Franz Liszt e Francesco Petrarca, dai “rerum vulgarium fragmenta” agli Années de pèlerinage: una possibile interpretazione

Corre l’anno 1336 quando un poco più che trentenne Francesco Petrarca si accinge ad iniziare un’opera che lo accompagnerà per tutta la vita, il “rerum vulgarium fragmenta”, più comunemente definito “Canzoniere”.

Autore: Federico Sparapan

5 Gennaio 2018
La raccolta, che comprende 366 liriche scritte a cavallo della morte di Laura, ha assunto, fin da poco dopo la morte dell’autore, una rilevanza bibliografica tale da portarla, circa 500 anni dopo, nelle mani di Franz Liszt.

Il secondo libro degli Années è databile in un periodo di tempo compreso tra il 1837 e il 1849 e contiene sette episodi che come nel precedente vogliono essere un’interpretazione in musica di luoghi, persone, quadri, occasioni in cui il giovane Franz si imbatte nel suo primo soggiorno romano. Il primo di essi, Sposalizio, riprende il famoso dipinto di Raffaello, lo Sposalizio della Vergine, conservato, già allora, presso la Pinacoteca di Brera, a Milano; Il pensieroso è invece ispirato alla statua Il pensieroso scolpita da Michelangelo, che oggi si trova nella Basilica di San Lorenzo a Firenze; la Canzonetta del Salvator Rosa, su testo di Vado ben spesso cangiando loco di Giovanni Bononcini; i tre Sonetti e infine la famosa Après une lecture de Dante: Fantasia Quasi Sonata, più comunemente conosciuta come Sonata Dante e ispirata alla Divina Commedia, con particolare riferimento all’inferno.

Le liriche petrarchesche colpiscono Liszt nel profondo, al punto che il compositore gli dedicherà, come già accennato, ben tre dei brani della raccolta. Essi rappresentano la riscrittura musicale dei sonetti n 47, 134 e 123, tutti inclusi nella sezione dedicata a Laura ancora in vita. L’abilità di Liszt nel trasformare parole in effetti melodici risplende più che mai tra i pentagrammi dei sonetti, ad ognuno dei quali, come testimoniano le edizioni urtext dello spartito, il compositore antepone il testo in lingua originale: l’esecutore si ritrova dunque immerso in una realtà sospesa tra parole e suoni e, così come l’ascoltatore, si sorprende ogni volta delle trovate armoniche che riflettono pienamente gli stati d’animo del poeta.
Quelle che seguono vogliono essere delle ipotesi interpretative su cui l’esecutore può soffermarsi o trovarsi in contrasto, sviluppando musicalità sempre nuove nell’esecuzione dei brani.

Sonetto n 47: la prima volta non si scorda mai

Benedetto sia il giorno e’l mese e l’anno
E la stagione e’l tempo, e l’ora e’l punto
E’l bel paese e’l loco ov’io fui giunto
Da due begli occhi che legato m’hanno;
E benedetto il primo dolce affanno
Ch’i’ ebbi ad esser con amor congiunlo,
E l’arco e le saette ond’io fui punto,
E le piaghe ch’infin al cor mi vanno.
Benedette le voci tante ch’io
Chiamando il nome di mia Donna, o sparle
E i sospiri e le lagrime e’l desio;
E benedette sien tutte le carte
Ov’io fama l’acquisto, e’l pensier mio,
Ch’è sol di lei, si ch’altra non v’à parte.

Più che ad una dichiarazione vera e propria nei confronti di Laura, ci troviamo qui di fronte ad una benedizione
dei “doni” rappresentanti i sentimenti dell’amore, concludendo che potranno appartenere solo a lei, Laura, e nessun’altra. Liszt dal canto suo, rispetta appieno la pacata consapevolezza del poeta, abbandonando i
virtuosismi e dedicando al pezzo liriche di carattere quasi religioso. L’enumerazione in polisindeto è perfettamente ripresa dall’avanzare degli accordi iniziali, così come la “e” ripetuta nel testo crea una piccola cesura, la legatura in sincope della mano destra crea un ritmo di non immediata intuizione ma che pone in evidenza ogni accordo. Seguendo l’esecuzione di Sergio Tiempo vediamo come da 0.17 a 0.31 c’è un momento di stacco, una lirica chiaramente conclamata, in pieno stile lisztiano, quasi ad evidenziare la serenità d’animo che porta al vero e proprio tema centrale della composizione: da 0.32 un tappeto di accordi introduce un espressivo canto in cui traspaiono tutti i sopracitati doni che fanno del primo incontro con Laura un momento di grande serenità.

Serenità a tratti interrotta: il crescendo e l’incalzare della melodia si fanno determinanti da 2.16, in cui tutto
l’affanno che Francesco ha provato nell’innamoramento esplode in musica con potenti accordi che da 2.35
riprendono il tema religioso nel colore del forte: affidando al canto un intero accordo la scrittura diventa subito
molto più pianistica e meno liederistica, mettendo in risalto emozioni prima sconosciute al poeta.
A 2.45 il brano riprende lo stile del lieder ma il tema è profondo, la serenità d’animo delle benedizioni ai doni
è solo un lontano ricordo, restano l’arco, le frecce e il dolore che arrivano al cuore. Liszt enfatizza tutto con
una “quasi cadenza” che porta a un inciso di sei note (3.20) che egli stesso indica in legato-staccato con
l’indicazione “dolente”: il risultato è un ritmo pesante, un abbassare la testa lasciandosi vincere dalla
malinconia.

Ma è da qui che si riaccende la speranza, a 3.35 il tema riprende, la voce è nuovamente affidata al soprano, la
benedizione ai doni riparte, ma stavolta Petrarca cambia direzione: solo a Laura apparterrà il suo pensiero. Ed
è così che Liszt segue, introducendo a 4.00 una voce nuova, affidata al tenore, voce maschile, voce propria di
un Petrarca che non intende lasciare spazi nel suo cuore, voce di un compositore che ha capito un autore fino
in fondo, e proprio qui, a poche battute dalla fine (5.04) gli regala un ultimo respiro, un’immagine ancora, del
tema di Laura, quello della prima volta, quello di una freccia che dal cuore di Francesco non si staccherà mai.

Sonetto n 134: gli opposti non si attraggono

Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.

Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per vui.

Il dissidio interiore del poeta risalta qui in maniera netta: ad una semplice lettura della prima quartina ci si rende perfettamente conto della precarietà sentimentale evidenziata dai termini in antitesi (pace/guerra, timore/speranza, ardo/son un ghiaccio etc.). La speranza di un amore ricambiato sfugge dalle mani di un Francesco afflitto, rinchiuso in un prigione che Laura non intende aprire. Le coppie di termini opposti percorrono tutto il testo, eccezion fatta per l’ultima frase, in cui il Poeta, solenne, espone direttamente alla Donna la condizione in cui ella l’ha ridotto.

La versione in musica che Franz Liszt fornisce di questo sonetto è sicuramente la più nota delle tre: spesso
eseguito da concertisti, è anche un ottimo e piacevole brano per molti giovani studenti di pianoforte ai loro
primi tentativi di virtuosismo. Molto più libera e pianistica della precedente, la composizione ricalca
fedelmente solo determinati versi del sonetto originale, lasciandosi spesso trasportare in elementi di carattere
totalmente esecutivo che non trovano immediato riscontro nel testo. Seguiremo l’interpretazione di Andrè
Laplante:

Lo stile di scrittura iniziale ricorda chiaramente il precedente n. 47, una prima riga in sincope seguita da un
tema declamato alla destra. Stavolta però, gli accenti e le marcate appoggiature, danno una grande sensazione
di forte instabilità: “Pace non trovo. La ripresa in “Adagio” a 0.22 rappresenta l’impossibilità di agire, il Poeta
non può scatenare una guerra, solo rinchiudersi nel tormento.
Se abbiamo detto che la rappresentazione dell’opposto è il motore guida dell’intero sonetto, Liszt ne approfitta
per presentare fin da subito una contrapposizione di temi che percorreranno l’intero brano. A 0.40 propone il
primo frammento: due battute, tre note ribattute come a creare un rallentando, un effetto di grande sconforto,
di pesantezza. A 0.55 il secondo termine, l’opposto: la melodia si apre, diventa meno greve, ci mostra ciò che
l’innamorato potrebbe essere, se fosse ricambiato.

A 1.08 la ripresa immediata delle tre note pesanti, seguite da una melodia risolutiva, e ancora una volta (1.32)
e un’altra ancora (1.32) introducono una diversa esposizione del tema (2.00): la mano destra armonicamente
identica a prima (seppure con qualche variazione e svolazzo puramente pianistico) è accompagnata da leggeri
ma presenti accordi nella sinistra: la sensazione è di una melodia che prende il volo, ma allo stesso tempo giace
pesante (le tre note ribattute sono sempre presenti), Liszt sviluppa i termini petrarcheschi con grande maestria.
A 2.40 inizia un climax che ci conduce alla prima terzina del sonetto, il tema si fa incalzante ed appassionato,
spinto solo dagli istinti e dalle passioni fino a sfociare in urla: il crescendo si fa forte al punto di tornare al tema
iniziale (3.05) con accordi pieni alla destra e bicordi sequenziali alla sinistra. Liszt crea un grande muro di
suono disperato, ripercorrendo le prime due quartine ribadendone i concetti in maniera tormentata (interessante
a 3.20 la ripetizione quasi nervosa sul fa, le tre note originali diventano dieci).

Siamo a 3.48, ritroviamo il tema originale, stavolta esposto però in piano, con accordi delicatamente arpeggiati
alla destra, si entra all’interno di un elemento tematico nuovo (4.19), sconsolato, molto lento, nuovamente
pesante, certamente non virtuosistico. Il Poeta si lascia andare in una dimensione in cui l’unico nutrimento è il
dolore provocato da Laura. A 4.40 tornano le tre note, le antitesi, più drastiche. Piangendo rido, Liszt lo esprime
riprendendo il tema iniziale annotando un “agitato” quasi a voler ricalcare lo stato d’animo di Francesco che,
dopo un’ultima cadenza, declama un tema più lento, quasi solenne (5.12): “In questo stato son, Donna, per
Vui.” Il compositore espone qui elementi frammentati, intervallati da accordi arpeggiati secchi caratterizzati
da una musicalità aspra, cruda e priva di speranza.
Per quanto Liszt potesse chiudere sull’accordo a 5.55, opta per una licenza propria con una coda in mi
maggiore: l’ungherese prova a dare una nuova speranza a colui che, alla seconda composizione, potrebbe
rappresentare ormai un amico lontano, del quale condivide i tormenti di un amore mai corrisposto.

Sonetto n 123: l’anticipazione dell’impressionismo musicale

I’vidi in terra angelici costumi
E celeste bellezze al mondo sole;
Dal che di rimembrar mi giova e dole
Che quant’io miro par sogni, ombre e lumi.
E vidi lagrimar quei duo bei lumi,
Ch’han fatto mille volte invidia al sole;
Ed udi sospirando dir parole,
Che farian gire i monti e stare i fiumi.
Amor, senno, valor, pietate e doglia
Facean piangendo un piu dolce concento
D’ogni altro che nel mondo udir si soglia;
Ed era il cielo all’ armonia si intento
Che non si vedea in ramo mover e’l vento.

Meno noto dei precedenti, il Sonetto descrive una figura angelica che, anche in questo caso, crea un forte
dissidio interiore dell’io poetico che prova alternativamente gioia e dolore, in cui vede sogni, luci ed ombre.
La presenza angelica ha un impatto fortissimo sulla natura che, pur di non comprometterne l’immagine, fa sì
che nessun ramo venga mosso dal vento. Seguiremo in questo caso la versione di Alfred Brendel:

https://www.youtube.com/watch?v=phFA20vjqEE

Diversamente dai primi due, la composizione si immerge subito in un tono leggero, di sogno, che, in contrasto
col 134, ben ricalca la sostanza angelica di cui si fa cenno al primo verso. Il tono è pacato, il ritmo molto lento,
elementi melodici simili si susseguono su un tappeto di leggeri bicordi. La melodia non è più conclamata e
fiera, bensì sottile, eterea e immortale.
Dopo una lunga introduzione molto descrittiva, a 1.22 una lunga pausa introduce il tema principale della
composizione. Ritorna il canto accompagnato da accordi arpeggiati: diversamente dal 104 però, la linea
melodica corre (seppure il ritmo sia lento) e non presenta caratteri di opposizione. Si rimane piacevolmente
sospesi su una materia sonora definita ma piacevole, quasi a rappresentare sogni, ombre e luci.
A 2.25 un cambio netto che Liszt indica con “un poco rallentando e agitato”, è evidente di come l’indicazione
agogica del rallentando non turbi quella successiva dell’agitato: quest’ultima infatti è riferibile più a uno stato
d’animo che non a un accelerando vero e proprio. Il ritmo si fa pesante, quasi a ricordare le parole sospirate la
cui potenza può arrivare a far spostare le montagne e fermare i fiumi (2.44).

Il materiale sonoro successivo (3.11) espone il primo tema, una decima più acuto. La dolcezza che scaturisce
da ciò, unito al sapiente uso del tempo rallentato dall’indicazione “più lento”, ricalcano la prima terzina del
testo in cui i termini “dolce concento” si trovano espressi in musica con sapienti espedienti armonici quali gli
accordi arpeggiati tenuti col pedale (3.33 ecc) e una melodia al tenore caratterizzata da una triste malinconia,
l’unica emozione che può provare Petrarca in questo momento.
Liszt riprende poi elementi e temi già noti, trasformandoli, come da consuetudine dell’autore. Mancano gli
estri tecnici, quasi a non voler essere egli stesso il vento che fa muovere i rami. Interessante la riga finale della
composizione (6.30) in cui da un pianissimo l’esecutore conclude con il colore “ppp” in un rallentando a
piacere: è infatti egli stesso che deve capire quanto può essere delicato nello sfiorare i tasti, per non muovere i
rami, per non fare rumore.

Federico Sparapan

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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