Ascoltando frammenti

Berio e il restauro di un’opera musicale

Autore: Willy Bettoni

27 Febbraio 2019

I grandi maestri del passato che grazie alla loro produzione si sono guadagnati un posto nell’olimpo dell’arte e, di conseguenza, l’immortalità, avevano tutti una caratterista comune: l’essere umani. E peculiare all’essere umano è la sua finitudine, allo stesso tempo limite e causa della loro grandezza. Anche se i grandi nomi del passato, come Mozart o Beethoven, vivono” accanto a noi grazie alle loro composizioni, la loro attività produttiva giace inesorabilmente nel passato, ben delimitata da un inizio e da una fine. La fine della vita di un’artista, tragedia per la comunità culturale di cui fa parte, apre molti “se fosse accaduto che”, punto di partenza delle nostre personalissime “vite alternative dei compositori”, dove Lully non si autoinferse un colpo mortale mentre dirigeva il suo Te Deum, dove Chopin non morì di tubercolosi, regalando così ulteriori anni di gioia ai pianisti di tutto il mondo e dove Schubert ebbe tempo di completare sia la sua Ottava che la sua Decima Sinfonia. Ma una volta ritornati alla realtà è necessario constatare che la morte spesso coglie i compositori improvvisamente, i quali ci lasciano così in eredità una lista relativamente lunga di opere incompiute, tra le quali figurano lavori noti anche al grande pubblico, come il Requiem K626 di Mozart o la Sinfonia n.8 D759 di Schubert, detta, appunto, l’Incompiuta. Da questi lavori non finiti, a volte poco più che abbozzi, emerge quasi spontaneamente un problema: cosa fare di questi manoscritti? Come portare nel mondo queste composizioni, che, seppur al loro stato embrionale, recano con sé il chiaro marchio del genio creatore? La risposta è, per quel che riguarda la musica, relativamente complessa.

A livello generale, l’opera incompiuta possiede enormi potenzialità, configurandosi quasi come archetipo di opera aperta: essa ci dice qualcosa, lascia intravedere il suo tutto, senza però né confermare né negare la nostra interpretazione. Ed è proprio la molteplicità delle interpretazioni possibili e delle possibili ricostruzioni, che garantisce all’incompiuta il suo fascino. Ed è proprio grazie a questa apertura che essa lascia uno spazio all’osservatore il quale, sulla base dell’esistente, completa il “suo” quadro. Di fronte ad un’opera incompiuta l’osservatore diventa di volta in volta pittore, scultore, architetto. Per esempio, di fronte al tempio di Segesta, che non è certo un’opera incompiuta, ma che, viste le sue mancanze, come tale ci appare, l’osservatore completa i vuoti strutturali, colora le pietre, immagina come doveva apparire il tempio all’epoca della sua costruzione. In una parola, l’osservatore immagina e immaginando ricostruisce l’opera, riconsegnandole per un istante quella compiutezza e quella vitalità che l’azione del tempo le ha portato via. Esattamente per questo motivo in ambito artistico il restauro si orienta al giorno d’oggi più verso “l’esaltazione del vuoto”, piuttosto che verso il “completamento del vuoto”. Questo carattere dell’azione di restauro è notata anche da Berio, che, infatti, non nasconde la sua predilezione per questo metodo, tanto da eleggerlo a criterio estetico per affrontare i frammenti schubertiani della Sinfonia D.936a. Scrive il compositore:

 

[blockquote cite=”Luciano Berio” type=”left”]«Lavorando sugli schizzi di Schubert mi sono proposto di seguire, nello spirito, quei moderni criteri di restauro che si pongono il problema di riaccendere i vecchi colori senza però celare i danni del tempo e gli inevitabili vuoti creatisi nella composizione (com’è il caso di Giotto ad Assisi)».[/blockquote]

Willy Bettoni


Questo testo non è incompiuto, ma è solo un’anteprima dal nostro nuovo numero Storie Incompiute, che è possibile prenotare già qui.

Il dettaglio dell’indice è già online qui.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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