Papi, cardinali e musica

storia di un doppio mecenatismo

Autore: Silvia D'Anzelmo

7 Novembre 2018
Il Rinascimento è un momento di radicale cambiamento nei valori e nella mentalità dell’uomo che comincia a porre al centro del proprio interesse se stesso e non più Dio come accadeva nel Medioevo. Questo notevole cambio di prospettiva si riversa in ogni ambito della vita compreso, ovviamente, quello del ‘pensiero’ e così arte, filosofia, letteratura intraprendono strade prima mai percorse. Nel caso della musica, l’interesse passa dalle teorie pitagoriche che indagavano l’armonia delle sfere celesti, all’interesse per gli effetti immediati che la musica ha sull’animo: ancora una volta, dal divino all’umano. Importanza fondamentale assunsero, allora, i contenuti della retorica classica e la musica passò dalle arti matematiche, dove era posta nel Medioevo, a quelle della comunicazione. Aristotele, Cicerone, Quintiliano parlavano della capacità della musica di imitare le passioni umane muovendo gli animi a diverse emozioni; questo stesso aspetto, declinato in vari modi, lo ritroviamo in molti scritti rinascimentali come, per esempio, il Discorso all’Accademia degli Alterati di Firenze di Giulio Del Bene che sostiene:

«Al fine che noi possiamo […] per la retorica persuadere, et tirare la voluntà dell’huomini dove ci pare, et per la musica imparare ad essere ordinati, et composti bene nell’animo nostro, et a movere gli affetti non meno che si faccia la retorica et per delettarsi et sollevarci dalle fatiche che nelle operationi humane ogni giorno supportiamo.»

Intesa in questi termini, la musica comincia a mutare il proprio statuto acquisendo una grande importanza nell’educazione privata e nella rappresentanza pubblica con una progressiva divaricazione tra musicisti di professione e dilettanti.  A sua volta, la committenza comincia a prendere due volti differenti divaricandosi in mecenatismo istituzionale e umanisticoIl primo caso riguarda la committenza di opere musicali destinate a proclamare la ricchezza e la potenza del mecenate presso le altre corti signorili rivali. La musica, sotto questo aspetto, non è semplice diletto o passatempo ma elemento imprescindibile al servizio delle istituzioni politiche e, per questo, viene realizzata da precise categorie professionali come i trombettieri o i cantori della cappella di corte. Questi ultimi sono uomini di chiesa e di cultura, oltre che musicisti, consiglieri e diplomatici indispensabili che arrivano a occupare le posizioni socialmente più elevate tra i dipendenti della corte.  Al mecenatismo  istituzionale, in Italia, comincia ad affiancarsi  quello umanistico. In sostanza la musica, al pari della filosofia e delle lettere, diventa un elemento indispensabile nell’educazione della nobiltà purché non si giunga mai a un livello professionistico che riguarda l’aspetto istituzionale della musica. In quanto partecipe di questo doppio canale, la musica è espressione diretta del pensiero, del sistema di valori e della cultura cortigiana come chiaramente espresso nel Libro del Cortegiano di Baldesar Castiglione:

«Avete a sapere ch’io non mi contento del cortegiano s’egli non è ancor musico e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non sa di varii instrumenti; perché, se ben pensiamo, niuno riposo de fatiche e medicina d’animi infermi ritrovar si può più onesta e più lodevole nell’ocio, che questa; e massimamente nelle corti dove, oltre al refrigerio de’ fastidi, che ad ognuno la musica presta, molte cose si fanno per satisfar le donne, gli animi delle quali, teneri e molli, facilmente sono dall’armonia penetrati e di dolcezza ripieni […]»

La cosa interessante è che questa divisione tra mecenatismo istituzionale e umanistico non vale semplicemente per i principi laici ma interessa anche le corti ecclesiastiche. A partire dalla metà del quattrocento, i pontefici diventano anche signori temporali ed entrano in competizione con le altre potenze della penisola italiana. Lo scontro, che si consuma a livello politico, coinvolge la musica in quanto raffigurazione di potere e splendore.

Dopo il Grande Scisma e il turbolento periodo dei Concili, il papato risulta indebolito nella sua autorità spirituale e temporale: ai papi tocca riaffermare la propria autorità sul concilio dei cardinali attraverso una vera e propria fase di restaurazione. La prova di forza, quindi, è sia interna e volta ad arginare le ingerenze dei cardinali che esterna e volta a raggiungere una posizione di forza rispetto ai signori della penisola. Questa nuova situazione modifica le esigenze di rappresentanza dei successori di San Pietro che assumono la grande musica artistica dell’epoca, ossia la polifonia vocale franco-fiamminga, come dichiarazione di potere e magnificenza. Al tempo stesso, i cardinali arretrano e perdono il lato politico del loro potere per cui cominciano a utilizzare la committenza come forma di visibilità e splendore per garantirsi i favori del loro signore, ossia il papa.

Mecenatismo

Il luogo di massima rappresentanza del potere papale diventa la ‘cappella’, termine che indica una realtà complessa che comprende l’ambiente fisico, la funzione liturgica e il gruppo di cantori che esegue musica. La Cappella Sistina, per esempio, è stata affrescata con racconti che giustificavano storicamente l’istituzione papale così che ambasciatori e ospiti illustri possano ammirare la magnificenza  del capo dello stato pontificio. Il suo fondatore, Sisto IV, non si occupa solo del luogo fisico ma dà importanza alla cappella musicale accaparrandosi i migliori cantori sottratti alle corti signorili. Questi musici pregiati di provenienza franco-fiamminga vengono contesi al pari di territori perché è attraverso le loro polifonie che si misura la grandezza di un signore rinascimentale. Sisto IV è stato il primo papa a comprendere l’importanza di questo aspetto e a considerare la polifonia liturgica come parte essenziale nell’esibizione della sua magnificenza. Dopo di lui, l’importanza della musica presso papi e cardinali crebbe a dismisura divenendo un ornamento e un diletto indispensabili.

Il genere più illustre e impegnativo in quanto rappresentazione ufficiale del rito cristiano è la messa polifonica che raggiunge il suo splendore proprio tra il XV e XVI secolo. L’esecuzione avveniva solitamente a cappella da parte di cantori esclusivamente uomini sia adulti che ragazzi. Inserita nel contesto rituale per il quale è pensata, la messa polifonica diventa veicolo di significazioni molteplici e stratificate legate alla natura drammatica del cerimoniale ma acquisendo anche una dimensione sociale. Questa musica diventa l’espressione massima della magnificenza papale e della sacralità del suo potere. A detenere l’esclusiva sul genere, inizialmente, sono proprio i compositori franco-fiamminghi che, grazie al prestigio acquisito presso corti principesche ed ecclesiastiche, diffondono il loro repertorio in tutta Europa dominando la scena sacra italiana. La loro è un’arte estremamente raffinata che punta ad affascinare non solo chi ascolta ma anche e soprattutto chi  esegue queste musiche con il ‘testo’ sotto gli occhi. Gli intrecci sofisticati spesso si trasformavano in veri e propri enigmi da risolvere, ‘giochi’ musicali fatti per il godimento intellettuale di cantori altamente istruiti.

Ad affascinare i compositori fiamminghi a partire dal XV secolo è soprattutto il raggiungimento dell’omogeneità in un componimento nato come assemblamento di elementi differenti tra loro. Si va dalla varietà all’unità con un processo lungo e laborioso che può dirsi concluso solo nella seconda metà del cinquecento. Durante questo periodo, i compositori passano dall’interesse per il trattamento del cantus firmus al tenor alla parificazione delle quattro voci. Il cantus firmus non è altro che la struttura portante dell’intera messa: una melodia preesistente, proveniente dal repertorio liturgico o profano, affidata alla voce del tenore e cantata in valori molto lunghi. Su questo motore immobile si costruivano liberamente le altre voci. La messa su tenor risponde all’interesse dei fiamminghi per il gioco intellettualistico, alla ricerca di varie possibilità nella costruzione di complesse architetture musicali caricate di simbologia esegetica e quindi perfette per le necessità di rappresentanza e sacralità di papi e cardinali.

Procedendo lungo la strada che porta all’omogeneità nella composizione delle messe, l’interesse si sposta verso l’integrazione del tenor nella conduzione delle voci che diventa paritariaLa Missa Pange lingua di Josquin Desprez è il primo esempio di questa conduzione delle parti che trasforma la messa su tenor in messa-parafrasi. Il cantus firmus non più esposto a valori lunghi è indistinguibile dalle altre parti: la melodia preesistente viene sottoposta a elaborazione melodica creando una ‘parafrasi’ dell’originale che si mimetizza nel tessuto polifonico. Il tenor della Missa Pange lingua di Josquin è preso dall’Inno ai vespri del Corpus Domini. Il confronto tra gli incipit del cantus firmus che compare nel tenor del Kyrie I e dell’inno originale dimostra perfettamente come questo venga considerato una traccia da elaborare e modificare. Inoltre, nel corso della messa il cantus firmus non compare solo al tenor ma è distribuito tra questo e il superius dunque le parti vocali risultano equiparate. Grazie al trattamento omogeneo riservato delle voci e all’uso in tutte le sezioni della messa del medesimo cantus firmus con questa messa si può considerare compiuto il percorso di integrazione di tutte le sezioni e di tutte le parti vocali della messa in un disegno unitario e coerente.

Silvia D’Anzelmo

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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