Ton Koopman

“ricostruisce” Mozart a Santa Cecilia

Autore: Lorenzo Papacci

24 Aprile 2019
Nei giorni immediatamente precedenti a Pasqua, Ton Koopman ha portato a Santa Cecilia un notevole programma interamente dedicato a Mozart. Oltre al ruolo di direttore, Koopman si è cimentato in quello del compositore/filologo, poiché ha ricostruito i brani incompiuti della Messa in do minore K427, prima parte del programma, e vi ha anche inserito alcuni brani della Jubilaeums Messe di Michael Haydn. Le opinioni su un intervento simile possono (e devono) essere molteplici: si potrebbe dire che Koopman abbia storpiato il lavoro di Mozart intervenendo col suo tocco oppure ringraziarlo, perché attraverso il suo completamento ci ha permesso di ascoltarlo. Quello che si può dire senza dubbio è questo: gli interventi di Koopman sono stati sempre visibili e in linea con lo stile mozartiano. Era però un Mozart che guardava al Requiem e alla Krönungsmesse a livello stilistico, e forse è stata una scelta deliberata per mostrare dove la mano di Koopman entrava in gioco. Nello specifico i brani ricostruiti da Koopman sono stati il Credo, Et incarnatus est per soprano, il Sanctus e l’Hosanna (cui ne segue un secondo interamente composto da Mozart). L’olandese ha operato sicuramente una ricostruzione “moderata” e non ha fatto mai prevalere la sua penna su quella di Mozart. L’intervento meno necessario e forse anche non particolarmente utile è stato quello di inserire i 4 brani di Haydn nella seconda parte della messa, intervallati con quelli ricostruiti da Koopman. Purtroppo qui è entrata in gioco l’arbitrarietà: perché inserire i brani di un altro autore nella messa incompleta? A ben vedere così non si è ascoltata né la messa di Mozart né quella di Haydn ed è emerso da subito il “collage”, data la differenza di stile notevole delle due composizioni. Un collage di cui si comprende con difficoltà lo scopo, non sarebbe stato gran male dopotutto eseguire la messa di Mozart da incompiuta.

A parte questi punti dell’accostamento e della ricostruzione che sono soggettivi, in quanto variabili a seconda delle diverse sensibilità, la direzione di Koopman è stata prodigiosa. La sua orchestra sosteneva e accarezzava la linea dei cantanti senza mai sovrastarli e risultando sempre presente e partecipe. Va senz’altro sottolineata la preparazione e la brillantezza del coro, che si è mosso con agilità dai toni più scuri e tenebrosi di questa messa fino a quelli più soavi e paradisiaci. Peccato che questo coro stia vivendo delle scure peripezie, perché la sua qualità rimane costantemente elevatissima e anche su questa messa la loro performance è stata inappuntabile. Inappuntabile è stata pure Maria Grazia Schiavo, che si è dimostrata un’artista del pianissimo e del legato, la sua è stata una performance tecnicamente curatissima e notevole: dagli ornamenti limpidissimi in cui è riuscita a far emergere ogni nota anche nelle parti più tortuose, fino agli acuti a piena voce in cui ha sfoggiato un vibrato meraviglioso, controllatissimo, mai eccessivo. La Schiavo, sin dal Kyrie iniziale, ha mostrato costantemente i muscoli per tutta la messa, con una qualità costante. Anche la prestazione di Roberta Mameli è stata buona, ma spesso nelle parti di agilità la chiarezza della linea vocale veniva un po’ meno, essendo affrontata con un’eccessiva intensità vocale. La coppia Schiavo-Mameli ha necessitato di tempo per saldarsi, infatti l’iniziale Domine Deus, prima unione dei due soprani, poteva far pensare a una coppia malfunzionante, mentre poi andando avanti le due hanno trovato una stupenda armonia. Purtroppo l’interpretazione del tenore Timan Lichdi, invece, non è stata all’altezza delle sue colleghe: un suono estremamente minuto, che veniva sovrastato ora dal soprano, ora dall’orchestra, tutto ciò ha messo un po’ in ombra il tenore in questo lavoro, che fra l’altro non prevedendo parti per tenore solo non ci ha dato occasione di “riscoprire” Lichdi, peccato.

La seconda parte del programma diretto da Ton Koopman prevedeva la Sinfonia n. 41, Jupiter, K551 in Do Maggiore di Mozart. La storia della composizione è nota. La sinfonia fa parte delle tre ultime composte da Mozart, tre anni prima della sua morte, quindi gli è proprio uno stile tardo, vissuto, più ragionato rispetto alle prime e impulsive composizioni. Per la tonalità scelta, per l’organico, formato da flauto, oboi, fagotti, corni, archi e trombe e timpani (sono stati esclusi, quindi, i clarinetti) e per l’appellativo, Jupiter, assegnato a posteriori probabilmente dall’impresario londinese Johann Peter Salomon è evidente la magnificenza di questa sinfonia, la sua grandezza, olimpica, divina, che la rende un titano della musica. E in queste serate, tra le mura della Sala Santa Cecilia, dell’Auditorium Parco della Musica a Roma, la magnificenza della composizione si è fatta notare, ma, soprattutto, le è stata resa giustizia.

Un Ton Koopman che, con tuttala sua genialità, il suo particolare estro e il suo brio, tutto ha diretto tranne che il ritmo, che è comunque una componente fondamentale della musica mozartiana. E con questo non si intende dire che Koopman abbia mancato in qualcosa, anzi, tutto il contrario: è uno dei pochi, pochissimi e speciali direttori d’orchestra al giorno d’oggi che non solfeggiano mentre dirigono, il ritmo è e deve essere insito in tutto il resto, non occorre mostrarlo, si pensa a un altro tipo di lavoro. La sua mano destra, che è quella di solito destinata allo scandire il tempo, lo faceva ma in maniera musicalmente orientata e pensata, secondo costruzioni di frasi e tensioni di suono. Un’impressionante mano sinistra che per tutto il tempo ha fatto solo e unicamente due gesti: il palmo aperto, rivolto verso l’alto che si muove verso l’alto, lentamente o velocemente, a seconda delle esigenze musicali, e che poi svanisce nell’aria del finale di frase; un cerchietto formato da pollice e medio uniti ad anello, ad indicare la scansione più metrica che melodica del passaggio, la brillantezza dell’esecuzione e dell’articolazione. E, per concludere, il corpo del direttore si contraeva o si rilassava tutto, per intero, dalla testa alla punta dei piedi, cosa strana per chi abituato a vedere direttori compostissimi, che non si muovono oltre il dovuto. Il tutto ha portato a una direzione della sinfonia singolare, composta, semplice come richiede la musica del genio di Mozart, priva di qualsiasi romanticismo fuori luogo, ma comunque mai banale, mai noiosa. Sotto la guida di un tal direttore è risultata una magistrale interpretazione da parte degli orchestrali, che nei quattro diversi movimenti hanno saputo mostrare quattro diverse facce e sfumature, un’esplosione trionfante nel primo movimento, la cantabilità serena e rilassata del secondo, astutamente scritto con trombe e timpani esclusi, per placare e mettere momentaneamente da parte la marzialità della sinfonia, la danza nel terzo movimento e la corsa finale ed entusiastica dell’ultimo.

Nella resa da parte dell’orchestra il timbro e la compattezza di suono ricercati erano sublimi, le articolazioni, sia degli archi che dei fiati, erano brillanti e ben scandite, ottimi i colori, i respiri all’unisono e le intenzioni condivise, le persone sul palco erano 30, l’idea era una. Pecca della serata è stata qualche imprecisione, a volta, a livello di qualità del suono, e di tenuta dello stesso, nella sezione dei fiati e da parte degli archi una scarsa presenza, a livello di presenza scenica e di massa sonora, delle parti interne, sia nelle parti in cui fungevano da motore portante, sia quando avrebbero dovuto prendere il sopravvento sulle parti posizionate esternamente. Questo ha quasi inevitabilmente portato, in momenti in cui il dialogo tra le parti era serratissimo, a un lieve scollamento sonoro percepito dall’ascoltatore, ma si è trattato, inutile anche dirlo, di pochi momenti, nulla a che vedere con la magnificenza di tutto il resto.

Michela Marchiana

Lorenzo Papacci

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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