Berio stesso è uno degli autori che ho citato; è la ricerca di questi maestri che ha portato l’autore a definire la musica in maniera così esaustiva e completa. La musicologia e la filosofia devono molto a questi processi musicali puri, più di quanto la musica debba alla musicologia e alla filosofia.

A questo punto sono curioso di vedere a quali esiti compositivi giungi nei tuoi lavori. Se la domanda non ti sembra troppo impegnativa, come varchi il limite di cui parla Berio?

 

In questo ambito musicale, per la prima volta nella mia vita, sento di non dover emulare alcun tipo di estetica, seguo alcune regole dedotte dall’analisi degli artisti di cui condivido le scelte, lì dove mi sembra di poter raggiungere i miei fini espressivi. Alcuni aspetti chiave potrebbero essere ad esempio l’allontanamento sempre maggiore dalla scansione metrica, la necessità di concentrarsi sullo studio del timbro, l’attenzione particolare nei confronti dello spazio interno di un brano e dello spazio d’ascolto, oppure l’allontanamento dall’impianto tonale su cui si basa gran parte della musica occidentale, dal sistema temperato per intenderci; nella fattispecie, per fare un esempio, passare dalla tavolozza delle note a quella delle frequenze è come passare dai numeri interi ai numeri decimali, tutt’altra storia.

La citazione iniziale di Berio è una sentenza scritta così esaustivamente da non prestarsi ad alcuna confutazione a mio parere, una definizione di musica però quasi impossibile da sviluppare se il maestro non si fosse interessato alle sonorità elettroniche e concrete, se non avesse svolto una ricerca che lo ha portato a queste conclusioni; Berio parla della “ricerca di un confine” proprio perché la finalità ultima di tutto questo complesso discorso è quella di allargare questo confine il più possibile in maniera tale da spezzarlo, rimuoverlo continuamente, confondere la musica e la non-musica, rompendo irreparabilmente il concetto stesso di “musica” legato al sistema e alla cultura dominante; penso che il modo migliore per farlo sia quello di partire dai classici e disintegrarli, compreso quel “classico” composto nell’ultimo secolo, compresi i miei personali modelli musicali citati precedentemente, e compresa ovviamente la classica pop-music; le sonorità del passato vanno studiate e comprese,  non emulate, se non si vuole finire a scrivere la musica di un futuro passato. Il confine di Berio sta bene lì dov’è, non mi interessa varcarlo ma restare esattamente nel mezzo, lì dove, dicono gli antichi, è posta la virtù.

Abbiamo Parlato abbastanza, Facci sentire un po’ della tua musica.

 

Sul Web Ho pubblicato davvero poco perché durante gli studi mi sono dedicato per lo più a curare brani di terzi per trovare un piccolo spazio nel complesso mondo del lavoro e sviluppare e affinare le relative tecniche, inoltre mi muovo molto meglio nell’ambito del live electronics perché mi piace improvvisare su sistemi informatici programmati da me in ambiente Max/MSP ottenendo un risultato totalmente diverso da ciò che si può trovare sul mio profilo SoundCloud, ovvero brani statici fissati su un supporto, quello digitale in questo caso.

Un esempio di live electronics è la mia performance in occasione della presentazione del corso di Max/MSP per l’associazione Patches, che ringrazio e saluto in toto, presso Fasano, in provincia di Brindisi.

https://www.facebook.com/thanatos.hc/videos/10212137695980595/

Per quanto riguarda i brani su supporto, partirei dall’ultimo brano pubblicato ben 2 anni or sono: Per aspera ad astra. Questo brano è stato preparato per essere eseguito in acusmonium durante il saggio di fine anno delle classi di musica elettronica del conservatorio di Lecce, si tratta di un’opera acusmatica stereofonica.

https://soundcloud.com/francescorizzoprod/francesco-rizzo-per-aspera-ad-astra

Andando a ritroso nel tempo proporrei Ius Naturae / Mors Amatoria, un frammento di un lungo brano curato da dieci studenti di musica elettronica del conservatorio di Lecce organizzati in coppie: ho lavorato in maniera spedita e soddisfacente con Alessandro Raeli, che saluto calorosamente, al fianco del quale ho composto circa cinque minuti di musica. Questo lavoro collettivo ha vinto un concorso a tema “eros”, organizzato dall’associazione francese Alcome della quale saluto in particolar modo il maestro Paul Ramage.

https://soundcloud.com/francescorizzoprod/francersco-rizzo-gauna-and-alessandro-raeli-ius-naturae-mors-amatoria

Un brano circa un anno più vecchio è Res Cogitans: questo componimento nasce da un intento fortemente aneddotico, quasi filmico, uno studio da eseguire durante il secondo saggio di fine anno delle classi di musica elettronica del conservatorio di Lecce. Mi piace definirlo un audio-film.

https://soundcloud.com/francescorizzoprod/res-cogitans

L’ultimo brano degno di nota che ho caricato su SoundCloud è certamente la mia prima composizione di musica acusmatica, finalizzata all’esecuzione durante il concerto Silence organizzato dal professore Franco Degrassi durante il mio primo anno in conservatorio.

https://soundcloud.com/francescorizzoprod/our-rail

Oltre a comporre, produrre e suonare live elctronics con il tuo gruppo so che stai curando anche una serie di tutorial per imparare ad utilizzare il software Max/MSP.

Certo, chi fosse interessato li può trovare gratuitamente sul mio canale Youtube:

https://www.youtube.com/channel/UCmR-OolWT4-bPqazwL5xnpg

Grazie Francesco.

Grazie a te.

 

 

 

 

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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