L’Arlecchino di Busoni: maschere e memorie

«Zwischen zwei Welten», per dirla con le parole del Tonio Kröger di Mann. Tra due mondi.

Autore: Emanuele Franceschetti

22 Febbraio 2017

È a quest’ambiguità geografico-spirituale che si finisce per associare, ogni volta, la figura di Ferruccio Busoni. Non (del tutto) a torto, naturalmente: figlio di madre tedesca e padre italiano, talento precocissimo cresciuto nella bella Trieste, finestra sulla Mitteleuropa, a curiosare tra le pagine della sua biografia Busoni sembra da subito destinato ad un’esistenza apolide, trascorsa in perenne mobilità creativa e intellettuale, in costante esplorazione del proprio linguaggio e della propria espressività. Toscano di nascita e di quattro anni più giovane di Debussy (nato, quindi, nel 1866), Busoni si nutre in pieno di quelle tensioni centrifughe e di quelle crisi profonde che traghettano l’Europa della belle époque agli esiti drammatici che ben conosciamo. Ma di quella ‘regione’ così molteplice e imprendibile della nostra storia contemporanea, Busoni si rende testimone ed interprete autentico e particolare: laddove le spinte alla dissoluzione e allo smarrimento ‘su larga scala’ sembrano trainare gran parte delle poetiche individuali, questi tenta invece di plasmare con forza cosciente e lucida la materia della propria lingua e della propria opera. Devotissima conoscenza della tradizione, critica capacità d’interprete e severo magistero tecnico-strumentale rendono Busoni (come ben ricorda la targa commemorativa dedicatagli a Berlino nell’ultimo suo domicilio) al contempo intellettuale, didatta, esecutore tra i più grandi di sempre e figura fascinosamente controversa. Proprio perché, in fondo, difficilmente del tutto inquadrabile.

Le trascrizioni da Bach e Liszt, le composizioni strumentali, le elaborazioni su estetica, teoria e armonia musicale non sembrano sufficienti per colmare quell’esigenza di totalità, di universalità, à la Faust (e non è un caso che il suo ultimo, incompiuto lavoro sia stato proprio un Doktor Faustus..) che il compositore avverte: anche il teatro musicale, con tutto il suo bagaglio di codici espressivi e di linguaggi ormai da secoli sedimentati, è terra da dissodare e indagare. Particolarmente, oltretutto, in un momento in cui è proprio il teatro in musica ad essere, mano a mano, il genere più suscettibile di compromissione e rinnegamento: superati i brevi –e discutibili- palpiti dell’opera verista, Puccini sarà l’unico (e insuperato) cantore ‘in armonia’ col vecchio mondo melodrammatico. Ma questa è una storia che già conosciamo. Più interessante, invece, sembra addentrarsi ancora tra le pagine di quella letteratura del teatro musicale ‘postumo’ (o post-melodrammatico), per coglierne le infinite modalità di ripensamento, di decostruzione, e i suoi rapporti con la tradizione: l’Arlecchino di Busoni appartiene a pieno titolo a questa fase di transizione, ancora ‘al di qua’ dell’avanguardia compiuta, e ben già “al di là” dal vecchio mondo.

La celeberrima maschera bergamasca viene riesumata da Busoni proprio all’alba della Grande Guerra (la partitura viene composta tra il 1914 e il 1916), dopo il naufragare di un progetto a quattro mani con d’Annunzio (1912), una fantomatica opera dedicata alla figura di Leonardo da Vinci. Evitato quindi il rischio degli struggimenti estetizzanti del Vate, Busoni sceglie di volgersi ai capricci beffardi della commedia dell’arte, guardando a Mozart e Rossini come modelli supremi, tanto per l’insuperabile fervore e brillantezza dell’invenzione musicale, quanto per la possibilità – da Busoni tanto vagheggiata – di «dire cose importanti in forma divertente», risultato perseguibile solo attraverso la commedia. Nonché al Verdi del Falstaff, partitura tanto amata e celebrata dal compositore, specie in un confronto (impari) con i “pallidi astri” di Mascagni e Leoncavallo. E proprio a partire da questi modelli che prendono vita le due opere messe in scena, entrambe, per la prima volta nel 1917: Arlecchino, appunto -su libretto tedesco dello stesso Busoni: Arlecchino, oder das Fenster è il titolo originale- e una Turandot  in due atti, ispirata alla stessa fiaba di Carlo Gozzi che sette anni più tardi avrebbe acceso la fantasia di Puccini.

È piuttosto difficile, riteniamo, comprendere a pieno la complessità del tempo attraversato da Busoni in quegli anni, e di quanto tale complessità rendesse particolarmente difficile assumere una propria poetica matura, consapevole e riconoscibile. L’espressionismo e il futurismo, l’ondata ‘scapigliata’ di Boito e l’agonia del melodramma, la nascente scuola viennese, le tracce ancora evidenti del wagnerismo, la perenne e irrisolta querelle tra gli artifici celebrali della musica tedesca e il melodismo italiano: l’Europa sul finire del secolo è anche questo, è tutto questo insieme. Ma Busoni, ribadiamo, ha ben chiare le proprie radici e i propri riferimenti: l’antica polifonia, Bach e il classicismo per la musica strumentale, la grande commedia musicale per il teatro. In entrambi i casi, la via è una: conoscere, assorbire e metabolizzare i modelli non per strapparli via o rinnegarli, ma per renderli parte attiva della propria espressività. Conoscere la tradizione, storicizzarla, e farsene parte a propria volta, ma sempre guardando avanti. In quest’ottica va ascoltata e decifrata la sua produzione strumentale, e in quest’ottica soltanto può essere compreso l’ Arlecchino.

La vicenda messa in scena, in un atto unico (a sua volta diviso in quattro tempi, ricordando quasi la struttura sinfonica), è piuttosto esile e chiara: Arlecchino, astuto burlador e seduttore, riesce a gabbare ser Matteo, adescandone con successo la moglie; viene però ripagato con la stessa moneta dalla sua Colombina, che cede per vendetta alle profferte del giovane cavaliere Leandro. Questi, ferito a morte da Arlecchino stesso in un duello – risoluzione di conti, ‘risorge’ subito dopo come se nulla fosse, violando anche l’ineluttabilità della morte, anch’essa evidentemente alla stregua di una beffa, di una finzione. Le figure dell’Abbate e del Dottore, in piena tradizione comica, contrappuntano il tutto con un profluvio di citazioni più maldestre che dotte, cinici ‘gatto e volpe’ dalla risposta sempre pronta in materia di donne, vino e verità universali. Dentro questo semplice contenitore, Busoni crea una rete vertiginosa di citazioni e riferimenti, parodie e mascheramenti, ponendosi dentro quella stessa linea che dal Rosenkavalier di Strauss (1911) arriverà fino al Rake’s progress di Stravinskji (1951). Anzitutto: l’opera è costruita e articolata in numeri chiusi, e quindi con le strutture (e le diciture) dell’opera sette-ottocentesca. Duetti, terzetti, arie, recitativi. Ma il livello ‘base’ della finzione canora, secolarmente accettata (e quindi data per scontata), viene problematizzato dagli inserti in parlato di Arlecchino. Questi, oltre a richiamare il modello del Singspiel , moltiplicano anche lo spazio prospettico della comunicazione dei personaggi in scena: l’alternanza tra parlato e cantato (e il rivolgersi di Arlecchino direttamente al pubblico) finisce per dichiarare la finzione, esplicitandola. A due livelli: quello di superficie, smascherando (e vanificando, come per l’episodio già citato della ‘resurrezione’ di Leandro) il dramma; e in profondità, dimostrando l’insignificanza delle relazioni umane, l’inafferrabilità di una verità netta ed evidente.
L’influenza del Falstaff verdiano è forse quella più immediatamente percepibile, tanto nei colori dell’orchestra e nella concertazione delle voci, quanto nella giocosa (giocosa??) disillusione verso le umane sorti. Ad un ascolto (e ad una visione) attenta, però, Arlecchino si rivela un lavoro dal ben nutrito bagaglio di memorie: il Don Giovanni mozartiano, il Barbiere di Rossini (di cui l’orchestra intona una citazione quasi letterale, deformandola però sul piano melodico), il Trovatore verdiano. Per non parlare, poi, della massiccia presenza ‘intertestuale’ dell’Inferno dantesco: i più celebri lacerti del quinto canto contribuiscono a implementare il gioco di specchi del Capriccio busoniano, rendendo i versi, al contempo, oggetto ‘materiale’ della narrazione (il povero Ser Matteo sta leggendo Dante ad alta voce) che speculum della vicenda stessa (‘galeotto’ non fu soltanto il libro letto da Paolo e Francesca, ma anche la Commedia stessa letta da Matteo, che distraendosi nella declamazione, ha permesso ad Arlecchino di infilarsi nelle sue stanze). Inutile dire che anche il tessuto armonico (e melodico) in senso stretto non rinuncia a doppiezze, commistioni e pluralità di livelli: c’è il ‘belcanto’ (specie nella veste ‘parodica’ del canto d’amore di Leandro a Colombina), c’è la declamazione del recitativo, ci sono lunghe arcate dalle chiare fattezze tonali. Ma c’è anche la musica meccanica e burattinesca (quinte vuote, ripetuti singhiozzi cromatici), un po’ Petruška (1911) e un po’ Bartók, di cui Busoni benedisse a gran voce, l’anno stesso, Il mandarino meraviglioso. A conferma, qualora sia necessario ribadirlo, di quanto fosse centrale, nella poetica di Busoni, la consapevolezza del rapporto tra artificio e realtà: e quella più radicale, se vogliamo, sulla libertà stessa dell’uomo.

Emanuele Franceschetti


Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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