La regia lirica

secondo Cesare Scarton

Autore: Silvia D'Anzelmo

3 Novembre 2019
In occasione del Reate Festival abbiamo incontrato il regista Cesare Scarton. Da sempre attento alla formazione di giovani cantanti, Scarton identifica la regia lirica come qualcosa di dinamico ma senza troppi lazzi e frivolezze. Il segreto dei suoi spettacoli? Insegnare ai cantanti come essere anche attori.

Scarton

Molte delle sue regie hanno come protagonisti giovani cantanti. Com’è lavorare con professionisti alle prime armi?
A me piace molto lavorare con i giovani, ho avuto molte esperienze con loro: il mio lavoro all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, per esempio. Ho anche lavorato con cantanti esperti ma, sicuramente, il lavoro con i ragazzi è quello che mi interessa di più. Ci sono vantaggi e svantaggi. I giovani si mettono totalmente a disposizione del regista e si può quindi arrivare a risultati davvero eccellenti. In compenso, però, sono alle prime armi e si nota subito chi ha maggior talento e chi meno. Un professionista esperto, invece, può aver cominciato in un certo modo la sua carriera per poi evolvere la propria personalità artistica e scenica; mentre i ragazzi non hanno ancora avuto il tempo per farlo. Questo rende più difficile portare avanti uno spettacolo in maniera equilibrata ma la cosa importante è che, lavorando bene, si può far uscire il meglio da tutti. Di sicuro la mia responsabilità è quella di guidarli nel modo giusto.

Le sue regie lasciano una grande libertà ai movimenti scenici mantenendo però un livello altissimo nella recitazione e nel canto. Come imposta il lavoro per riuscire ad arrivare a questi risultati?
Un cantante oggi deve essere necessariamente anche attore. Ovviamente la cosa indispensabile è che abbia una buona vocalità e una grande musicalità perché è di teatro musicale stiamo parlando: il cantante deve saper seguire le indicazioni del direttore d’orchestra, studiare e tenere a mente una parte che spesso non è semplice. Detto questo, un cantante che riesce anche a recitare bene è una cosa magnifica, oltre a essere diventato requisito praticamente indispensabile. E non sono io a dirlo, è il mercato: se nel melodramma serio la staticità può ancora reggere, nelle commedie la cosa non è assolutamente possibile. Ultimamente anche nell’opera seria si sta cercando di portare questo indirizzo dando maggiore enfasi alla scenografia, alle luci, ai figuranti senza toccare la parte dei cantanti. È difficile, infatti, che un artista già consolidato accetti di cambiare il suo modo di stare in palcoscenico, oppure cerca di farlo ma il tempo a disposizione per le prove è troppo poco. Ecco, questo a me non piace anzi non interessa minimamente. La prima cosa che si dovrebbe fare quando si imposta una nuova opera musicale è curare la recitazione dei cantanti: prima delle scenografie, dei costumi, di qualsiasi altra cosa. Occorre anche avere come compagno di viaggio un direttore d’orchestra di una certa intelligenza e lungimiranza. Dico sempre che il direttore dovrebbe essere un uomo di teatro e il regista un musicista o quantomeno una persona molto musicale che capisca le ragioni della musica oltreché del teatro (senza esserne troppo condizionato, ovviamente). Questo perché l’andamento di una regia lirica deve seguire la musica, non certamente il testo. Nella partitura il compositore ha già inglobato la drammaturgia della parola.

Quest’anno il Reate Festival è stato inaugurato dall’Empio punito di Alessandro Melani. Come ha scelto quest’opera?
Io ho un grande interesse per il barocco, infatti, ho lavorato diverse volte su questo repertorio. L’idea di mettere in scena l’Empio punito nasce l’anno scorso quando abbiamo portato a Roma, per la prima volta in assoluto, il Ritorno di Ulisse in Patria di Claudio Monteverdi. Dopo quello spettacolo che ha avuto un grandissimo successo, occorreva scegliere un titolo che avesse qualche elemento di curiosità per il pubblico. Alla fine abbiamo optato per l’Empio punito, un lavoro sconosciuto ma che, al tempo stesso, ha una grande risonanza nei tanti Don Giovanni che sono venuti dopo, sia nel teatro di parola che musicale. È uno degli archetipi della nostra cultura. E Quello di Melani è il primo messo in musica. Un’opera studiata nei conservatori e nelle università ma mai eseguita ai giorni nostri: mi sembrava un’occasione da non perdere! Inoltre, questa operazione fa parte di un mio preciso intento: portare a Roma, città barocca per eccellenza, l’opera del seicento. Il barocco, infatti, ha bisogno di spazi particolari ed è per questo che abbiamo scelto il Teatro di Villa Torlonia che, oltre a essere magnifico, permette una grande vicinanza tra pubblico, cantanti e orchestra. In sostanza: la decisione di mettere in scena l’Empio punito di Melani è nata da lontano e da diversi stimoli. Abbiamo, inoltre, curato una serie di conferenze in collaborazione con le università di Roma per introdurre quest’opera così poco conosciuta presso il grande pubblico.

La sua affinità con il repertorio barocco ha a che fare con una maggiore libertà nell’impostazione della regia?
Come ho già detto, a me piace lavorare con i giovani e a loro bisogna dare il repertorio giusto. Verdi, Wagner non sono adatti per cantanti alle prime armi perché vanno affrontati con una tecnica ferrea, altrimenti ci si rovina. Al contrario, il barocco è un banco di prova perfetto per i ragazzi anche se tra il recitar cantando e il belcanto non c’è poi tutta questa distanza: l’uno confluisce nell’altro. La musica barocca dà una grandissima importanza alla parola e abituare i cantanti a sapere e comunicare chiaramente quello che si sta cantando è una prova straordinaria. Per quanto riguarda i miei gusti personali, a me piace tutto il repertorio, amo moltissimo il novecento e la musica contemporanea. Per me, la cosa più bella è quella che si sta facendo in quel momento, io ragiono in questo modo. Mentre lavoravamo sull’Empio, la mia opera preferita era quella. Bisogna amare quello che si fa altrimenti non è possibile lavorare serenamente. Certo, con il barocco mi trovo molto a mio agio (Monteverdi è uno degli autori che amo di più in assoluto). Questo perché l’opera del seicento non ha ancora le forme chiuse che svilupperà nel settecento: la musica si coagula intorno al teso, si plasma su di esso. Nel settecento, invece, la struttura musicale impone se stessa: faccio l’esempio dell’aria con da capo, musicalmente straordinaria ma difficile da trattare a livello registico per le sue ripetizioni. Con il barocco è come se ci fosse un copione, è un vero e proprio recitar cantando come loro stessi dicevano. Una cosa simile accade nel novecento quando tutte le forme della grande tradizione ottocentesca saltano completamente: non c’è più una divisione netta tra aria e recitativo, musica e testo tornano a seguire un flusso continuo. Ecco perché amo particolarmente questo tipo di repertori.

Lei è il Direttore Artistico del Reate Festival. Le va di parlarmi di quale indirizzo avete deciso di dare a questo progetto?
Da sempre il Reate Festival ha avuto un programma abbastanza eclettico. Abbiamo scelto di rappresentare una nuova opera per ogni edizione. Ovviamente non abbiamo mai affrontato lavori di repertorio perché possono farlo molto meglio di noi i teatri lirici (per questione di mezzi, attrezzature e molto altro). Abbiamo allora deciso di  orientati su opere come il Barbiere di Siviglia di Paisiello, Nino Rota, Melani: tutti lavori che nei teatri lirici non sono molto presenti. Certamente sono titoli un po’ ricercati ma l’entusiasmo che c’è stato a Roma per Monteverdi e Melani mi ha molto confortato: è stato un vero e proprio avvenimento! C’è poi da dire che Rieti è una città meravigliosa per le sue chiese, i due auditori con i loro organi, il teatro Flavio Vespasiano. Di spazi per la musica ce ne sono moltissimi e il Reate Festival ha il compito di valorizzarli per portare avanti la cultura musicale della città. L’aggancio con Roma è stato indispensabile per catturare un’attenzione più vasta, abbiamo commissionato delle prime esecuzioni, collaborato con tutte le istituzioni musicali romane: il teatro dell’opera, l’Accademia di Santa Cecilia, la Filarmonica Romana, Nuova Consonanza. Abbiamo cercato di avvicinarci a tutti loro e siamo riusciti a far uscire questo festival da una dimensione localistica. Ma il Reate Festival aveva bisogno anche di un pubblico e lo abbiamo individuato nei giovani. Abbiamo avviato rapporti con le scuole, con il liceo musicale, il conservatorio e i ragazzi hanno risposto con grande curiosità. In effetti questo è un festival per i giovani ma fatto anche da giovani. Dal 2016, infatti, abbiamo creato la Reate Orchestra che ha eseguito Paisiello e Rota. Mentre dall’anno scorso abbiamo istituito il Reate Festival Baroque Ensemble che si è dedicato a Monteverdi e Melani. Sono tutti ragazzi al di sotto dei 35 anni, così come nel caso della compagnia di canto. Questa è la cosa per me davvero importante: coinvolgere i giovani non solo passivamente ma come protagonisti assoluti, capaci di mettersi in gioco con passione e talento.

Silvia D’Anzelmo

 

Foto prese dalla pagina FB del Reate Festival

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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