«Parlare di musica è un insulto»

Intervista ad Arcadij Volodos

Autore: Alessandro Tommasi

25 Settembre 2019
 


Intervisto Arcadij Volodos il 3 agosto a La Roque d’Anthéron, celebre Festival Pianistico immerso nella Provenza. La sera precedente Volodos ha dato un recital solistico al Parc du Florans, in un’atmosfera di surreale silenzio e religiosa attenzione. Quando lo incontro il giorno dopo, in un albergo immerso nel verde, Volodos sembra non sia mai sceso dal palco, la concentrazione è ancora la stessa. Iniziamo l’intervista, ma ben presto sono costretto a rivedere completamente il percorso inizialmente pensato per la nostra conversazione. Non è semplice intervistare Volodos: il suo rifiuto a parlare di musica cozza con la sua volontà di dare un’intervista, le risposte sono secche ma non tagliano corto il discorso, è presente ma non si piega alla tua curiosità. Arcadij Volodos ti lancia una sorta di sfida, di quelle senza guanti o provocazioni. È come una nuda parete di roccia che sta, semplicemente. Se provi a scalarla non si sottrae, ma devi seguire le sue regole, regole che non sai: devi capire tu dove trovare i giusti appigli.

 

Maestro Volodos, volevo cominciare con la domanda più difficile: cosa significa suonare, per lei?

È complesso. Anche se volessi provare a descriverlo con abbondanza di parole, non ce la farei. È semplicemente la vita. La musica non è suonare il pianoforte. Per me la domanda giusta è cosa voglia dire essere musicista. E per me essere musicista non è una professione, è una vita. Ci sono nato e ci morirò. Non posso nemmeno pensarlo come ad un lavoro.

Non vi è un concetto di carriera, dunque.

Per niente. E ribadisco non è nemmeno una questione di suonare. È qualcosa di molto più profondo. Ti svegli la mattina e inizi già a pensare alla musica. Non hai bisogno di una tastiera. È un suono, un suono interiore. Si pensa attraverso la sonorità, con il suono che hai dentro di te.

E come può un musicista vivere in questo mondo?

Non è spiegabile.

Parliamo dunque del suo concerto di ieri. Lei ha suonato Schubert…

Sì, è uno dei compositori che ho suonato di più nella mia vita.

Perché?

Perché lo amo. C’è della musica che ho suonato e suonerò sempre. Schubert è uno dei compositori più importanti per me. Più volte mi hanno chiesto cosa sia per me Schubert, cosa sia per me Rachmaninov, cosa sia per me Liszt, cosa sia per me Brahms. Per me sono dio.

Tutti i compositori?

Sì, mentre suono per me il compositore è dio. Cos’è per me Rachmaninov? Rachmaninov è un dio.

Quindi l’interprete è una sorta di sacerdote?

Non ne ho idea. Non è spiegabile. Ma non è importante.

E qual è la cosa importante?

Non c’è una cosa importante, è una complessità enorme ed è un mistero come funzioni nell’insieme. Lavori per venti, trent’anni su un brano, su un autore e ancora non ne capisci nulla. È complesso.

Come può dunque un musicista approcciarsi al repertorio? Non si hanno sempre vent’anni per preparare un brano.

È un modo di vivere la musica. Penso che i grandi brani di Beethoven, Schubert, Mozart, Brahms non si possano comprendere mai veramente appieno. La nostra vita è troppo corta per poter comprendere davvero il genio assoluto della musica.

Però delle differenze si riescono a percepire: nella seconda parte del concerto ha suonato Rachmaninov e Skrjabin, due mondi distantissimi.

Molto lontani. Non c’è nulla in comune tra Skrjabin e Rachmaninov, sono due personalità completamente diverse.

Pur provenendo dagli stessi docenti.

Non c’entra. È la personalità del genio che conta, non altro, non la scuola. Il vero genio musicale trascende la scuola, è internazionale. La musica di Rachmaninov non si può dire che sia stata ispirata da Čajkovskij. Rachmaninov è Rachmaninov e Skrjabin è Skrjabin. Trovo le classificazioni nazionali assolutamente primitive.

Rendono più facile lo studio della storia!

Sì, ma le trovo superate.

E perché ha scelto di accostare questi due autori in seconda parte?

Ah, trovo particolarmente interessante suonarli vicini, proprio perché sono due mondi così distanti, crea un enorme contrasto all’interno nella seconda parte del concerto.

Vuole parlare di questi mondi?

Per me, parlare di musica è un insulto. Non posso spiegare la musica con le parole. Mi hanno chiesto molte volte «Cosa vuole dire di Schubert?». Ma ci sono grandi libri di musicologia che parlano di Schubert con migliaia di parole, parlarne così, in cinque minuti è un insulto.

Meglio suonarlo.

Molto meglio. La musica parla più di tante parole.

Questo rende il mio lavoro parecchio difficile!

Assolutamente sì, parlare della vita di un musicista e parlare di musica la rende primitiva. Non voglio umiliare la musica con le parole.

Volodos durante il suo concerto a La Roque d’Anthéron © Renaud Alouche

Parliamo dunque di qualcosa di più semplice e meno vasto: com’è suonare a La Roque d’Anthéron?

Sono diversi anni che vengo a suonare, ormai, ho iniziato che era il ’95 o ’96, non ricordo. Ci sono state diverse tappe che mi hanno portato a scoprire e comprendere sempre di più questa realtà. Passati vent’anni, posso dire che ogni musicista ha diverse tappe nel proprio rapporto con i luoghi in cui suona. La prima tappa è la scoperta. Dopo dieci o venti anni inizia la nostalgia. Suonare qui, oggi, dopo oltre ventuno o ventidue anni, mi riempie di nostalgia.

Nostalgia di cui è ricca anche la musica di Schubert e di Rachmaninov.

Ah certo, ma ne è ricca anche la vita reale. La vita passa in fretta, troppo in fretta. E la mia percezione della vita era diversa, quando ho cominciato, rispetto ad oggi.

Cosa crede che la aspetti nei prossimi anni?

La stessa cosa, credo. Suonare. Adesso penso di essere nella fase più soddisfacente della mia intera vita. Sono arrivato a quell’età in cui posso suonare ciò che voglio, quando voglio e dove voglio. E devo dire che così la mia vita è molto più semplice, dopo tanti anni di lavoro. Posso scegliere di suonare solo recital, con il repertorio che voglio, niente orchestre. È un grandissimo privilegio.

Ed è possibile essere un vero musicista costruendosi invece, parallelamente una carriera, suonando tutti i giorni?

Penso sia una cosa molto personale. Conosco molti fantastici musicisti che suonano duecento concerti all’anno. Io arrivo a massimo 40. Questo è il mio limite. Gli ultimi cinque anni ho suonato anche meno, perché ho avuto mia figlia e ho inciso un po’, quindi ho ridotto l’impegno concertistico. Ora mia figlia sta cominciando con la scuola, dunque posso aumentare un po’ il numero dei concerti. Ma ripeto, è personale, ci sono pianisti che fanno tre concerti all’anno e pianisti che ne fanno 200. Io sto a 40 e solo recital.

Perché niente orchestra?

Per molte ragioni. In primo luogo perché sono stanco di cercare ogni volta da zero la collaborazione con l’orchestra e il direttore. La seconda ragione è che credo che il colore specifico del pianoforte scompaia nell’orchestra. Diventa molto più limitato. La cosa più importante per me, poi, è che oggi il vero pubblico, quello che ama il pianoforte, viene ai recital, non è un abbonato della stagione sinfonica. Preferisco avere un pubblico più ristretto, ma più interessato al pianoforte. Il pubblico dell’orchestra è diverso.

Certo, cerca timbri e sonorità diversi…

No, è che l’orchestra va di moda. Ci sono tante persone che vengono ai concerti delle stagioni sinfoniche, ma sono lontanissimi dalla musica, per cui andare a concerto è un atto sociale, cui arrivi da una cena, magari di lavoro. Mentre quando si suona un recital, ci sarà pure meno gente, ma è un pubblico che arriva per ascoltare Schubert e nient’altro. Quello è il mio pubblico.

Alessandro Tommasi

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Alessandro Tommasi

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro. Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella. Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

Articoli correlati