Quattro chiacchiere con Michele Girardi

Michele Girardi è un musicologo molto noto per i suoi studi su Giacomo Puccini.

Autore: Lorenzo Papacci

16 Novembre 2016

Autore di una monografia che è il testo imprescindibile su questo autore con cui ha vinto il premio internazionale “Massimo Mila”; ha poi fondato il Centro studi Giacomo Puccini a Lucca. È specialista della musica otto-novecentesca e nello specifico dell’arco storico che va da Verdi alle prime avanguardie. Siamo riusciti a scambiare due parole con lui al termine di una conferenza su Carlos Kleiber che ha tenuto all’Università La Sapienza di Roma.

Abbiamo parlato oggi di direzione orchestrale, volevamo sapere, secondo lei, come deve essere l’approccio di un direttore ad un autore come Puccini, quali sono i lati della sua musica che non possono essere tralasciati. Le soluzioni migliori adottate nel ‘900, magari può farci qualche nome.

Ci sono alcuni personaggi imprescindibili: il primo si chiama Herbert von Karajan, il secondo si chiama Carlos Kleiber, fra loro sta Bruno Bartoletti, interprete dalla sensibilità straordinaria, sopravvissuto a entrambi con esiti importanti almeno fino alla Manon Lescaut fiorentina del 2011. Attualmente ce ne sono altri due in attività, e formidabili: Antonio Pappano e Riccardo Chailly. Questi sono i nomi che vanno presi in considerazione. I due tedeschi, o austriaci per meglio dire, hanno fatto capire quale profondità di tipo contenutistico stesse nel gioco tematico di Puccini e in quale maniera questo gioco potesse trovare la sua legittimazione in orchestra, oltre che sul palcoscenico. Hanno captato le sonorità adatte per Puccini e le hanno raffinate sempre di più. Prima Karajan con tempi diversi, più lenti, rispetto a Kleiber, ma ugualmente impressionanti per come restituivano alle partiture di Puccini la dignità intrinseca, che da troppo tempo era passata ‘in cavalleria’. Questo perché gli esecutori puntavano principalmente sui colori melodici, senza curarsi delle parentele che questa musica ha con l’Europa del tempo: parlo soprattutto di compositori che Karajan frequentava e Kleiber no, ma che per Puccini sono gli autori di riferimento, penso a sonorità soprattutto della musica francese e in particolare mi riferisco a Debussy e Ravel. Fare questo è stata una rivelazione per il mondo, La bohème diretta da Karajan, quella incisa nel disco DECCA, è stata una rivelazione per tutti. Non si credeva che questo esito potesse essere superato in termini di diversità d’approccio, di tensione etica – perché, se la musica è eseguita con un ‘senso di giustizia’ muta la sua natura. Kleiber aveva l’idea chiara di tutti questi punti di riferimento: nella conferenza ho messo a paragone l’unisono con cui attacca l’ouverture del Freischütz di Weber con il Si unisono dell’atto iii del Wozzeck di Berg. È caratteristica solo dei grandi direttori additare delle prospettive che siano di così ampio respiro e devo dire che il Romanticismo del Freischütz è diventato IL Romanticismo. Il suo Puccini sta dentro quest’orbita ma prosciugato di enfiagioni postromantiche, quindi con un’idea della partitura e di sonorità totalmente depurate, ma non da prassi agogiche libere: s’impone la  libertà del suo fraseggio, ma è un tipo di libertà che viene poi a servire la causa da un altro punto vista. È secco, quasi à la Toscanini se vogliamo, però con una libertà maggiore. Questi due approcci, che sono stati fra loro diversi ma comunque decisivi per ridare a Puccini quello che era di Puccini, sono stati poi considerati da Pappano, che adesso, a mio avviso, insieme a Riccardo Chailly dirige Puccini proprio come deve essere oggi. I tempi sono passati e Torrefranca a screditarlo non c’è quasi più.

https://www.youtube.com/watch?v=8bXiB5wpO7g

Ci interesserebbe, a questo punto, avere qualche dato in più sulla direzione che fece Kleiber de “La Bohème”, dato che ci lavorò molto, magari andando su dei casi specifici.

Quello di Kleiber sulla Bohème è un lavoro di cesello: non c’è una sonorità strumentale alla quale non abbia restituito trasparenza, ogni parte è udibile in una maniera che possiamo dire inedita. Nel momento in cui Marcello, nel quarto quadro, e tutti gli altri ragazzi stanno lì ad atteggiare scene di commedia, si sente: “c’è qualche trama? Qualche mister?”, frase echeggiata da un lacerto melodico dell’oboe che chiamo spesso in causa quando incontro qualcuno che ha il ‘complesso di Puccini’ – ci sono nipotini di Torrefranca ancora adesso. Lì si sente chiaramente che Kleiber vuol far capire che siamo in Europa, non chiusi nel clima italiano, e che quello che Puccini scrive è quello che si potrebbe sentire da un autore come Mahler.

https://www.youtube.com/watch?v=zMmRetJMfOk

Vorremmo ora una considerazione sul discorso del repertorio di Kleiber, lei ha parlato di un approccio molto diverso da quello di molti altri direttori: Kleiber non esegue l’ opera omnia di un autore, ma prende delle singole opere, vengono in mente per fare un paragone Arturo Benedetti Michelangeli o Vladimir Horowitz. Secondo lei questo approccio è quello più valido o un direttore deve tendere anche ad avventurarsi?

Penso che la scelta di Kleiber sia stata condizionata o, meglio, che Kleiber non avesse un’altra strada, altrimenti l’avrebbe percorsa. Sono fortemente convinto che il suo caso sia ideale da studiare per quanto riguarda il complesso di Edipo: non ho trovato uno solo dei suoi brani, anche quelli più desueti (come la sinfonia n. 2 di Borodin, ad esempio), dove Kleiber figlio non abbia diretto brani del repertorio paterno. Ha eseguito Wozzeck, ma non a caso lo ha lasciato presto, pur essendo un meraviglioso direttore di quel capolavoro, basta ascoltare la sua esecuzione (qui) per avere una prova principe del fatto che fosse una partitura per lui, però era la musica del padre (che ne diresse la première nel 1925) e quindi se uno ha un problema col padre, o lo uccide e passa oltre o non è capace di risolverlo. Kleiber ha dimostrato di non essere capace e convisse fino alla morte con questa sua impasse, tanto che molti biografi hanno sostenuto che egli vedesse nel rapporto con il repertorio paterno il filo conduttore della sua esistenza. È per questo che non riesco a quantificare, e nemmeno credo che sia facile riuscirci, quanto fosse radicato nel repertorio sinfonico romantico e post-romantico e quanto avrebbe potuto contare nell’interpretazione estetica di quella musica senza il pesante fardello dell’eredità paterna. Si pensi anche all’arte magistrale di Erich Kleiber, e magari si ascoltino le sue esecuzioni del Rosenkavalier, e di uno fra i cavalli di battaglia di Carlos, l’ouverture della Fledermaus che Erich ha registrato nel 1933 (qui) .

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Tornando a Puccini, nella sua ultima opera, “Turandot” ovviamente, possono esserci punti di contatto con quella che era la sensibilità del teatro e della drammaturgia novecentesca? E’ un’opera che si colloca un po’ a metà, è una chiave di volta, tra quella che era la drammaturgia pienamente ottocentesca, quindi anche pucciniana e quella del ‘900, quali sono effettivamente i punti di contatto, per esempio  con autori come Malipiero o Casella?

Zero! Facevano un’altra cosa, parlando della generazione dell’ottanta, erano tutti abbastanza arrivisti. Si spiega mai perché Malipiero abbia composto una quantità abnorme di opere? Pur dicendo dicendo in ogni momento che lui l’opera la voleva seppellire. Se uno vuole negare l’opera fa come Debussy: ne scrive una sola per affermare che “questo modo di fare opera è finito, eccovi di la dimostrazione di come si apre una nuova via, ma io non la posso percorrere, perché non c’entro”, oppure si fa come Mahler che vuole dire “scriverei opere, ma siccome governo le sinfonie e le rispettive forme con una maestria senza pari allora faccio quello”, oppure le si scrive senza complicarsi eccessivamente la vita, come dopo di lui, nel secondo dopoguerra, hanno fatto in tanti, a cominciare da Maderna, Berio, Bussotti, Henze e tanti altri. Su Turandot europea: ritengo che la partitura più a contatto con l’Europa del tempo non sia Turandot, bensì La fanciulla del West, però pur nell’ambivalenza strutturale dell’opera questa può essere analizzata per sistemi equivalenti per quelli che erano gli schemi formali dell’opera ottocentesca. Al contempo si parla di ambivalenza formale perché alcuni elementi si possono cogliere nell’aspetto di una forma parasinfonica, è valida l’una come l’altra interpretazione. In Turandot ci sono forme aperte e forme chiuse, mentre nella Fanciulla, salvo l’aria di Johnson dell’impiccagione, sono tutte forme aperte. Turandot non è tutta aperta e in questo aspetto somiglia anche alle produzioni teatrali à la Busoni (ma anche allo stesso Wozzeck), nel contesto di quella ‘nuova oggettività’ e del ritorno al Settecento, condotto dai vari Max Reinhardt, Hugo von Hofmannsthal, Richard Strauss, ai quali davano una buona mano Toscanini e Bruno Walter. Il ripescaggio di strutture formali più oggettive, coincide con quella reazione antiromantica che si apriva appunto negli anni ’10, la stessa che ha trascinato, non contro sé stesso ma quasi, Richard Strauss e gli ha fatto produrre opere altrettanto belle ma diverse da Salome ed Elektra, che per me restano insuperabili.

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Quindi lei pensa che anche per quello che riguarda il tema, il fatto che venga ripresa una fiaba di Gozzi, che è un po’ quello che fa anche Casella con “La donna serpente”, nemmeno questo accomuna un po’ Puccini a quel tipo di sensibilità di un “ritorno all’ordine”?

No, non c’è quello che c’è stato negli altri e che in Casella, ad esempio, è testimoniato al massimo livello nella partitura più anodina che io conosca che è La favola di Orfeo, dove non c’è una sola sorpresa per tutto il tempo, quello è un ritorno all’ordine completo. Poi, invece, se si parla delle sinfonie del tempo di guerra, allora lì c’è un’altra prospettiva anche per Casella, che si è peraltro arreso presto, dopo aver condotto esperimenti dei più vari per un po’ di anni; la sua musica è una specie di calembour in questo senso, dopo di che, appena ha afferrato il ritmo dei tempi si è adeguato. Il testo di Gozzi non gli ha ispirato un capolavoro, mentre per Puccini il legame con il rivale veneziano di Goldoni è un po’ pretestuoso, e funziona meglio se lo si guarda in rapporto col teatro di parola e in particolare di “prime donne”.  Il fatto che non avesse tutta questa volontà lo dimostra la scelta di non prendere il testo di Gozzi ma una versione romantica di Maffei.

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Parlando del teatro del ‘900, secondo lei quest’ansia di sperimentazione, come quella di Malipiero, di Casella e di un po’ tutti gli autori di questo periodo, che è stata viva fino a un certo punto e poi vi è sempre stato un momento in cui si sono fermati, secondo lei questo freno alla sperimentazione è stato imposto dal Fascismo o è stata una reazione inconscia di questi autori?

Questa è una bella domanda … La mia opinione diverge spesso da quella di molti miei colleghi. In molti, compositori, critici e quant’altro, convissero più o meno felicemente con la dittatura, da Casella a Malipiero, Pizzetti (che è il peggiore di tutti), Respighi fino a Petrassi, e penso che la dittatura abbia avuto a che vedere con questa mentalità di un ritorno all’ordine, e La favola di Orfeo ne sia un buon esempio. Però rimangono opinioni: c’è chi dice che il fascismo è un trauma ancestrale per l’italia ma che la questione non si esaurisce qui; forse è vero, però è certo che politicamente questo rapporto c’è stato, ed essendoci stato si vede anche esteticamente. Casella è il più chiaro di tutti in questo, perché Malipiero in qualche modo resta ‘sgangherato’, mette in scena un teatro di giustapposizioni ‘drammatiche’ con la pretesa di non fare teatro mentre lo sta facendo. Ci sono cose nell’Orfeide che non ho mai capito: è un testo teatrale senza una spina dorsale drammaturgica che mi disturba e mi è un po’ indigesto, già Torneo notturno è migliore, dopo di che, se vogliamo dirla tutta siamo su un piano dove la sperimentazione autentica, in termini linguistici, non esiste. Invece in Puccini sì, in Puccini esiste, nei limiti di un uomo che è nato nel 1858, dunque ancora col retaggio ottocentesco ben vivo nella mente. Non so se Debussy fosse vissuto di più sarebbe andato più avanti, Ravel invece si è fermato, in maniera meravigliosa peraltro, quindi la questione della sperimentazione nell’inizio del Novecento e dintorni è un po’ complessa e difficile da trattare in due parole.

Lorenzo Papacci

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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