Creare la tradizione

Martina Filjak al Festival Bartolomeo Cristofori

Autore: Silvia D'Anzelmo

24 Settembre 2019
Martina Filjak è una pianista dalle origini croate e dalle idee molto originali. La sua brillante immaginazione musicale l’ha portata a seguire percorsi inaspettati, alla scoperta di autori poco conosciuti dal grande pubblico. Protagonista della seconda serata del Festival Pianistico Bartolomeo Cristofori, l’abbiamo intervistata per sapere cosa ne pensa del tema ‘Creare la Tradizione’, scelto come fil rouge di questa seconda edizione.

 Lei è nata a Zagabria, in Croazia, una regione in cui diverse culture si contaminano tra loro. Che rapporto ha con la tradizione?

A dire la verità io mi sento molto europea. Ho studiato a Vienna, Amsterdam, in Italia, a Londra e ora vivo a Berlino. E in quanto europea tengo molto alla tradizione. Noi europei siamo tradizionali, orientati verso il nostro passato: sappiamo come valorizzarlo, come ricrearlo. La tradizione per noi è qualcosa di molto importante, fa parte delle nostre vite quotidiane ma questo non vuol dire che non sappiamo guardare al futuro. Anzi, probabilmente, il nostro modo di pensare al futuro nasce dalla custodia del nostro passato delle nostre tradizioni, non solo musicali. Se pensiamo all’Italia, alla Germania, alla Francia o anche alla Croazia, sono tutti paesi con un passato molto importante che ci permette di avere un retroterra comune, di riconoscerci come appartenenti a un’unica  grande tradizione.

Il tema del Festival Bartolomeo Cristofori di quest’anno non è semplicemente ‘la tradizione’ ma come si crea una tradizione. Lei, come interprete, crede di poter creare nuove tradizioni?

Credo che un interprete possa creare nuove tradizioni evitando quelli che sono i repertori oramai troppo conosciuti e logori. Bisogna poi evitare interpretazioni tradizionali per cercare di trovare sfumature, gesti che siano assolutamente personali e non codificati in modi di suonare standardizzati. Inoltre, quando un interprete comincia a conoscere vari autori dalle loro opere giovanili per finire con i grandi capolavori della maturità, si rende conto che le strutture e le forme musicali migrano dall’uno all’altro in maniera libera e imprevedibile. Questo vuol dire che c’è una certa conoscenza collettiva e condivisa, una tradizione che appartiene a tutti noi occidentali (in questo caso).

 Le va di parlarci del programma che ha scelto di eseguire per il Festival?

Certo. Il programma che ho scelto di eseguire gioca sugli intrecci di musiche diverse, composte per altri strumenti e poi trascritte per pianoforte. Abbiamo i Pièces de Clavecin di Jean-Philippe Rameau, la trascrizione di Franz Liszt del Preludio e Fuga in La minore che Johann Sebastian Bach aveva originariamente scritto per organo. Così come il brano di César Frack, tratto dai Six Pièces pour grand orgue.  Ma più di ogni altra cosa ho deciso di giocare con le idee di Liszt perché lo sento molto vicino a me: anche io viaggio gran parte dell’anno per esibirmi, mi sento al centro di una cultura cosmopolita proprio come lui. E adoro l’opera, la Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti così come il romanzo di Walter Scott. Quando ho scoperto che Liszt aveva scritto delle Reminiscenze sulla Lucia, ho deciso che avrebbero senz’altro fatto parte del mio repertorio. Insomma: c’è un filo che tiene tutto insieme anche se i brani e i vari autori scelto sono molto differenti tra di loro.

Le va di svelarci questa struttura interna che collega i vari brani? Immagino che abbia molto riflettuto sul tema della tradizione prima di scegliere.

Esatto! Ho discusso molto con gli organizzatori e con il direttore artistico prima di decidere quale programma portare a questo Festival. Il passato, la tradizione sono temi che, per me, si collegano anche all’evoluzione del pianoforte nella storia. Per questo ho deciso di inserire le opere di Rameau in apertura del concerto. Senza contare il fatto che mi piace molto la natura e brani come Le rappel des oiseaux sono capaci di evocarla in maniera straordinaria. Quella di Rameau, come Liszt del resto, è una scrittura onomatopeica. Se pensiamo alle Due Leggende di Liszt, per esempio, sono musiche metaforiche che riescono a dipingere davanti ai nostri occhi tutto ciò che sta accadendo: gli uccelli che cinguettano, la predicazione di San Francesco d’Assisi, così come l’acqua sulla quale cammina l’altro Santo, Francesco da Paola. Franck e Bach, invece, li ho scelti perché molto legati alle musiche per organo più che per pianoforte. Mentre il Miserere da Palestrina e le Reminiscenze dalla Lucia sono entrambe trascrizioni di musica vocale. Ho deciso di giocare con questi percorsi, creando degli intrecci tra le varie tradizioni e i diversi modi di fare musica.

Come definirebbe il suo rapporto con il pubblico?

Ci sono interpreti che credono di poter fare a meno del pubblico e altri, invece, che sentono la necessità di coinvolgerlo profondamente. Non sento di poter dire che uno dei due atteggiamenti sia giusto o sbagliato, sono modi diversi di fare musica. Per me, il pubblico è l’interprete invisibile: la sua presenza, la sua concentrazione mi circonda mentre suono. Sul palco riesco a percepire come cresce o cala la sua concentrazione a seconda di quello che suono o di come lo suono. Per come la vedo io, il concerto è un’esperienza ‘interattiva’ e il pubblico è la mia controparte. La sua indifferenza sarebbe per me una mortificazione.

Quando esegue brani come quelli scelti per il programma del Festival, quindi, opere e autori spesso poco presenti nelle sale da concerto, crede che il pubblico riesca a seguirla?

Negli ultimi decenni si sono affermati repertori molto conosciuti, queste greatest hits che tutti vogliono ascoltare. Ma io non credo che stiamo facendo la cosa giusta suonando sempre le stesse cose, gli stessi autori, perché stiamo creando un’atmosfera viziata, innaturale. Dobbiamo ricordarci che non è sempre stato così: in altri tempi ci si sedeva nella sala da concerto, in teatro, in salotto per ascoltare prime esecuzioni di nuove composizioni. Oggi, ripetendo sempre gli stessi brani, stiamo togliendo valore all’esperienza del primo ascolto che, invece, credo abbia un’importanza fondamentale. Restringere enormemente il campo a poche opere scelte per piacere al pubblico elimina la varietà, l’abitudine alla differenza. Ci omologa e appiattisce quello che è il valore insito nella musica: non un semplice intrattenimento, un accessorio ma qualcosa di profondamente legato alla nostra esistenza. Quindi, quando suono qualcosa di poco conosciuto dal grande pubblico, lo faccio con la convinzione che, in quel momento, il brano che sto eseguendo è il più bello mai scritto. E lo sento davvero: solo così posso convincere gli altri che anche quei brani siano necessari. Voglio portare le persone a pensare: “perché non si suona più spesso questo autore, o questo brano? Sono così belli!”

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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