Beethoven e la tragedia della forma-sonata

L’opera 111, morte e trasfigurazione di una “forma tipica”.

Autore: Willy Bettoni

21 Febbraio 2017

«Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so […] tanto che, in realtà, una sola vera ragione vi è per dire che il tempo è, se non in quanto tende a non essere?».

Cosa c’entra Agostino d’Ippona con la forma-sonata? Ovviamente niente, ma questo passo tratto dalle Confessioni rende bene l’idea di quanto sia problematico parlare di forma-sonata. Cos’è la forma sonata? Se nessuno me ne chiede lo so bene, si potrebbe dire; ma se qualcuno chiedesse, sapremmo indicare quali sono le caratteristiche di questa forma?

Certamente sì. Gli elementi fondamentali sono sostanzialmente tre: esposizione – sviluppo – ripresa. L’esposizione, che può essere preceduta da una introduzione, presenta due temi: il primo nella tonalità d’impianto, il secondo alla sua dominante se il primo è in maggiore, alla sua relativa maggiore se questo è in minore. I due temi sono collegati da un ponte modulante. La fine dell’esposizione prevede una modulazione, di solito alla dominante o alla relativa maggiore. Nello sviluppo vengono elaborate le idee presentate nell’esposizione. È la parte armonicamente più varia e il compositore può, tramite modulazioni, allontanarsi di molto dalla tonalità principale. Tramite una riconduzione si arriva alla ripresa, che può essere conclusa da una coda, sezione nella quale i temi principali vengono esposti nella tonalità d’impianto. Questo è considerato lo schema base dalla sonata classica. Venne fissato su carta quando ormai la prassi compositiva si stava inesorabilmente allontanando da questo schema. Quindi, potremmo dire che la forma-sonata è in quanto già non è più. Infatti, la storia della musica ci porta più eccezioni che conferme a questa regola, e la sonata in do minore n.32 op.111 di Beethoven rientra decisamente nella prima categoria.

Il titolo di questo articolo porta un doppio riferimento: il primo è al saggio Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna di György Lukács; il secondo al celebre poema sinfonico di Richard Strauss Tod und Verklärung. Cosa c’entra Mann con Beethoven? Molto. Non solo perché nel romanzo Doctor Faustus Beethoven rappresenta il punto di partenza dell’avventura compositiva di Adrian Leverkühn, ma soprattutto perché Mann rappresenta nella letteratura quello che Beethoven è nella musica: il borghese che con la sua arte perfettamente borghese mette in crisi la borghesia stessa; le ultime opere di Beethoven, abbandonando l’uso retorico del linguaggio, allontanano l’ascoltatore medio, divenendo comprensibili solo ad un pubblico ben preparato. Scrive Adorno su Beethoven:

«Se egli è indubbiamente il prototipo musicale della borghesia rivoluzionaria, è al tempo stesso il prototipo di una musica sfuggita alla tutela sociale della borghesia, pienamente autonoma da punto di vista estetico, non più serva. La sua opera fa esplodere lo schema della docile corrispondenza di musica e società».

E la forma-sonata è, sociologicamente parlando, la forma tipica della borghesia; tutte è organizzato in modo gerarchico. La tonica è il centro intorno al quale ruota tutta la composizione, la quale con un moto centrifugo se ne allontana (sviluppo) per poi, con un moto centripeto riavvicinarsene. Il riferimento a Strauss del sottotitolo ci porta alla metà del XIX secolo, periodo in cui i tentativi di rielaborazione della forma-sonata sono lo sfondo che rende possibile ad un compositore come Franz Liszt l’applicazione di questa nuova struttura a composizioni di largo respiro, non ultimi i suoi poemi sinfonici. Parafrasando la frase di Agostino, la forma-sonata è riconoscibile proprio perché tende a non essere riconoscibile, non può essere ridotta ad una forma, ma, come giustamente sottolinea Charles Rosen, è più corretto parlare di forme-sonata. Lasciando da parte i discorsi teorici, vediamo ora nel concreto come Beethoven riesce allo stesso tempo a chiudere con una determinata prassi compositiva e ad indicare una molteplicità di strade possibili per una ulteriore evoluzione del genere. Come, insomma porti a compimento il destino della forma-sonata. Per fare questo non potrò esimermi dal ricorrere all’analisi musicale.

La sonata op.111 (1821-22) si compone di introduzione, esposizione, sviluppo, ripresa e coda. I suoi elementi formali sono quindi tutti riconducibili alla forma classica. Andando però ad analizzarli nel dettaglio vediamo che al loro interno presentano delle criticità. L’introduzione porta l’indicazione agogica di Maestoso. Questa sezione, almeno secondo Wilhelm von Lenz, rappresenta il principio per cui una introduzione non deve mai contenere le idee che verranno poi sviluppate nel resto della composizione. Vedremo come in questo caso avvenga esattamente il contrario. Anche questa introduzione, come molte, appare tonalmente ambigua: nelle prime due battute è tonicizzata la tonalità di sol minore tramite una settima diminuita costruita sul fa diesis; poi sembra spostarsi prima sul do minore tramite un settima diminuita sul si, per risolvere in fa minore. Tramite un’altra settima diminuita, questa volta sul mi, a battuta 5 l’armonia si sposta prima sulla sottodominante della sottodominante (si bemolle minore) e poi sulla sottodominante di do (fa minore). Qui ha inizio un lungo ponte modulante che porta a battuta 10 ad un pedale di dominante (sol) sul quale la mano destra disegna una figura melodica che ricala gli intervalli della testa del primo tema dell’esposizione. Il pedale di dominante alla mano sinistra si trasforma in tremolo (sol-la), poi raddoppiato dalla mano destra, e questo esplode, come sorgendo da un abisso, con l’anacrusi di battuta 18, nel primo tema dell’esposizione (Allegro con brio ed appassionato). Nell’introduzione sono già enunciati gli elementi fondamentali introno a cui ruota tutto il primo tempo: le settime diminuite (bb.1: 3; 5) e gli intervalli del primo tema (bb.11-12). Proprio qui incontriamo il primo problema. Beethoven non scrive un tema vero e proprio, ma una serie di quattro cellule motiviche:

beethoven-cellule-motiviche

Queste cellule motiviche sono un esempio di come in Beethoven operi già quel concetto di variazione evolutiva [Entwickelnde Variation], per cui anche un singolo intervallo può contenere in sé quella forza autogenerativa da cui sorge la sua stessa continuazione. Tuttavia, queste cellule sono legate tra loro due a due, formando in questo modo quello che sembra un soggetto di una fuga, composto da due temi (A+B e C+D). Tutto il primo tempo della sonata si basa sostanziale su questi quattro elementi, che vengono continuamente elaborati. Questi si trovano nascosti ovunque nel tessuto musicale; per esempio tra battuta 25 e 26 abbiamo un doppio richiamo. Il primo è all’accordo di settima dell’introduzione (fa diesis-la-do-mi); il secondo è alla cellula A del tema, qui proposta per moto retrogrado. Qui la struttura classica della sonata, tema 1 + passaggio + tema 2, non sussiste più. Dopo aver riproposto le cellule B, C e D partendo da un ribaltamento dell’intervallo tra cellula A e B (bb.29-31), dopo aver variato le cellule C e D (bb.31-32) e portato questo passaggio ad una estinzione, a metà di battuta 35 Beethoven inizia una fuga a due voci in cui il soggetto è rappresentato dalla cellula B e il controsoggetto è un nuovo elemento esposto in ottave alla mano sinistra. Questi due elementi passano da una mano all’altra con estrema rapidità. Prima di procedere si devono notare due particolarità: il nuovo elemento enunciato per ottave dalla mano sinistra è in realtà ricavato dai suoni principali delle quattro cellule motiviche; l’elemento della fuga, che fin dall’inizio si presenta chiaro all’ascoltatore, viene qui affermato con forza, creando così una sovrapposizione tra lo schema tripartito e bitematico della sonata e lo schema circolare della fuga. L’utilizzo di una forma come la fuga in Beethoven appare strano per almeno due motivi: è risaputo che il maestro di Bonn non avesse ottimi rapporti con questa forma; celebre è l’aneddoto raccontato da Anton Schindler relativo alla fuga del Credo [Gloria] della Missa solemnis. Inoltre, appare strano che il Beethoven dell’ultimo periodo, incurante di ogni limite imposto dal sistema tonale, si avvalga proprio di una forma così arcaica per portare la sua rivoluzione (Grosse Fuge op.133).

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Procedendo oltre incontriamo un’altra particolarità della sonata: il secondo tema; o, come sarebbe più corretto definirlo, la seconda area tematica. Seguendo lo schema classico, trattandosi di una sonata la cui tonalità d’impianto è minore, dovremmo muoverci verso la relativa maggiore di do. Invece Beethoven modula, ancora mentre sta giocando con gli elementi della fuga, sul la bemolle, ovvero la sopradominante di do, cambiando anche armatura in chiave e giunge poi a toccare l’accordo di mi bemolle, che va però considerata come V grado di la bemolle, dal momento che viene espresso come V7. Questo secondo gruppo tematico che per carattere sicuramente si contrappone al primo, non è un vero e proprio tema, ma un recitativo, un momento di tranquillità nell’incedere tumultuoso della sonata. A battuta 58, dopo una serie di quartine discendenti basate su accordi di settima (diminuita), riesplode il primo tema (cellula B), annunciato con violenza per ottave dalla mano sinistra e seguito da una figura di cadenza. La mano destra replica quanto fatto dalla mano sinistra, comprese le figure cadenzali e, a battuta 67 torna la scrittura omofonica dell’inizio, conferendo così una forma ciclica all’esposizione che si conclude con con un passaggio cromatico culminante sul la bemolle, confermando così la nuova tonalità. Paradossalmente lo sviluppo che dovrebbe essere il momento in cui il compositore dà sfogo alla propria creatività, è di una brevità che lascia stupiti; inoltre, anziché allontanarsi dalla tonalità di impianto, Beethoven ci si riavvicina, passando da la bemolle (VI grado di do), a sol (V di do e VII di la bemolle), a re maggiore (V del V di do) per approdare a sol minore, tonalità con cui si apre lo sviluppo. Inoltre, questa sezione della sonata è armonicamente e strutturalmente molto meno spericolata dell’esposizione. Durante la riconduzione modula senza preavviso a do minore nel bel mezzo di una progressione costruita su accordi di settima diminuita sostenuti da un pedale di dominante alla mano sinistra. La figura melodica è quella della cellula B. L’elemento che spiazza l’ascoltatore è sicuramente l’anticipazione della ripresa quando ancora lo sviluppo non è finito. A battuta 90 troviamo la cellula B costruita sulla dominante e seguita dalla cellula C e D variate ritmicamente. Questo passaggio si chiude con la ripresa all’unisono delle cellule A-D nella tonalità di do minore; ma quel do di battuta 92 coincide con la fine dello sviluppo. Il resto della sonata procede secondo lo schema già visto per l’esposizione e si conclude con una coda di 12 battute composta da cadenze plagali terminanti sull’accordo di do maggiore. Del tutto inaspettatamente una terza piccarda dal sapore antico. Questa conclusione in maggiore, però, collega il primo al secondo tempo (in do maggiore), scalfendo così la divisione in più movimenti della sonata.

Come è emerso da questa breve e non particolarmente approfondita analisi è ben visibile come lo schema della sonata classica fissato dai teorici tra la fine del ‘700 e inizio ‘800 si mostri già inapplicabile; anzi, già lo era. Qui si dovrebbe aprire una lunghissima discussione sul ruolo della teoria musicale e lo scarto temporale che c’è tra questa e la prassi compositiva. Qui, però, mi preme sottolineare come questo primo tempo di sonata, che conclude l’esperienza beethoveniana con questo genere e lo porta ad esaurimento, contiene già in nuce tutti gli elementi che renderanno possibile la rinascita della sonata in pieno romanticismo. Ecco spiegato il senso del sottotitolo di questo articolo. Si pensi a come la forma ciclica, la variazione motivica, la scomparsa della polarità tonica-dominante, l’utilizzo di accordi e intervalli come centri funzionali, abbiano influenzato compositori come Schubert, Schumann, Liszt, Brahms e moltissimi altri. Anche il fatto che la sonata si componga di solo due tempi ha dato origine a quei tentativi di fusione dei movimenti, che porterà alla concezione della sonata in si minore di Liszt, opera che segna un punto fermo nell’universo delle sonate per pianoforte. Concludendo, se ascoltassimo tutte e 32 le sonate un dopo l’altra ci accorgeremmo di come forma e linguaggio musicale si modifichino di pari passo, rendendoci spettatori inermi, ma non per questo distaccati, del tragico destino cui la sonata sta andando incontro. Col senno di poi, però, possiamo dire che, come una fenice, essa è risorta mille altre volte.

Il secondo movimento, l’arietta, Adagio molto semplice e cantabile, è talmente denso e importante che al suo intorno ruota un intero universo di letteratura e, per questo, merita un approfondito discorso in separata sede.

Willy Bettoni


 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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Autore: Willy Bettoni

21 Febbraio 2017

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Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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