“Anuwanuwei”, per un ascolto assolutamente consapevole

Il paradigma della “musica assoluta” ha rivoluzionato l’estetica musicale e tutto il modo di concepire l’arte musicale fin nei più reconditi recessi della ricezione corrente, specialistica e non. La sua “naturalità” rischia di renderlo invisibile. Prenderne coscienza è l’unico modo per ritrovare un ascolto consapevole.

Autore: Gabriele Toma

30 Maggio 2017
Con questa esortazione Carl Dahlhaus apre il suo saggio L’idea di musica assoluta. Tale idea, ufficializzata da Wagner nel 1846, definisce quella musica svincolata (ab-soluta) da qualsiasi fine ed utilizzo extramusicale, come la mozione degli affetti, la messa in opera di un testo teatrale o poetico, la catarsi dell’ascoltatore, la diffusione di un qualsivoglia “messaggio”. Questa concezione influenza ancora oggi il nostro modo di percepire la musica, e condiziona le nostre scelte e il nostro grado di fruizione di un’opera musicale. Scrive ancora il musicologo:

Chi considera solo una seccatura leggere il programma letterario di un poema sinfonico di Franz Liszt o di Richard Strauss prima di un concerto, chi desidera che a un concerto di Lieder la sala sia oscurata anche se non si potranno leggere i testi stampati sul programma, chi ritiene superfluo imprimersi nella mente la rappresentazione di un’opera drammatica in una lingua che non conosce (chi dunque, […] tratta con sprezzante noncuranza la parte che spetta alla parola nella musica da concerto o d’opera) prende una decisione di estetica musicale; si può credere che questa decisione dipenda dal proprio gusto personale, ma in realtà è espressione di una tendenza estetica ben precisa, dell’adesione ad un “paradigma estetico”, quello della “musica assoluta”.

Ciò potrà forse sembrare eccessivo, ma si pensi a quante volte capita di canticchiare canzoni sentite in radio o in tv in un inglese maccheronico (quando non addirittura inventato). A quanti di voi è capitato di cantare – per esempio – la sigla di Dawson’s Creek “Anuwanuwei”?! (Dai su, confessatelo).

Ecco, avete fatto inconsciamente una scelta estetica: subordinando l’importanza della parola a quella della musica vi siete posti nei confronti del brano con un’attenzione parziale; se per recepire il testo occorrono un lavoro mentale e un’attenzione attiva, per recepire la melodia è sufficiente una condizione di passività, dal momento che essa si impone spontaneamente ai nostri sensi. Basti pensare a quanto spesso un motivo o un ritornello ci ronzano nella mente per giorni interi e diciamo che ci è “entrato in testa”.

Secondo Platone la musica doveva essere formata dalla triade harmonia, rythmos e logos, armonia, ritmo e parola (il concetto platonico di “armonia” significava genericamente un insieme di proporzioni numeriche tra i suoni, applicabili tanto nei suoni simultanei che nella loro successione, determinando quindi accordi e modi, da cui derivano i moderni concetti di “armonia” e “melodia”) e la sua concezione ha resistito addirittura fino al XVIII secolo.

Ma allora perché cantiamo “Anuwanuwei”?!

Mettendo un momento da parte l’argomento della superficialità in cui ogni essere umano può incappare durante un qualsiasi ascolto musicale, e la cui analisi sconfinerebbe nella psicologia, nella sociologia e addirittura nella politica, limitiamoci a ricercare l’origine storica della tendenza generale a prediligere la “musica assoluta”.

L’estetica musicale di Wagner, considerato appunto il pioniere della “musica assoluta”, presenta una contraddizione di fondo. Nello scritto programmatico del 1851 Oper und Drama infatti l’aggettivo “assoluto” è sinonimo di “povero”: gli operisti italiani e francesi componevano a suo dire melodie che non avevano nulla a che fare con il testo o con l’azione scenica ed erano troppo poco evocative della stessa e quindi povere di significato, e ciò era inaccettabile per il Maestro del Leitmotiv: la loro musica era quindi dispregiativamente “assoluta”, svincolata dal dramma, mentre, al contrario, ne doveva essere una funzione.

Due decenni più tardi invece Wagner sostiene:

“La musica esprime l’intima essenza del gesto [azione scenica] con tanta immediata chiarezza che, non appena ne siamo interamente presi, perdiamo persino la capacità di vedere il gesto, così che lo comprendiamo senza vederlo.

E nel saggio dell’anno successivo Sulla denominazione del dramma musicale il compositore definisce i propri drammi nientemeno che “azioni della musica divenute visibili”.

Se prima quindi il dramma era la sostanza e la musica doveva costituirne un involucro coerente, ora invece il dramma diviene, per dirla con Hegel, “parvenza sensibile” della musica. Wagner, che si dichiarava seguace di Feuerbach, filosofo che esaltava l’esistenza corporea dell’uomo (nel dramma, l’azione visibile), ora si ritrova suo malgrado a condividere le tesi di Schopenauer secondo cui la musica esprimeva gli “universalia ante rem” e che ritrova nella melodia orchestrale l’ “essenza più intima” degli avvenimenti del dramma.

Questa contraddizione, che, come sostiene Dahlhaus, “non si palesò pienamente soltanto perché Wagner si rifiutò di ritrattare apertamente le tesi di Oper und Drama”, rivela da parte del compositore tedesco una condivisione implicita del concetto di “musica assoluta” a lui antecedente, lo stesso di Wackenroder, Hoffmann e Tieck, i quali vedevano nella musica strumentale pura la massima espressione del mondo metafisico:

Quando si parla della musica come di un’arte autonoma, si dovrebbe sempre intendere solo la musica strumentale, la quale, disdegnando ogni aiuto, ogni aggiunta di un’altra arte, esprime con purezza l’essenza propria e particolare dell’arte, e sola la fa conoscere.

La musica sarebbe dunque capace di esprimere i concetti noumenici, le idee pure dell’iperuranio platonico svincolate dall’esperienza sensibile, come sostiene Schopenauer:

[la musica] esprime non questa o quella gioia singola e determinata, questa o quella afflizione o dolore o terrore o giubilo o letizia o tranquillità d’animo, ma la gioia, l’afflizione, il dolore, il terrore, il giubilo, la letizia, la tranquillità d’animo stessa, in certo modo in abstracto, ciò che vi è d’essenziale in essi, senza gli accessori, quindi senza neanche i loro motivi.

La contraddizione wagneriana è dovuta dunque al duplice significato dell’aggettivo “assoluta” con cui si designa la musica: da un lato indipendente da qualsiasi intento o oggetto extramusicale, dall’altro capace di manifestare l’assoluto. Come spiega il filosofo e musicologo Ernst Kurth:

“O si pensa che essa [la musica assoluta] consista solo in un emanciparsi dal canto, in un rendersi indipendente del suono in sé dal canto, e da ciò evidentemente discende la scelta della parola absolut (cioè sciolto da), oppure si presume che esista in qualche modo un alcunché di originariamente autonomo, al di là del canto umano e dell’anima umana, di cui l’anima può andare, brancolando, alla ricerca e intorno a cui essa orbita percorrendo le vie della musica, in concordanza con le traiettorie degli accadimenti ultraterreni. […] Da ciò si comprende chiaramente come la parola “assoluto” abbia un doppio significato, sotto il profilo tecnico significa: staccato dal canto, sotto il profilo spirituale: staccato dall’uomo.

Se quindi, per concludere, l’ambiguità circa il termine “assoluto” che ha portato Wagner a contraddirsi ha originato le due scuole di pensiero secondo cui la “vera musica” sarebbe ora quella “a programma”, ora quella puramente strumentale, l’esperienza soggettiva, che spesso è più immediata ed esatta di qualsiasi speculazione teorica, ci suggerisce che il concetto romantico di “assoluto”, sinonimo di “poetico”, può manifestarsi tanto in una musica strumentale o in un brano progressive quanto in un’opera o in una canzone pop. D’altra parte l’evidenza è che la storia ad oggi non ha proclamato un “vincitore” in questa disputa. Per questo è necessario integrare le speculazioni teoriche con la testimonianza della propria personale esperienza di ascolto.

In definitiva ciò che conta veramente è la qualità con cui noi ascoltiamo: che l’oggetto sia un Lied o una Sinfonia, sarà tanto più apprezzato quanto maggiore sarà la nostra attenzione. Per fruire dunque al massimo grado di un’opera musicale è necessario un approccio olistico, un ascolto attivo e consapevole che ci faccia immergere nella composizione, che ci renda coscienti del momento presente e che sviluppi il nostro spirito critico, in un’era in cui la musica è, purtroppo, commercializzata e degradata, insieme a tante altre forme d’arte, a mezzo di distrazione di massa.

Gabriele Toma

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Articoli correlati