Guardare l’opera: “Un ballo in maschera” di Verdi

“Un ballo in maschera” è la ventitreesima opera di Verdi. Forse pochi lavori hanno avuto la stessa travagliata storia, potremmo dire che quest’opera fu il Calvario di Giuseppe Verdi. Un Calvario, però, da cui egli uscì trionfante, sia nel confronti del pubblico che della censura e, solo poi, della critica.

 

Autore: Lorenzo Papacci

16 Ottobre 2016

Nel 1856, aveva preso accordi con il San Carlo di Napoli per un’opera. Inizialmente voleva rappresentare un “Re Lear”, ma dovette rinunciarvi perché giudicava i cantanti come inadeguati, scrisse :” a eccezione di Coletti, nessuno sarebbe a posto”. La questione andò per le lunghe, tanto che il contratto fu firmato solo nel Febbraio dell’anno successivo, per un soggetto nuovo.

“Un ballo in maschera” è ispirato al dramma “Gustave III, ou  Le bal masqué” di Eugène Scribe, che portava avanti in teatro l’idea della “pièce bien faite”. Questo si rifaceva ai fatti dell’omicidio del re di Svezia avvenuto nel 1792 ed era stato già musicato  nel ’33 da Auber, poi nel ’41 da Gabussi e infine nel ’43 da Mercadante, quindi non era affatto un novità per l’opera. Il libretto gli piaceva molto lo definì “grandioso, vasto e bello”, ma da subito ebbe problemi con la censura borbonica. Già in “Rigoletto” il tema del regicidio era stato un grosso ostacolo che col “Ballo” si ripresentò. Oltretutto il re nella storia non dava prova di rettitudine portando avanti una relazione clandestina e nella situazione politica di allora, da poco Ferdinando II aveva subito un attentato, era sconsigliabile portare in scena questa storia.

http://www.youtube.com/watch?v=5UWdLPoZuYk

Bisognava portare la scena nel passato, all’epoca precristiana o al Medioevo, senza ambientarla in Svezia o Norvegia per evitare che si potessero fare paralleli col presente. Verdi si  impose affinché l’opera fosse ambientata in un’ epoca con una fiorita cultura cortigiana, difendendo con vigore il libretto e scrivendo nella sua difesa:“-Per un dì si folleggi e si scherzi! – versi veramente mirabili in bocca d’un severo capo di parte guelfa!”Egli giudicava il Medioevo troppo crudo per personaggi come Riccardo e Oscar che erano modellati su una raffinatezza francese. Quindi si mutò il titolo in “Una vendetta in domino”, ma il compositore la spuntò sul periodo storico portando la vicenda al ‘600. Quando però Verdi presentò il libretto, anche Napoleone III aveva subito un attentato e la censura impose altri cambiamenti: le scene di congiura e il regicidio in piena scena dovevano sparire. Amelia, poi, non poteva essere la moglie di Renato perché destava troppo scandalo la relazione del re con la consorte del suo servitore più fidato, doveva diventare sua sorella, senza contare che il re doveva diventare un nobile di grado più basso. Verdi scrisse a Somma :”Come supporrete questi cambiamenti non possono accettarsi; quindi non più l’opera!” Il San Carlo aveva ingaggiato un librettista per riscrivere integralmente il libretto con il titolo: “Adelia degli Adimari”, ambientato nel ‘300 a Firenze. Dopo questo episodio Verdi preferì dare l’opera al Teatro Apollo di Roma dove era reduce dall’enorme successo del “Trovatore”. Il San Carlo non fece attendere una causa (che perse) ai danni di Verdi con il quale poi chiuse definitivamente il rapporto professionale (Verdi citò il teatro napoletano per danni). Somma questa volta rispetto all’originale, spostò solo la scena dalla Svezia a Boston, ampliò la scena antecedente il ballo in maschera e fece diventare Riccardo un conte per rispettare le richieste dell’impresario romano Jacovacci e del Vaticano.

La prima ci fu il 17 Febbraio 1859 col titolo “Un ballo in maschera” e fu un grande successo di pubblico ma non di critica. Proprio dopo la prima romana si vuole che per le strade si urlasse e si scrivesse sui muri :”Viva V.E.R.D.I.!” (Acronimo per “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia!”). E’ significativo che questo accadesse proprio dopo quest’opera e dopo ci soffermeremo sul perché. Gli interpreti maschili (Fraschini per Riccardo e Giraldoni per Renato) furono molto apprezzati, però l’impresario non poté trovare interpreti femminili veramente all’altezza. Alle lamentele di Verdi, Jacovacci rispose che il teatro era pieno tutte le sere e che l’anno seguente gli avrebbe fornito anche delle cantanti adeguate. La fortuna di quest’opera nell ‘800 fu grande e solo ai primi del ‘900 fu criticata per i suoi elementi frivoli, oggi la si ritiene giustamente tra le migliori del “cigno di Busseto”. Ancora oggi viene rappresentata sia nella versione con il re Gustavo di Svezia, che in quella con il conte Riccardo di Warwick. E’ significativo dire che Verdi non vide mai la versione con Gustavo (che è quella originale ovviamente), ma non si spese per far sì che questa venisse riabilitata, quindi in qualche modo la vedeva come una questione ormai chiusa.

https://www.youtube.com/watch?v=y8bbG0AAsSc

Nel I atto ci troviamo a Boston, corte del conte Riccardo di Warwich, al governatore porgono omaggio i suoi dignitari. Riccardo guarda la lista dei partecipanti al prossimo ballo in maschera e gioisce nel vedere il nome di Amelia, scopriamo che è innamorato di questa che è la moglie di Renato, il suo fidato consigliere. Renato mette al corrente il conte di una congiura ai suoi danni che stanno tramando alcuni nobili, Riccardo non ci da molto peso. Viene portato un atto di condanna per una maga che Riccardo rifiuta di far eseguire mostrandosi benevolo, anzi, vuole andare a conoscere questa Ulrica di cui il paggio Oscar canta le lodi. Nel secondo quadro del primo atto ci troviamo nella capanna della maga Ulrica dove molti attendono il suo vaticinio, Riccardo è travestito da pescatore, c’è anche Amelia che chiede alla maga come può sottrarsi a un amore illecito. La maga le dice di cogliere un’erba magica e questa corre al posto che le viene indicato. Riccardo vorrebbe seguirla ma poi va a consultare Ulrica sul suo destino, questa gli prospetta che verrà assassinato da colui a cui stringerà per primo la mano. Riccardo non ci presta attenzione e porge la mano a Renato, che arrivando svela l’identità del conte.

Nell II atto siamo in un “orrido campo”, Amelia sta cercando l’erba che la salverà dalla passione, arriva Riccardo che cerca invece una promessa d’amore, questa dapprima cerca di frenarsi ma poi ammette di ricambiarlo. Si avvicina un uomo che si scopre essere Renato, Amelia subito si copre il volto, Renato vuole avvertire Riccardo che il complotto ai danni del conte si sta per attuare. Si offre di accompagnare la donna in città e consiglia al suo signore la fuga. I congiurati entrano e per errore assaltano Renato che viene difeso da Amelia alla quale cade il velo, tra lo stupore generale, Renato scopre il tradimento, si schiera con i congiurati che ridono e li convoca nella sua casa.

Nel III atto, a casa di Renato, questi si scaglia contro la moglie, che dovrà espiare la pena con la morte, e contro il suo signore che lo ha tradito. Con i congiurati decide che il ballo in maschera sarà un’ottima occasione per uccidere il re. Nel secondo quadro Riccardo, nel suo studio, mosso dal rimorso e dall’amicizia nei confronti di Renato, dispone il suo trasferimento in Inghilterra insieme alla moglie. Amelia invia un messaggio a Riccardo per avvertirlo dei piani del marito per il ballo, questo non le riesce e quando vede Riccardo al ballo tenta ancora di farlo fuggire ma Renato lo accoltella, lasciando a Riccardo solo il tempo di perdonare il suo assassino.

Siamo in una fase di acquisita maturità ormai per Verdi. Qui gli elementi lirici italiani si sposano meravigliosamente con degli stilemi tipici del gusto francese che si erano affermati in maniera chiara ne “I vespri siciliani” (ma già tracce, quasi fascinose, le abbiamo in opere come “La battaglia di Legnano”), ma più che a un grand opéra, l’opera è associabile al teatro di vaudeville.  Parliamo della resa elegante della conversazione che non finisce nella contemplazione, di una strumentazione flessibile che si fa, quando occorre, delicata, molto agile e non gioca sul vigore ma sulla leggerezza e la vivacità, come nel quartetto del II atto con le risa dei congiurati. “Un ballo in maschera”, per quel momento, rappresenta un apice di eleganza raggiunto da Verdi.

Vi è in quest’opera una mescolanza di registri che vengono accostati, dal patetico, all’amoroso e al comico, fino ad arrivare a toccare il sacro prima della morte di Riccardo accompagnata dall’arpa. Questo accade anche nella resa dei personaggi , qui Verdi appare come un intellettuale che, contrariamente al suo dire, guarda ben al di là della provincia. Bortolotto l’ha giudicata come l’opera più mondana, con una festa attesa per tutta l’opera, di un compositore che mondano non fu mai :”Mai come in quest’opera … il gioco dei casi prevale sulle intenzioni e le volontà dei personaggi … le figure sceniche, gli eventi drammatici sono qui trattati come carte da gioco, ma senza mai arrivare a scoprirsi per tali.”

La componente amorosa ha fatto dire a Massimo Mila che “Un ballo in maschera” è il “Tristan” italiano, è vero che per una volta l’amore viene messo al centro del dramma da Verdi (un amore impossibile e disperato come quello di Tristano). Anche nella sua fonte l’ambientazione storica era solo cornice di un amore (qui avrà comunque una forte valenza). Eros e divertimento frivolo sono le due forze fondamentali dell’opera : nel duetto d’amore, forse il più vigoroso di Verdi, tutto poi si muta in una scena da commedia. Questo veloce cambio di registro riporta quasi ad un gusto barocco. E vediamo quindi Amelia che riconosce il marito su un accordo di settima diminuita, in una scena cupa e grottesca e poi i congiurati che portano la scena sul comico con le parole “e che baccano sul caso strano e che commenti per la città!”. Va notato, fra l’altro, che il duetto è uno dei pochi momenti con una marcata struttura “all’italiana”, con la cabaletta finale di Riccardo “Oh, qual soave brivido” che è la sintesi sentimentale di tutta la scena.

I personaggi di quest’opera esulano da quello che finora è stato il modello verdiano: come abbiamo già detto questi congiurati portano la scena sul comico con un tema musicale molto semplice che è chiaramente ridereccio. I cospiratori in Verdi erano solitamente invece degli eroi che infiammavano il pubblico, egli creava dei personaggi chiaramente mazziniani e vedeva la rivoluzione come un qualcosa che da un lato poteva essere eroico : perché questi personaggi sono così frivoli? La risposta possiamo trovarla negli eventi storici infatti, tra il ’53 e il ’56 ogni spedizione rivoluzionaria (come quella, ben nota, di Pisacane) fallisce. Nel ’57 Daniele Manin, che già era stato presidente della Repubblica veneta nel ’48, fonda la Società Nazionale Italiana che era filomonarchica. Il librettista Somma era fortemente legato a Manin e già da qui c’è una spiegazione plausibile al carattere dei congiurati che cospirano per vendetta personale e non per un ideale. Musicalmente Verdi caratterizza Samuel e Tom con un cupo canone e non con una bella melodia (come aveva fatto in altre opere).

A conferma di questa idea troviamo il conte Riccardo, che doveva essere un re democratico infatti il suo popolo lo veglia in “Posa in pace” e si sente che questi è felice, lo dice la musica calda di fagotti, clarinetti, viole e violoncelli. Riccardo è un personaggio positivo, acceso d’ardore, è clemente coi suoi sudditi, si beffa delle congiure e delle profezie. Infatti, l’oscura maga Ulrica, pensata per una vocalità scura, con una linea melodica lenta, accompagnata da strumenti profondi e dai registri gravi è legata al mondo magico, fa breccia nei cuori superstiziosi e Riccardo la mette in ridicolo. Oltre a ciò questo personaggio è attanagliato dai rimorsi per aver tradito la fiducia del suo amico, egli sa che i patti vanno mantenuti, la fiducia e la ragione di stato sono sacre. Anche se questo nobile ha una relazione segreta non è paragonabile a un Duca di Mantova, egli è mosso da un sentimento vero verso Amelia e quando sa che dovrà abbandonarla le sue sono parole di dolore :”Ma se m’è forza perderti/ per sempre, o luce mia,/ a te verrà il mio palpito/ sotto qual ciel tu sia,/ chiusa la tua memoria/ nell’intimo del cor”. Non c’è un dongiovannesco: “alla mia lista/ doman mattina/ d’una decina/ devi aumentar”, questo perché in quel periodo, se vogliamo dare per buona questa visione, la Società Nazionale Italiana stava facendo un’operazione di immagine su Vittorio Emanuele II, dipingendolo più o meno con gli stessi tratti. Quanto Verdi credesse in tutto ciò è impossibile saperlo, ma è significativo il cambio di visione che c’è in quest’opera che è più attinente a un “Risorgimento monarchico”, piuttosto che al precedente “Risorgimento rivoluzionario”, che motiverebbe anche le scritte “Viva V.E.R.D.I.!”.

Ricorre invece al responso della maga, Amelia: questa è chiaramente una pedina, che distrutta dalle sue passioni, si ritrova ad essere impotente sul proprio destino, quando va da Ulrica lo fa perché non ha altra soluzione, è disperata. Verdi la accompagna col corno inglese, che sempre nel suo teatro aveva segnato dei personaggi distrutti e soli (basti pensare ad Abigaille), la sua sofferenza non ha uscite e il suo canto è spezzato, tragico, segnato da grandi intervalli. Fin qui abbiamo visto dei personaggi segnati dopotutto da una certa fissità e sono, in qualche modo, sempre coerenti, questo discorso non vale per Renato. Renato è legatissimo a Riccardo, nella sua prima aria gli dice: “te perduto, ov’è la patria/ col suo splendido avvenir?”. Tutto questo muta con lo smascheramento del tradimento e la seconda aria (“Eri tu che macchiavi quell’anima”) sarà segnata dall’odio verso Riccardo, che ha disonorato la moglie il cui ricordo traspare con la linea del flauto e dell’arpa, ma tutto è ormai infranto e irrisolvibile per Renato che con quest’aria, segnata da accordi cupi ribattuti dagli archi e segnati dagli ottoni, non lascia più spazio alla clemenza. La sua delusione appare nelle parole: “ Traditor! Che compensi in tal guisa/ dell’amico tuo primo la fé”.

Baldini ha visto come, inaspettatamente, nella storia il perno sia Oscar, un secondario paggio interpretato da un soprano, un ruolo “archeologico” per così dire, che rimanda molto al Cherubino mozartiano. Questo svela a Renato la maschera di Riccardo durante il ballo (“Veste una cappa nera/ con roseo nastro al petto”), Oscar è manovrato ma centrale, perché è un personaggio mediano che sta fra l’eros e il gioco, è simbolo di quella leggerezza musicale che Verdi prende dalla tradizione francese, la sua parte è molto semplice musicalmente ma ha una vocalità e un contesto strumentale molto brillanti.

In quest’opera si apre anche una tematica che sarà una costante in Verdi: la vicinanza tra il tragico e il comico. Questa è la sintesi stessa della vita, che vicino a momenti comici ne pone alcuni tragici e viceversa, questa visione, piuttosto cupa, andrà avanti sempre nel teatro verdiano e accentuerà la concezione della vita fatta di chiaroscuri inscindibili. Vediamo quindi questa scena finale festosa che invece si conclude con un omicidio, che però ha un perdono come colpo di scena, forse in quello è ravvisabile la speranza che la vita che vuole rappresentare non sia fatta solo di sofferenze e non possiamo non pensare qui a Shakespeare, grande ispiratore di Verdi, che appare tra le righe.

Lorenzo Papacci

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Articoli correlati