Mahler, un Adagio a Venezia. Il canto ‘inattuale’ della decadenza.

Dovrà essere misericordioso chi, leggendo il titolo di quest’articolo, avrà subito avvertito di trovarsi di fronte a qualcosa di già letto, già visto, già ascoltato.

Autore: Emanuele Franceschetti

18 Novembre 2016
Mahler –Thomas Mann- Luchino Visconti: 103 misure di struggimento e languore, a render onoratissimo servizio ad una pellicola, anch’essa, languida (più che struggente), non particolarmente verbosa, fragilissima. Tutto già noto, probabilmente. Non servirebbe ritornarci su: eppure corriamo il rischio più che volentieri, tacitamente grati a quest’epoca di illimitata (..e limitante?) riproducibilità delle opere d’arte che, se non altro, ci consente innumerevoli ripensamenti, esitazioni.
E sempre nuove fascinazioni.

Nel definire la vicenda artistica di Mahler, si finisce inevitabilmente per riciclare, a nostro uso e consumo –e per cavarci d’impaccio- categorie già utilizzate: la problematicità dello stile, l’ambiguità degli ‘innesti’ popolari, la sua natura di epigono del romanticismo, la sua ‘inattualità’. E ancora il rapporto con l’ebraismo, l’imbarazzo di una fama conseguita più come direttore che come compositore, gli incontri con Freud, il rapporto con Alma, e molto altro. É Luigi Rognoni (eminente studioso del Novecento musicale, e non solo) a definire Mahler ‘inattuale’. Rifacendosi, peraltro, ad una convinzione che era propria del compositore stesso: il suo celebre ‘’il mio tempo verrà’’ era indicativo di come persino lui non credesse di poter essere compreso, nella giusta misura, da vivo. Addirittura, Rognoni paragona Mahler a Kierkegaard, entrambi accomunati –a suo dire- da una certa (nostra) incapacità di definire  al meglio il loro ‘ruolo’, la loro opera, la loro posizione dentro l’avvicendarsi degli stili, delle filosofie.

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Certo è che le monumentali composizioni di Mahler si ponevano in una posizione di ambigua scomodità: senza abbandonare la tonalità, ne esasperava drammaticamente le possibilità; senza rinunciare del tutto alle ‘forme’, le dilatava e le deformava, creando oggetti dalle dimensioni, dalle sonorità, e dalla ricchezza e compresenza di elementi davvero difficili da cogliere senza la giusta distanza e un’adeguata riflessione. In queste righe, che non pretendono certo d’essere un saggio su Mahler, ci sembra opportuno riportare le parole di Leonard Bernstein, uno tra i più autorevoli direttori mahleriani. Bernstein cerca di far luce sul modo in cui ciò che ora, a valle di un crescente interesse critico, storico e musicologico, può sembrarci chiaro, così non appariva ai suoi contemporanei, che nell’ascoltarlo dovevano provare una sorta di spaesamento per quello che sembrava un epigono di un Romanticismo consunto:

«(Il pubblico) era colpito dall’eccesso, dalla singolarità stravagante, dall’enfasi, dall’eccessiva lunghezza di quella musica; e non riusciva a riconoscere in quelle caratteristiche i sintomi della propria decadenza e del proprio crollo. Quel pubblico ascoltava quanto appariva soltanto come una evocazione della musica austro-germanica, riepilogata in termini distorti, e tutto ciò allora veniva considerato vergognoso eclettismo».

Bernstein coglie indubbiamente nel segno: senza considerare, però, che Mahler e la sua musica appartengono ad un contesto storico-geografico tutt’altro che periferico nei confronti di quella crisi di fiducia verso le possibilità conoscitive dell’uomo, verso la mimesi fedele del naturalismo e verso l’onnipotenza della scienza e della tecnica. Non serve certo ribadire come la Mitteleuropa fosse violentemente impregnata di quella decadenza etica ed estetica che di lì a breve avrebbe spalancato la porta alla guerra. Mahler non è un precursore, non possiede né dichiara atteggiamenti avanguardisti: né, allo stesso tempo, si pone apertamente come erede (o epigono) di una certa tradizione. La sua musica non risponderà mai a previe dichiarazioni di poetica. Per Mahler la musica trova da sé –e, soprattutto, in sé- la propria ragion d’essere e le proprie motivazioni.

Quell’adagietto di cui, giocoforza, dobbiamo qui dar notizia, è un’incredibile e miracolosa pagina, forse la più alta, dell’opera mahleriana. Stiamo parlando, naturalmente, del quarto tempo della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler, composta tra il 1901 e il 1902, ed eseguita per la prima volta nel 1904, a Colonia, da lui stesso diretta. Una sinfonia di grandi proporzioni, al solito (è impossibile, in questa sede, dar giusta notizia delle precedenti, per le quali si rimanda ad altre ben più approfondite letture). Un’iniziale marcia funebre, brutalmente assertiva, momenti di stupefacente, inquietante volume sonoro, una vaga reminiscenza dalla terza sinfonia di Brahms (per chi voglia trovarcela); lo Scherzo, poi, un episodio di più lieta e giocosa cantabilità (sempre violata, qua e là, dal ‘tragico’, irrinunciabile per Mahler), caratterizzato da un brillante e leggero contrappunto di ottoni ed archi. Ecco, finalmente, sorgere come da un silenzio primigenio, l’Adagietto. L’ispirazione di Mahler, qui, è pressoché miracolosa. Tutto quanto si è ascoltato fino a quel punto in orchestra sembra capitolare, scomparire. Non più la minima traccia, qui, di alcun fragore, di alcuna violenza. Mahler dilata il tempo, la narrazione si fa tutta interiore, quasi liturgica: la drammaticità, altissima, è però mirabilmente contenuta entro lo spettro timbrico degli archi e dell’arpa. Il contrappunto, delicatissimo ma efficace, è tutto al servizio del viaggio armonico che la partitura compie in appena poco più di cento misure. Un’iniziale tonalità di Fa maggiore viene raggiunta con chiarezza solo dal palesarsi del Si bemolle nella melodia pronunciata dagli archi: una luminosità verginale, elegiaca, ma fin da subito messa in discussione da alterazioni inattese, cromatismi ‘tristaneggianti’, soffertissimi, che sembrano far ammalare, lentamente e inesorabilmente la partitura. Tuttavia non una sola misura, in questa pagina, cede alla citazione, alla maniera; non una sola misura, in questa pagina, rende più legittimo e necessario chiedersi quanto ci sia, nella musica di Mahler, di disillusione, di cinismo, di nevrosi. L’adagietto è la confessione a bassa voce di un dolore misterioso, di cui non ci è dato d’esser parte del tutto: una terra di luce, conquistata con sacrificio e pertinacia dall’ inossidabile direttore austriaco, architetto implacabile di quei ‘mondi’ sonori, che dovevano per sua stessa volontà contenere un universo, con la sua atroce complessità e densità, con le sue contraddizioni. Qui invece, per un attimo, tutto si fa preghiera. Così perfetta e meravigliosa da liberarci finalmente dall’onere di collocare Gustav Mahler entro un preciso orizzonte stilistico e di ammetterne, un’ennesima volta, la totale distanza dal coevo espressionismo, dall’audacia ‘faustiana’ di Arnold Schönberg.
Qui la musica è assoluta: ab-soluta, sciolta e libera da qualunque mimesi dichiarata, e proprio per questo universale, umana.

Nella pellicola di Luchino Visconti (Morte a Venezia, 1971, dal ‘quasi’ omonimo romanzo di Thomas Mann; Benjamin Britten ne farà un’opera musicale, nel 1973), la musica dell’adagietto di Mahler è di tale efficacia (per quanto misera, in questo caso, sia la categoria dell’ ‘efficace’..) da diventare la narrazione ‘senza parole’ della malattia del corpo e dello spirito del protagonista. Il racconto di Thomas Mann, da cui la pellicola è tratta, era stato composto nel 1912, già entro un orizzonte di evidenti riferimenti musicali. Una diffusa opinione, vorrebbe che il protagonista del romanzo fosse ispirato proprio a Gustav Mahler. Al quale, a prescindere dalla veridicità della ‘leggenda’, Thomas Mann aveva già indirizzato una commossa lettera, proprio l’anno prima, in seguito ad un’esecuzione dell’Ottava di Mahler, cui Mann aveva assistito, e da cui era stato emotivamente sconvolto. Né la musica era una frequentazione accidentale per Thomas Mann: Doktor Faustus, una delle ultime monumentali sue opere, è (anche) una lunga narrazione della forza ‘demoniaca’ della musica, con evidenti riferimenti al contesto storico, politico e musicale che Mann aveva vissuto in prima persona. Da Mahler a Thomas Mann, dunque, per ritornare alla pellicola di Visconti. E quindi, ancora un’ultima volta, alla musica di Mahler: quasi come nella miglior tradizione operistica, la musica si fa carico di dirci cose che le parole, da sole, farebbero fatica a pronunciare. Venezia, città aperta alle acque e drammaticamente vulnerabile, diventa quasi il prolungamento di Von Aschenbach, colto nel vivo da un’inattesa passione omosessuale, capace di turbargli i sensi e la carne, proprio come il morbo che in quegli stessi giorni sta affliggendo Venezia. Quando Tadzio, l’olimpico giovanetto desiderato da Aschenbach si allontana nei cristalli luminosi del mare, nell’ultima scena, sotto lo sguardo morente e palpitante dell’artista –che sta per esalare il suo ultimo respiro-, la musica di Mahler sembra riuscire a sollevarsi verso il cielo delle riconciliazioni e della pace.
A quella pace Thomas Mann e Gustav Mahler, sessant’anni prima del film di Visconti non erano stati destinati ad assistere. Con loro, probabilmente, la grande narrativa e la tradizione musicale romantica avevano innalzato il loro canto del cigno, in unisono con quello di una civiltà còlta nella sua profonda decadenza.

Emanuele Franceschetti


Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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