Nuove strade

a colloquio con Emanuele Savagnone

Autore: Matteo Macinanti

30 Ottobre 2019

In occasione dell’appuntamento del Reate Festival interamente dedicato alle sue musiche, Emanuele Savagnone ci ha concesso questa lunga intervista. Tanti i temi affrontati: contemporaneità, musica e società, rapporto con il pubblico e altri argomenti legati al mondo dell’arte.
Classe 1997, Emanuele Savagnone si è diplomato in Composizione al Conservatorio Santa Cecilia di Roma e al momento vive in Germania dove sta perfezionando i suoi studi con Sidney Corbett.
È dalle parti della Sapienza che ci siamo incontrati, la stessa università in cui Savagnone studia Lettere Classiche.
Savagnone

©Alex Giagnoli

In un’epoca in cui, si dice, assistiamo alla fine delle grandi narrazioni e della Storia intesa come percorso unico, qual è il tuo rapporto con il passato storico e cosa c’entra con il tuo lavoro di compositore?

Il mio rapporto con la Storia è profondo e radicato in me perché, essendo nato in una famiglia di musicisti, ho ascoltato da sempre musica classica, e già da piccolo ho ammirato i grandi del passato immaginando di poter creare un giorno qualcosa di simile. Conosco tanti compositori che fanno un lavoro eccellente avendo in mente altri modelli e riferimenti – rock, pop, musica leggera, generi che comunque ascolto volentieri; per me invece  il passato storico della musica ha un ruolo personale e si manifesta in molte forme. Sai che sono studente di lettere classiche… Sono molto appassionato all’antichità sia in forma filologica – ossia mi piace prendere ispirazione da testi classici – che in forma immaginifica: a volte immagino passati o futuri remoti in un modo speculativo, sganciato dalla storia.
Si possono fare diverse riflessioni: è fortunato chi si avvicina alla musica colta già dall’infanzia, ma non ci sono solo vantaggi. Manca quel distacco che è comunque necessario per recepire la lezione dei grandi del passato.

Una caratteristica dello scenario musicale odierno è la pluralità di voci differenti. Come ti orienti nel dedalo dei linguaggi artistici contemporanei?

Questa varietà delle voci in verità esiste da sempre, sicuramente già dal ‘900. Penso alle diverse correnti come lo spettralismo, la serialità, l’America di Allen Forte. Le voci in Europa e nel mondo sono sempre state numerose. In Italia ho l’impressione che l’intendimento della musica contemporanea sia rimasto particolarmente al mondo del serialismo integrale, che ormai è solo una corrente storica e che in Italia è stata decisamente invasiva.
Proprio recentemente nella mia classe a Mannheim è sorta una discussione con Sidney Corbett sullo spettralismo e su altre correnti degli anni ’70-’80. Esteticamente parlando, mi ritengo un avversario della dodecafonia e in classe ho assunto posizioni polemiche contro Nono, Boulez; la risposta di Corbett è stata: “Su alcune cose hai ragione, ma mi intristisce vedere come tu, come alcuni altri giovani compositori, mostriate una sorta di fobia violenta nei confronti di certi orientamenti quali la serialità integrale che, per me che le ho vissuti, si situano già in un passato storico e che personalmente mi sento di guardare con meno livore e più distacco”.

È profondamente scorretto chiedere ad un compositore di autodefinirsi. Ma che direzione ha la tua musica? Come scrive musica un compositore nei – quasi – anni Venti del Duemila? Anni in cui c’è chi parla di nuovo Umanesimo, nuova Modernità, Neo-Neorealismo, e addirittura di Postumanesimo.

La frammentazione estetica che contraddistingue la nostra epoca non mi permette di dare una risposta semplice. Per quanto mi riguarda, mi riconosco nella definizione di umanista e, se posso permettermi, addirittura di umanista rinascimentale. Questo concetto guida molto di quello che faccio. Mi osservo accanto a compositori che sono quasi scienziati, esperti di algoritmi, di composizione automatica, di musica elettronica. Ecco, è in rapporto a loro che mi sento un umanista. Anche in virtù di un mio senso della vita e del mondo, ho sempre ammirato la fusione di arte, scienze, umanesimo, scienze sacre… sono sempre stato appassionato di metafisica antica, di sezione aurea, di come la quadratura del cerchio tra arti e scienze possa avvenire in un senso che secondo me si è realizzato bene nell’umanesimo italiano. Forse la definizione di compositore umanista mi piace.

Da buon umanista, qual è il tuo rapporto con la scrittura verbale?

Scrivo spesso e volentieri poesie che non pubblico e faccio leggere ai miei amici ogni tanto. Per me il rapporto con la scrittura verbale è molto importante perché, essendo un linguaggio molto più istintivo e assiduo di quello musicale, è meno soggetto al condizionamento estetico. Per me, come compositore, è importante prima di ogni pezzo definire a parole le mie intenzioni. Come un diario, una mappa su cui poter esplicitare su carta le mie intenzioni estetiche dal generale al particolare: l’obiettivo artistico di un certo momento della mia vita artistica, fino alla scelta dei singoli suoni e ritmi, anche in base a letture e ispirazioni, riferimenti storici e autoriali.

Il fatto che tu scriva e spieghi la tua musica presuppone che ci sia un destinatario. Com’è il tuo rapporto con il pubblico?

Il lavoro pre-compositivo – questi diari di cui ti parlavo – in realtà sono del tutto privati, e servono a spiegare a me stesso le mie intenzioni artistiche. Sono scritti in un linguaggio gergale, come un diario privato appunto. Per quanto riguarda il mio rapporto con il pubblico penso sia in buona salute. Non ho mai avvertito il bisogno di scrivere per giustificare delle scelte. Scrivere note di sala e parlare con gli altri della mia musica lo faccio molto volentieri, anche se non sempre mi risulta facile. Per me il problema è il contrario: da italiano parto da una situazione personale e socioculturale di grande vicinanza alla storia. Rapporto che manca nei paesi nordici dove la proiezione è più rivolta al futuro. Perciò più che recuperare un rapporto col pubblico, che invece non è difficile costruire proprio perché la mia musica contiene ancora molti modelli e ispirazioni storici, per me ora è più importante sganciarmi di più e trovare delle soluzioni che siano ancora più personali.

Entrando nel vivo della musica: l’ascolto delle tue composizioni suggerisce di definire la tua scrittura come una “musica dell’attesa”. Mi spiego: non si avvertono grandi affermazioni categoriche o proposizioni che si impongono. Sembrerebbe appartenere ad una sfera più intima, notturna e onirica, in attesa di qualcosa…

È interessante che il termine “attesa” sia il frutto di un postulato discorsivo e consequenziale. In verità il mio punto di vista è improntato al gusto per la sospensione come prodotto della temporalità e dell’eternità. Anche altre persone, tra cui amici digiuni di musica, mi hanno detto che nei miei brani si ravvisa un senso di attesa o di preludio. In realtà è un’idea che non ho mai in mente, mentre invece sono stato sempre affascinato dalla musica sospesa e senza tempo. In tutta onestà devo dire che il lavoro sul senso del tempo toglie la necessità di risolvere dei problemi strutturali di linguaggio musicale e aggira problemi di costruzione. A ciò è accomunato anche il mio grande interesse per la musica sacra meditativa. Ad esempio sono un grande amante di Górecki perché penso che la sua grande semplicità abbia dei contenuti espressivi e metamusicali molto forti. Altri compositori che invece possono spiegare tanto sulla carta e sull’aspetto tecnico poi a volte presentano una certa aridità di espressione. La complessità manifatturiera della musica non è legata ai contenuti intrinseci.

Tu hai un grande merito. Sei, penso, la prima persona che è riuscita a portare la musica contemporanea, veramente contemporanea, all’interno della sede più importante della comunità politica, vale a dire la camera dei deputati. Qual è il tuo rapporto di artista e compositore con la società e con il valore sociale dell’arte?

Questa è veramente una domanda complessa. L’artista in generale ha un ruolo imprescindibile di grande responsabilità. La ricerca di ogni tipo – artistica, scientifica, del pensiero – è il vero upgrade della società. La cultura in generale è un nutrimento e io per me sento la responsabilità come se fossi l’anello di una catena. Se c’è un appello sociale che mi sento di fare è che la ricerca di tutti i tipi vada supportata senza se e senza ma. Se in certe parti del mondo la musica contemporanea è tanto viva e in salute e perché la volontà dei governi è quella di finanziarla a priori, in una logica sganciata da quella del mercato. Un’altra grande responsabilità dell’artista è di fare proposte alla società e non limitarsi a cavalcare la pancia degli ascoltatori. Anche perché la società potrebbe semplicemente non aver ancora visto delle opportunità di rinnovamento scientifico, artistico, culturale…

Tu vivi all’estero. Cosa ti ha dato la Germania?

La Germania mi ha dato una grande solidità personale. È un paese nel quale la figura dello studente è molto rispettata e presa in considerazione, e le opportunità di vita sono democratiche: qualunque artista valido è accettato dalla società che, a sua volta, non è discriminatrice ed è aperta e accogliente verso l’esterno. Il volume di attività artistica è immenso e così anche l’interazione nel tessuto sociale e collettivo e il “transito” di artisti e compositori importanti, anche in una città non metropolitana come Mannheim. Io credo che l’Italia abbia il potenziale per avvicinarsi a questo. Forse tornerei, magari non subito. Mi piacerebbe un giorno contribuire e partecipare a questo grande progetto di ripresa della ricerca artistica. Se il nostro governo facesse rientrare tanti cervelli disposti a tornare qui per muovere questo Paese, penso che l’Italia potrebbe fare grandi cose nel giro di dieci, venti anni.

Per quanto riguarda le nuove generazioni, come racconteresti ad un ragazzo poco più giovane di te la tua ricerca artistica?

Parlerei della mia vita, di cosa mi ha portato dove sono adesso e, riguardo alla mia musica, parlerei di alcuni problemi che sono importanti per un compositore – viaggiare, studiare all’estero. Poi parlerei di problemi prettamente musicali: l’ascolto, il tempo, la sospensione, l’architettura musicale, i modi di creare contrasto nella musica, l’ispirazione, del rapporto che noi artisti italiani abbiamo con l’antichità.
Un rapporto del tutto personale: qui a Roma usciamo e andiamo a bere qualcosa al Colosseo.
Nel nostro stesso modo di fare, parlare ed esprimerci c’è tantissimo che ha dei fondamenti lontani nel tempo. Più di quanto non ci sia negli altri Paesi d’Europa.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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