La musica della fine del mondo

Kurt Vonnegut jr

Autore: Roberto Imparato

23 Dicembre 2016

“So ist der Leib zwar tot, aber der Geist ist das Leben”

[anche se il corpo è morto, lo spirito è vita]

Citazione di Lutero dai Blaue Schreibhefte,

i quaderni blu su cui Strauss prendeva appunti

Sul finire del 1944 le sorti della guerra sembrano già inesorabilmente tracciate. Gli alleati si apprestano a lanciare, in Ardenne, l’ultima, drammatica controffensiva alla Wehrmacht sul fronte occidentale.  Tra i commilitoni che avanzano a fatica nella neve, c’è un giovane soldato americano giunto da Indianapolis a servire il patrio esercito come fante esploratore. Fatto prigioniero dai tedeschi insieme ad altri, viene trasferito a Dresda, dove ha la ventura di assistere al terribile bombardamento della città da un osservatorio non propriamente adatto ai deboli di cuore: l’interno di una grotta scavata sotto un deposito di carni. Non si tratta tuttavia di un cronista qualsiasi, ma di Kurt Vonnegut jr, e di quello che diventerà il suo celebrato romanzo “Mattatoio n° 5”, capolavoro ironico e profondamente umano della letteratura americana. Riemerso l’indomani dalle viscere della terra, il futuro scrittore trova ad attenderlo un paesaggio lunare: la città, un tempo cuore pulsante della cultura europea, è ridotta a un cumulo di macerie, sotto le quali riposano centinaia di migliaia di cadaveri. Per la stragrande maggioranza sono civili. Nel libro principe della cultura underground e pacifista, di cui di lì a qualche anno gli studenti dei college si passeranno di mano in mano copie gualcite, Vonnegut pone al lettore più di una domanda, direttamente o fra le righe. Spesso, lo fa per bocca di Billy Pilgrim, il protagonista del romanzo: assistente cappellano, fatalista, male in arnese, poco addestrato e con il dono inconsueto di viaggiare nel tempo. E fra le tante domande che un artista deve porre e porsi, ve n’è una in particolare.  Tra le più difficili, e, forse, tra le più essenziali. La domanda è la seguente: “Cosa resta da dire dopo un massacro?”.

Dopo un massacro tutto dovrebbe tacere” – è la risposta che dà Vonnegut – “e infatti tutto tace, sempre, tranne gli uccelli. E gli uccelli cosa dicono? Tutto quello che c’è da dire su un massacro, cose come puu – tii – uiit?”.

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Tuttavia il futuro lecturer, pompiere volontario e presidente dell’Associazione Umanisti Americani non è in quel momento l’unico ad interrogare la propria arte di fronte alle ceneri di una civiltà intera, sprofondata senza possibilità d’appello nel baratro della morte e della disperazione. Poco più a Sud di lui, infatti, Richard Strauss è rinchiuso nella villa bavarese di Garmisch. Il compositore è un “grande vecchio” della musica mondiale, eppure sente il peso della fame e della povertà che l’infamia del conflitto non gli ha risparmiate. Fuori dal focolare domestico ogni speranza ed ogni morale sono ormai annientate, calpestate dagli anni truci e sanguinosi della guerra.  In Febbraio, mentre Vonnegut vive l’esperienza che lo segnerà a vita come reduce e come umanista, Strauss scrive a Gregor: “sono disperato. La mia amata Dresda – Weimar – Monaco tutto distrutto!”.  Eppure, solo poco tempo prima, le cose erano state molto diverse: non erano poi così lontani gli anni della Germania del Kaiser Guglielmo II, in cui le ferrovie imperial – regie avevano addirittura istituito un rapido, il Rosenkavalierexpress, che trasportava i viaggiatori melomani tra Vienna e Monaco, biglietto e colazione inclusi. Se ora il mondo esterno, con la sua cultura bimillenaria preda di una “soldataglia delinquenziale” tradisce il compositore ormai ottantenne, egli si rifugia allora nel proprio mondo interiore: il Secondo concerto per corno e l’incantevole Sonatina per 16 fiati (intitolata “dalla bottega di un invalido”) appartengono a quegli anni.

Le pagine di Strauss, in quelle del grande libro della musica del ‘900, sono state senza dubbio tra le più luminose. Non v’è mai vera crudezza in esse, neppure quando Salomé reca in mano la testa mozzata di Giovanni Battista, e ne bacia le labbra insanguinate; neppure in Elektra, quando l’eroina della tragedia attica si profonde in balli dionisiaci dopo che Oreste ne ha trucidato la madre. La partitura del maestro sublima anche la più drammatica delle scene, e la più viscerale delle emozioni. Poi, nel 1943, dopo anni di onorata carriera, anche Strauss sembra rassegnarsi al congedo. “Il lavoro della mia vita è finito con Capriccio”, scrive in una lettera commovente a Willi Schuh. L’accordo iridescente di re bemolle maggiore aveva sancito, così, il paradosso della domanda, se fosse più importante la musica o il testo: la Contessa Madeleine aveva cantato l’impossibilità a decidere tra le due nel finale superbo di questo estremo lavoro. Estremo, ma non ultimo. Il discorso infatti non era ancora concluso, e il grande vecchio doveva pronunciarne le parole definitive, con lo straordinario ciclo dei Vier Letzte Lieder composto cinque anni più tardi sul morire della primavera del 1949, nella cornice incantata del Lago di Ginevra (si ricorda una esecuzione di Celibidache de “Im Abendrot” in cui, nel finale, lo squillo dei flauti spicca sul resto dell’orchestra ridotta in pianissimo, e sembra di sentire un cellulare suonare in sala: è la morte che bussa alla porta). No, doveva ancora scorrerne di acqua sotto i ponti. La guerra era ancora realtà tangibile, e si avviava alla sua conclusione, lasciando dietro di sé una striscia di sangue senza precedenti nella storia. Con gli amati Haydn e Mozart perennemente sul leggio, Strauss ha però un ultimo impeto, e di fronte alla domanda posta in apertura di questo articolo, approda ad una conclusione diametralmente opposta rispetto a quella dello scrittore americano: al silenzio assordante rotto solo dal canto di un usignolo, contrappone uno studio per organico tutt’altro che usuale: 23 archi solisti. Due scelte in controtendenza, ciascuna figlia della scienza del proprio padre. Il 12 Aprile ne conclude la stesura definitiva. Il 30, Hitler si suicida nel suo bunker a Berlino.

“Metamorphosen”, scrive Franco Serpa, “è uno dei capolavori più alti e desolati che siano mai stati concepiti in musica: ed è un capolavoro enigmatico”. Il brano comprende tre diverse sezioni. All’intimistico Adagio ma non troppo, segue una seconda sezione, Agitato, che sfocia prima nella ripresa della sezione iniziale e, poi, nella coda (Molto lento). Vi si riscontrano alcune cellule motiviche maggiori, sottoposte come le minori a procedimenti di continua trasfigurazione, di metamorfosi, appunto. Nel duttile materiale sonoro si percepiscono anche diverse citazioni, e sono citazioni emblematiche. Da un lato, il tema della Marcia Funebre dall’Eroica beethoveniana, dall’altro il lamento di Re Marke dal Tristano wagneriano. Leggendo fra le righe si riesce appena a sbirciare una parte della grande tradizione musicale tedesca, con altri frammenti che fanno capolinea ora in un punto, ora in un altro: la Jupiter di Mozart (un personal favorite di Strauss); il concerto per violino BWV 1001 di Bach. Ologrammi transfughi e passeggeri, che paiono rammentare, in un dolente contrappasso, quanto glorioso è stato il passato e quanta disgrazia v’è nel suo vilipendio presente. In quest’opera di altissimo magistero formale, gli archi si inerpicano su vere e proprie vette di tensione espressiva, senza mai interrompere il fitto dialogo contrappuntistico, di cui Strauss era acclamato maestro. Brevi pensieri si sollevano improvvisamente dal fondale sonoro tenebroso ed articolato, ma riescono a staccarsene solo per un attimo, prima di riprendere a girare dentro l’oscuro cerchio della meditazione. Le stesse frasi tornano in continuazione, ma il trascorrere del tempo le ha mutate rendendole ogni volta diverse, ogni volta nuove.

In questo nobile canto di morte, il decorso cronologico degli eventi non ricalca il tempo naturale delle cose, bensì quello artificioso e serpentino della memoria. “Billy” – scrive a un certo punto Vonnegut in Mattatoio n° 5 – “è andato a dormire che era un vedovo rimbambito e si è svegliato il giorno delle sue nozze. Ha varcato una soglia nel 1955 ed è uscito da un’altra nel 1941. È tornato indietro da quella porta e si è ritrovato nel 1963. Ha visto molte volte la propria nascita e la propria morte, dice, e rivive di tanto in tanto tutti i fatti accaduti nel frattempo”. Come lui, Strauss viaggia a ritroso nella propria vita, quando nella più distesa sezione centrale cede al gusto malinconico dei ricordi, e inserisce frantumi dei poemi sinfonici che molto tempo addietro ne avevano presentato al mondo il talento cristallino. “Tali reminiscenze” – dice Ivana Musiani – “anziché attenuare l’angoscia che serpeggia nella partitura, l’accentuano sinistramente”. Il tema della Marcia Funebre subisce continui rovesciamenti, quindi torna nella sua integrità nelle misure conclusive. In calce, la scritta “IN MEMORIAM!”. A chi, o a cosa? Non è dato saperlo.

Mentre scrivo questo articolo, riascolto in cuffia Metamorphosen per l’ennesima volta. In una pausa dalla battitura, scorro distrattamente i commenti su Youtube. Uno mi colpisce in particolare. Dice: “l’armonia in questo brano dà la sensazione di essere presi a pugni mentre si fa sesso mentre bruci vivo mangiando cioccolato aromatizzato alla rosa mentre ti strappano il cuore dal petto e tu stai baciando la creatura più bella sulla faccia della terra”. Ripenso all’idea pioneristica (già wagneriana) di cambiare continuamente la tonalità senza mai sfociare nell’atonalità pura, e, al pari di Sinopoli, a quanto ingenua sia stata l’idea di Adorno di considerare Strauss solamente un conservatore. In un recente articolo sull’opera di Strauss si legge che è “deprimente” scoprire che le cose più belle scritte dall’autore tedesco risalgano a prima che egli compisse 30 anni, e ancora oggi tale idea serpeggia fra molti frequentatori di sale da concerti e teatri d’opera, o sedicenti tali. Un’idea non più brillante di quella di tale L.C. Mazirel, avvocato di Amsterdam che inviò una lettera indignata a Bruno Walter dopo un’esecuzione di Metamorphosen, deplorando il fatto che si trattasse chiaramente di un’elegia dedicata nientemeno che al Führer. Anche in tali incomprensioni è incappata negli anni la memoria di Strauss, lui che osteggiò il nazismo in modo dignitoso e raccolto, continuando in quegli anni difficili il proprio lavoro in patria (al pari, si dirà, di un tale Furtwängler). Un esempio sugli altri: eletto presidente della Reichsmusikkammer Strauss fu in breve destituito a causa di una lettera consegnata al groom di un albergo e finita inavvertitamente nelle mani delle autorità. La lettera è indirizzata a Stefan Zweig, amico fedele, scrittore talentuoso e librettista della Schweigsame Frau, nel cui cartello il nome non poteva comparire in quanto “non ariano”. Strauss si impose affinchè il suo nome, a pieno diritto, vi comparisse. Non un nazista, quindi, e nemmeno un conservatore.  Il suo (citiamo ancora Sinopoli) è un “romanticismo per dissolvenza”, che si allontana dal passato guardandosi talvolta indietro con un sorriso malinconico. Sposto il cursore più in basso e un altro commento cattura la mia attenzione. “È molto pericoloso per me ascoltare Metamorphosen senza essere sotto l’influenza protettiva del litio“. Il commento dice tutto: sic et simpliciter.

Come Strauss nel suo capolavoro, e come Billy nel suo romanzo, anche noi abbiamo viaggiato velocemente nel tempo e nello spazio, saltando fugacemente da un punto all’altro della storia, lasciando crateri temporali vuoti nel mezzo, e fermandoci qua e là a guardare la bussola per non perdere l’orientamento.  Ma un dubbio resta, ed è quello sul significato del titolo. Come è stato scritto altrove, oltre che al carattere sonoro esso si riferisce forse all’idea goethiana delle metamorfosi della natura, e alla rassegnazione di Faust, che Strauss, vorace lettore, aveva fatto proprie. Nel monologo crepuscolare allo specchio vero la fine del primo atto del Cavaliere della Rosa, la Marescialla pronuncia parole toccanti e definitive. “Tutto è un mistero, un grande mistero. Ed esistiamo per questo, per sopportarlo. E nel ‘come’ sta la vera differenza”. Sulle macerie del mondo, il canto di Strauss si solleva con una leggerezza e una delicatezza tanto umane e profonde da poter essere considerate, non a torto, proprie solo di un’arte musicale superiore.

Roberto Imparato


Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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