L’Opera di Roma apre con il Tristan und Isolde

La nuova stagione del Teatro dell’Opera di Roma si apre con il “Tristan und Isolde” di Richard Wagner, opera estremamente complessa e densa di significati difficilmente decifrabili in maniera univoca: una scelta forse non così ardita ma, sicuramente, non scontata per il teatro romano.

Autore: Silvia D'Anzelmo

14 Dicembre 2016

Il nuovo allestimento, in scena dal 27 novembre all’11 dicembre, è in co-produzione con il Théâtre des Champs-Élysées di Parigi, dove l’opera è già stata applaudita lo scorso maggio, e l’Opera Nazionale di Amsterdam.

La direzione del Tristan und Isolde è stata affidata all’attento e accurato Daniele Gatti che ha segnato in maniera decisiva l’impostazione dell’intero spettacolo mostrando di avere idee estremamente chiare ed efficaci; già la semplice scelta di attendere nella buca che le luci in sala venissero spente per far nascere dal buio totale le prime note cariche di tensione del Preludio, elimina totalmente il distacco tra pubblico e rappresentazione permettendo all’ascoltatore di penetrare nello stesso mondo di Tristan e di Isolde, creando un’immedesimazione totale che è poi l’intento principe del teatro musicale ottocentesco e, in primis, di Wagner. Il fluire della narrazione musicale procede in maniera raffinatissima facendo emergere ogni dettaglio della preziosa partitura wagneriana, senza che nulla venga perso o rimanga inespresso; un suono morbido e ricco ma, al tempo stesso, cupo e opprimente si leva da un’orchestra perfettamente plasmata dalle mani attente e precise di Gatti che dà una lettura accuratissima dell’opera fin nel minimo dettaglio senza però dimenticare di seguire lo sviluppo lento e inesorabile del ritmo narrativo: non ci sono cali di tensione, un unico arco viene teso dalla prima all’ultima nota, una coesione perfetta, totale.

Meno curate e attente risultano, invece, le altre componenti dello spettacolo che hanno sicuramente elementi di pregio ma, nel complesso, sembrano confuse e poco organiche. Partendo dal Preludio, lo scenografo Christof Hetzer decide di iniziare con il sipario aperto e di lasciare in bella vista un semplicissimo quadrato nero simbolo di morte che, verso la fine, lascia il posto a una sorta di “quinte” gigantesche e arrugginite che ci danno un senso di decadenza opprimente, sono parti scomposte, smembrate della nave che trasporta i due protagonisti e che, con la loro mole e gli spostamenti continui, sembrano quasi volerli imprigionare e schiacciare: una  trappola del destino da cui non si può scappare. Dal fondo emana una luce fredda che mescola toni di bianco, grigio e verde quasi a evocare i mari del nord, e da questa luce vengono avanti i due protagonisti come sagome o fantocci: Isolde estrae la spada dal fianco di Tristan e, con un gesto lento, carica il colpo quasi l’arma fosse un giavellotto senza, però, riuscire a ferire il suo “amante traditore” che le volge le spalle e va via. La scelta del regista Pierre Audi di anticipare una scena che avverrà alla fine del I atto o di ricordare quello che è l’incontro tra Isolde e Tantris mi sembra una inutile e goffa duplicazione tanto più che la lentezza con cui viene mimato il gesto lo fa apparire estremamente ridicolo.

Per quanto riguarda il I atto, rimangono in scena le mastodontiche sezioni della nave ma i giochi di luce curati da Jean Kalman si trasformano diventando cupi man mano che si procede, rendendo la scena sempre più opprimente e pesante; in questo spazio liquido, segnato dagli spostamenti dell’enormi quinte, si muovono pochi personaggi abbigliati con costumi non certo belli ma che, almeno per il momento, evocano bene la sospensione temporale in cui l’opera è immersa. Audi fa muovere molto poco i personaggi, probabilmente volendo rendere ancora più evidente che il Tristan non è un opera basata su azioni esteriori ma su motivazioni interiori espresse in musica. Il complesso, però, risulta di una fissità non comunicativa, l’ansia interiore rimane inespressa e i gesti dei personaggi risultano spesso goffi o poco curati; un esempio per tutti è la parte finale del I atto, quando Isolde riesce finalmente a ottenere un colloquio con Tristan e lo costringe a bere quello che dovrebbe essere il filtro della morte. Ora, a parte la scelta poco felice di Hetzer di sostituire i filtri con delle pietre,  una volta che Tristan e Isolde si rendono conto di essere ancora in vita, la musica crea un arco di tensione fortissimo attraverso i leitmotive del filtro, del desiderio amoroso e della morte che il regista non ha minimamente assecondato; tutta la poetica dello sguardo attraverso la quale l’amore penetra nell’animo salta perché i due amanti, appena scoprono di aver bevuto il filtro sbagliato, si allontanano, non si toccano, non si sfiorano anzi cantano la loro passione impalati ai lati opposti del palco. L’intento del regista è sicuramente quello di sottolineare che la passione di Tristan e Isolde non è sensuale ma è un anelito che li spinge verso la morte, detto questo, non si può ignorare il filtro d’amore e soprattutto non si può ignorare il libretto che vuole Isolde e Tristan avvinti dalla passione, smarriti in un abbraccio travolgente; i due amanti sanno perfettamente che il loro è un amore puro che li ha votati all’annullamento, tuttavia il filtro introduce una serie di atteggiamenti che rende il loro legame talmente ambiguo da sembrare passionale e carnale agli occhi di chi vive nell’illusorietà del giorno. E tutto questo, purtroppo, viene perso nella regia messa in atto da Audi.

Andando al II atto, la scena si apre in quelle che dovrebbero essere le stanze del re Marke totalmente trasfigurate nell’interpretazione di Hetzer che apre con il quadrato simbolo di morte dietro il quale scorgiamo delle ossa bianche, enormi, rivolte in cerchio verso una sorta di monolite coperto da un velo nero; durante il lungo dialogo dei protagonisti, il velo cade mostrando una struttura in acciaio che rimanda alla forma del diamante evocatore, forse, della purezza dell’amore di Tristan e Isolde. Prima della scena in cui i due amanti si abbandonano evocando la dolce notte, Isolde deve dare il segnale a Tristan spegnendo il lume che arde nella stanza come monito di pericolo; il gesto di Isolde, che arriva a dire “La fiaccola,/fosse anche la luce della mia vita,…/ridendo/non temo di spegnere!” è forte e carico di significati: la fiaccola, infatti, è simbolo della malvagia falsità del giorno e, estinguere quella luce, significa lasciare fuori quelle illusioni, i rapporti sociali e far entrare l’autenticità della notte, pregustare l’unione totale, senza confini che li avvincerà nella morte. Questo gesto, dunque, è indispensabile per creare in maniera netta l’opposizione tra i due mondi ma né Kalman né Audi sembrano voler cogliere l’occasione di sottolineare il contrasto e passano il tutto sciattamente in sordina. Andando avanti nello stesso atto, i due amanti vengono scoperti da un troppo giovane re Marke che annulla l’opposizione con la gioventù di Tristan, e un vecchio untuoso Melot che dovrebbe essere coetaneo e rivale di quest’ultimo; ancora una volta domina la totale fissità: i due amanti dovrebbero apparire inconsapevoli, assenti, quasi folli agli occhi di chi vive il giorno, invece risultano semplicemente fermi e quando Tristan ingaggia il duello contro Melot, ancora una volta, i suggerimenti di Wagner non vengono assolutamente sfruttati; Tristan, infatti, dopo aver chiesto alla sua amata se vuole seguirlo nel regno dell’ombra, dovrebbe gettarsi sulla lama del nemico oramai tutto proiettato oltre questo mondo, invece, non accade nulla di tutto ciò: addirittura Isolde cerca di fermare lo scontro- perché mai se vogliono entrambi annullarsi nella notte?- ma, goffa com’è, riesce solo a far ferire a morte il suo amato.

Arriviamo finalmente all’ultimo atto che si apre con il solito quadrato nero simbolo di morte dietro la quale scorgiamo, questa volta, una sorta di palco nel palco totalmente al buio, fatta eccezione per un piccolissimo spiraglio di luce glaciale. L’ambientazione sembra estremamente concorde con l’ultima parte della storia finché i personaggi non escono in scena con costumi del tutto mutati: proprio nel momento in cui la narrazione si allontana di più dal mondo degli eventi e i contorni della realtà si fanno più sfumati, Hetzer decide di abbandonare abiti evocativi di un tempo sospeso per un vestiario del tutto moderno. Altro elemento poco chiaro o meglio ridondante è la pira funebre su cui è adagiato un cadavere avvolto nel sudario che va ad accumularsi ai sovrabbondanti simboli di morte sminuendone il significato. Tornando al palco nel palco, l’idea è molto bella ma rimane funzionale solo finché non viene aperto e inondato di una luce fredda, quasi eterea su cui si staglia la figura in nero di Isolde che canta il Liebestod: il contrasto è estremamente affascinante e suggestivo ma lei sta penetrando nel buio di una laicissima notte eterna non nelle luci soffuse del paradiso! Ancora una volta viene meno l’opposizione tra la luce come simbolo di menzogna e l’oscurità come unico luogo di autenticità.

Passando ai cantanti, molto buona la prova di Rachel Nicholls, un’Isolde dai toni forti e caldi che riesce a tenere la scena senza cali per tutte e cinque le ore di canto, unica nota stonata la recitazione che risulta sempre un po’ impacciata e sbrigativa. Meno bene, ma comprensibilmente, Robert Dean Smith che è stato chiamato a sostituire Andreas Schager nella parte di Tristan risultando un po’ insicuro nei fraseggi, nel dosaggio della voce e troppo goffo nella gestualità. Per quanto riguarda il ruolo di Brangane, Michelle Breedt inizia in “sordina” tanto che, per tutto il primo atto, la sua voce viene risucchiata dall’orchestra; andando avanti, però, va sempre meglio dando prova delle sue ottime doti nella parte finale dell’opera. Molto bene anche il Kurwenall di Brett Polegato e il re Marke di Andreas Hörl; il coro, per quanto esiguo in quest’opera, è stato preparato molto accuratamente da Roberto Gabbiani e si è esibito in maniera impeccabile.

Concludendo, la parte musicale risulta quella più attentamente curata e fedele sia al testo che alla partitura: la direzione di Gatti è impeccabile, calda, travolgente e al tempo stesso implacabile, incessante e opprimente. Per quanto riguarda le altre componenti dello spettacolo risultano meno precise, meno curate e, alle volte, incapaci di far emergere i molteplici significati sottesi nell’opera: si è cercato forse di innovare, di proporre un Tristan nuovo (ma che sembra già visto, già vecchio!) e questo è apprezzabile ma con opere così complesse bisogna stare in guardia, bisogna conoscerle fin nel minimo dettaglio, penetrarle affondo se si vuole fare un lavoro del genere perché va bene reinterpretare i gesti, le ambientazioni ma le situazioni e i simboli sottesi devono emergere lo stesso, espressi con chiarezza e, in questo caso, non sempre lo erano.

Silvia D’Anzelmo


Le immagini sono tratte dalla pagina Facebook del Teatro dell’Opera di Roma

© Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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