Was ist das für ein Geschrei? L’Opera da tre soldi tra tradizione e innovazione

Il 18 ottobre 1928 va in scena la prima rappresentazione dell’Opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper). Quasi novant’anni di vita, di repliche, di critiche. Eppure, scrivere dell’Opera da tre soldi è un’operazione che ancora oggi si presenta estremamente delicata e che richiede un approccio olistico.

Autore: Willy Bettoni

30 Novembre 2017
Comunemente quest’opera è associata più al nome di Bertolt Brecht, al quale la storia ha riservato maggior fama, che a quello di Kurt Weill. Basta fare una rapida ricerca per rendersi conte che questo titolo sarà sempre associato in primo luogo al nome del drammaturgo di Augsburg. Eppure Weill è l’autore di una delle canzoni più celebri della storia della musica, Die Moritat von Makie Messer, la quale vanta più di 200 interpretazioni, da Louis Armstrong a Ella Fitzgerald e Frank Sinatra e, in tempi più recenti, Michael Buble, Sting, Robbie Williams e altri. Tuttavia, questa idea che associa la Dreigroschenoper prevalentemente al nome di Brecht continua ad essere largamente diffusa. Questa “ingiustizia storica” porta con sé almeno due implicazioni: 1) dimenticare che la genesi di questo lavoro vede la collaborazione di Brecht e Weill, uniti, per raggiungere un scopo ben preciso, da una parte riduce la musica al ruolo di riempitivo superfluo e, dall’altra, toglie buona parte della forza rivoluzionaria portata dalla collaborazione tra letteratura e musica declinata nella forma che vedremo in seguito. Questo porta automaticamente a pensare che 2) l’azione combinata di musica, recitazione, poesia, sia scomponibile in atomi tra loro indipendenti, cancellando così con un colpo di spugna l’intera esperienza del Gesamtkunstwerk, di cui l’Opera da tre soldi rappresenta un superamento, o una rilettura in chiave sociologica (politica).

Siamo così giunti al momento più critico di questa introduzione all’opera. Pensare il lavoro di Brecht e Weill “semplicemente” come opera d’arte, astraendolo dal contesto storico e sociale in cui esso prende forma e ignorando l’ideologia politica, in particolar modo quella del drammaturgo di Augsburg, significherebbe rinchiudere l’opera nello “scatolone” della metastoria, dove si tende a rinchiudere l’arte in generale, pensandola come qualcosa di avulso dalla realtà, privandola, così della sua concretezza. Perché il teatro di Brecht e la musica di Weill, almeno per quel che riguarda la Dreigroschenoper, è inchiodato a cavallo tra le due guerre mondiali, nella Repubblica di Weimar; ed è questo preciso momento storico, è il qui e ora, che garantisce loro il materiale per la creazione di quest’opera. La borghesia è allo stesso tempo fonte di ispirazione, oggetto e destinatario di questo lavoro. Il Gesamtkunstwerk si arricchisce così dell’elemento temporale. Ed è proprio qui, nel momento stesso in cui l’arte diventa parte della storia, cioè agisce in e con essa, che si espone alle critiche degli esponenti più agguerriti di un’estetica che guarda ad essa come qualcosa che emerge dalla realtà, che in qualche modo ne è specchio, prodotto, ma che subito se ne distacca diventando altro da essa. Adorno, che pur non negava il legame arte-società, fu sicuramente uno dei più celebri sostenitori di questa concezione e critico dell’ideologia brechtiana. Della concezione estetica di Adorno si è già parlato molto ed è inutile dilungarsi oltre; quindi, mi limiterò a riportare le parole che Giorgio Strehler scrive nel 1972 nei sui Appunti di regia sull’Opera da tre soldi, per dare un’idea della posizione che ha Adorno in questo dibattito. Della citazione è interessante notare come il regista, per rappresentare l’opera di Brecht e Weill, parta da alcune considerazioni su György Lukács, il quale, esattamente come Adorno, criticava l’opera del drammaturgo.

«Ho qui accanto al letto, l’Estetica di Lukács, intonsa. Qui con timore ne ho scorso ieri i capitoli. Ora dovrò leggerla. Cosa saprà darmi ancora questo vecchio compagno che ha perseguitato tanta parte della nostra vita intellettuale? Difficile dire, oggi, tutto il male e tutto il bene che ci ha fatto. Egli fu la voce quasi unica, in tempi bui, ma anche per questo ingannevole. Le sue ci parvero talvolta certezze su cui appoggiarci (ne avevamo tanto bisogno) e ci costò fatica poi distanziarci da lui per guardarlo con serenità. Ancora e sempre abbiamo scrutato nelle sue pieghe, nelle sue ultime confessioni quella traccia di dubbio e di rifiuto che allora volle celarci. Per che cosa? Incertezza, paura, viltà o necessità storica. O tutto insieme? Sia come sia, Lukács resta uno dei nostri maestri. Questa Estetica chiusa forse mi nasconde una chiave per capire meglio il mondo. Da qui, il senso di quasi paura che precede sempre i momenti importanti di una avventura, umana o intellettuale che sia».

L’indissolubile connessione tra opera e momento storico si lega ad un altro tema che non può essere dimenticato in una trattazione sull’Opera da tre soldi, ovvero lo scopo didattico dell’arte. L’artista come guida, concetto che troviamo già ampiamente teorizzato nel primo Ottocento, trova ora un’applicazione ideologica sulla scia del marxismo e della Rivoluzione Russa. Il temuto spettro che si aggira per l’Europa dà i suoi ultimi guizzi, prima di cadere sotto i colpi di nazionalismi vari e dittature. L’idea dell’artista come guida porta con sé il problema del linguaggio. Se l’arte nasce, come direbbe Adorno, in risposta agli chocs del reale ed è di essi specchio, e allo stesso tempo essa vuole guidarci verso una soluzione a queste tensioni, allora dovrò usare un linguaggio che sia in grado di mettere in evidenza le contraddizioni della società e che sia largamente comprensibile, pena il fallimento dell’intero impianto estetico. E il problema del linguaggio ci (ri)porta al dibattito tradizione-innovazione, bipolarismo di cui ancora molti oggi soffrono e che a partire dalla Querelle des anciens et de modernes non ha mai abbandonato completamente il discorso sull’arte. Queste e altre problematiche si tenterà di sciogliere nel corso dell’analisi seguente, il cui punto di partenza non può essere altro che le vicende storiche del duo Brecht-Weill e della Provvidenza che li fece incontrare.

L’incontro e la breve collaborazione

La collaborazione tra Bertolt Brecht e Kurt Weill durò solamente pochi anni. Tuttavia, da un incontro quasi fortuito nacque una delle esperienze più importanti del teatro del Novecento. Una commissione ricevuta dal festival di Baden-Baden portò al primo incontro tra i due. Le opere di Brecht Mann ist Mann e Die Hauspostille avevano già catturato l’attenzione di Weill, il quale, intravedendo una sensibilità drammatica simile, decise di mettersi in contatto con il drammaturgo. Nel 1927 riuscirono a dar vita alla loro prima creazione, Mahagonny, la quale getterà le basi per la più complessa opera Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny del 1930. Dopo questa impresa il rapporto tra i due iniziò ad incrinarsi. Visioni politiche differenti, ma soprattutto lo scontro sul ruolo della musica nel teatro portò alla rottura. Successivamente le vicende politiche dell’Europa porteranno i due a seguire strade differenti. Weill, di origine ebraica, nel 1935 emigrò negli Stati Uniti e negli anni ’40 trovò il successo con i musical di Broadway. Brecht, invece, con l’avvento del nazismo e la messa al bando delle sue opere, inizia un pellegrinaggio che lo porterà in molte città Europee, negli Stati Uniti, in Russia e, alla fine della guerra, nella DDR.

Il recupero della tradizione

L’Opera da tre soldi è sicuramente un’opera per molti aspetti innovativa, ma le sue radici affondano in un passato relativamente lontano e, soprattutto, non si tratta di una composizione originale. Weill e Brecht volevano (ri)modernizzare il teatro. Per compiere questa operazione non possono certo far riferimento all’opera di area tedesca sulla quale il nome di Wagner getta ancora la sua possente ombra e l’operetta sembra anch’essa una risorsa insufficiente. Le risposte offerte dalle avanguardie non sembrano essere veicoli efficaci del contenuto che si intendeva trasmettere. Così, i due non possono che volgere lo sguardo verso un altro tipo di tradizione e in due direzioni opposte: da una parte la tradizione “profana” del cabaret e della musica popolare (di strada); dall’altra le infinite risorse della musica colta del passato. Per questo, nel corso dell’opera si ascoltano, senza soluzione di continuità, differenti stili musicali; canzoni, ballate, tango, fox-trott, shimmy si mescolano a generi colti come la fuga e il corale luterano, spesso armonizzati seguendo le prescrizioni della musica atonale o dodecafonica.

Gli espedienti a cui fanno ricorso, però, non sono nulla di originale né nel Novecento, né nella storia della musica in generale. Più ci si avvicina all’Opera da tre soldi e più si possono riconoscere distintamente i caratteri della sua progenetrice: la Beggar’s Opera di John Gay con musiche di Johann Christoph Pepusch del 1728. Il fatto che l’opera di Weill e Brecht appaia esattamente 200 anni dopo è quasi una coincidenza. La vicenda narrata, il metodo narrativo, gli espedienti scenici, gli espedienti musicali, i personaggi principali sono pressoché gli stessi. Simili sono anche le motivazioni che spinsero Gay e Brecht a scrivere un’opera del genere: critica sociale, satira politica e parodia della tradizione operistica. Se il testo di Gay viene adattato e modificato da Brecht per rispondere al meglio alle sue esigenze e per renderlo adeguato al pubblico tedesco del primo Novecento, Weill, dall’altra parte, compie la stessa operazione partendo dalla musica di Pepusch. Quest’ultimo compone un’introduzione che è creazione originale, ma i brani che intercalano l’azione sono rifacimenti di canzoni popolari della tradizione inglese, scozzese, irlandese e francese e a caricature di arie di grandi compositori tra i quali Händel e Purcell. Weill inserisce un omaggio al maestro che musicò le liriche prima di lui, citando l’introduzione di Pepusch nel numero Der Morgenchoral des Peachum.

Reazione versus avanguardia

Queste brevi annotazioni ci conducono ad un paio di osservazioni sul rapporto avanguardia-tradizione che credo possano essere considerate generalmente valide ogniqualvolta ci troviamo davanti ad un tentativo di innovazione. «La Musique se perd!» scriveva Rameau nel 1760, lamentando come i compositori a lui contemporanei avessero perso la bussola, portando così la musica sull’orlo del baratro. Le critiche rivolte all’arte degenerata non risparmiarono nemmeno il duo Brecht-Weill. Alla lamentatio di Rameau risponde intorno al 1830 François-Joseph Fétis, il quale era convinto che si sarebbe sicuramente arrivati alla convinzione che «la musique ne se perdra pas». L’arte tutta vive differenti fasi; momento culminante di ogni periodo è una crisi (κρίσις). Nel momento stesso in cui si raggiunge il periodo di massima maturità (di uno stile, genere, epoca storica), ovvero quando si crea un sistema di regole ben definite (canone), questo stesso entra in crisi. Generalmente si hanno due risposte a questo fenomeno: 1) una radicalizzazione nel già noto o 2) un tentativo di sciogliere le contraddizioni emerse. Nel corso del primo Novecento assistiamo a numerosi tentativi di superare questa crisi, molti dei quali volgono lo sguardo all’indietro. Il passato, spesso osservato con nostalgia, come epoca d’oro che non tornerà mai più, diventa una miniera d’oro, fonte di ispirazione per nuove idee in grado di spalancare le porte ad una nuova fase. Questo fanno anche i nostri due autori; volgono lo sguardo al passato e lì trovano il necessario per dare risposte alle necessità contemporanee. Vediamo oro come agiscono i due sul piano letterario e musicale.

Uno sguardo nell’Opera

Come già detto, il testo dell’Opera da tre soldi non è una creazione originale. Brecht si servì del testo di John Gay, tradotto dall’inglese da Elizabeth Hauptmann, come traccia per riscrivere la storia, che rimane comunque molto fedele all’originale. Quello che colpì Brecht dell’originale inglese fu la carica polemica nei confronti dell’aristocrazia, il cui comportamento, secondo la visione di Gay, non differiva molto da quello della malavita. Il compito di Brecht fu quello di riadattare le vicende e, naturalmente, i testi ad un mondo in cui l’aristocrazia era stata soppiantata dalla borghesia, ma in cui i vizi della prima erano stati ben assimilati dalla seconda. Sia l’opera di Gay che quella di Brecht riscossero un enorme successo; tuttavia, si può dedurre che l’effetto cercato, cioè il tentativo di smuovere le coscienze, di portare la borghesia ad agire e a reagire, non sia andato a buon fine. E se l’opera di Gay non aveva certo l’intenzione di dare avvio ad una rivoluzione (morale) nella classe dominante, quella di Brecht si poneva questo obiettivo, fallendo miseramente. Le parole che Cesare Garboli scrive nel 1973 dopo l’ennesima rappresentazione italiana dell’Opera da tre soldi, diretta da Strehler, suonano come un ultimo monito ad una classe sociale ormai decadente e spensieratamente incurante del proprio destino:

«[…] il pubblico borghese se la [l’Opera da tre soldi] beve ormai come una minestra calda. Beato, soddisfatto, lascia che gli insulti e gli sputi nemmeno troppo indiretti di Weill-Brecht gli piovano sul piatto a ripetizione. Non s’indigna più. Non si prende neppure la briga di asciugarsi tutta quella saliva sgocciolante sul tovagliolo o sul collo del visone. Conosce quella musica. Cara musica così ribalda, così fuorilegge, così “malavide”, ma anche così tranquillante. Care, struggenti raffiche da cabaret cullate sul ritmo dell’organetto. Ma sì, tutta quella saliva di strumenti a fiato, trombe, tromboni, saxofoni, clarinetti, tutti gli effetti da orchestrina di Weill non sono altro che un’immensa vergogna cantabile. Così va bene. Tutti colpevoli. E tutti consapevoli, naturalmente, tutti assolti. Altro che “anti-opera”. […] Il pubblico borghese arriva in ritardo sugli scandali, ma quando se ne appropria vuol dire che non ha più nessun bisogno di addomesticarli. Quando abbia verificato che essi non cambiano nulla, li digerisce da competente».

Quello che stupisce di questa recensione, oltre alla disarmante analisi della società borghese degli anni ’70, è il ruolo fondamentale assegnato alla musica in questo processo. Nell’Opera da tre soldi, benché la narrazione sia affidata a parti recitate, è nelle canzoni, apparentemente frivole e spensierate e dalle melodie orecchiabili, che abbiamo il vero momento didattico, la messa a nudo delle contraddizioni, la provocazione.

La struttura dell’Opera è di per sé piuttosto semplice: prologo e tre atti. Non c’è lo spazio qui per un resoconto dettagliato dell’intero lavoro, quindi ci si limiterà a darne una visione d’insieme, facendo riferimento ai numeri più significativi. Per lo stesso motivo non si potrà dare conto della vicenda narrata, per altro abbastanza semplice. Il prologo si apre con l’ingresso sulla scena del narratore che annuncia il tema dell’Opera. Il pubblico assisterà ad un’opera per mendicanti realizzata così a buon mercato che i mendicanti stessi potranno pagare il costo del biglietto; per questo motivo è stata chiamata Dreigroschenoper (Opera da tre soldi). Segue un’ouverture che ci trascina immediatamente per le strade di Soho, dove «i mendicanti mendicano, i ladri rubano, le puttane puttaneggiano». Per ottenere questo effetto Weill ricorre a strumenti non convenzionali e ad un’armonia che evita accuratamente le consonanze. L’ouverture vede la presenza di sassofoni, clarinetto, trombe, trombone, benjo, timpani e armonium. L’impressione è che ogni strumento proceda un po’ per conto suo, salvo poi ritrovarsi con gli altri in determinati punti cardine a scandire un ritmo di marcia (in ¾). L’uso di armonie “non convenzionali” va interpretato in due modi distinti. Da una parte si vuole dare l’idea di un’orchestrina di strada, cui strumenti e strumentisti non producono certo sonorità armoniche; dall’altra parte si vuole offrire al pubblico una parodia della musica stessa. «Diventerai il Verdi dei poveretti» disse Ferruccio Busoni al suo giovane allievo Kurt Weill. Le canzoni che compongono quest’opera sono mirabilmente descritte da Garboli:

«Beffardi e patetici, tecnicamente corrotti, squisitamente guasti, parodie che non sono parodie, “pastiches” che non sono “pastiches” ma canzoni vere e proprie, più adatte a un pubblico borghese che popolare, i songs di Weill degradano sottilmente la musica al tempo stesso in cui prendono di mira le svenevolezze dell’opera o le futilità dell’operetta. […] Ma Weill […] non si limita a orendere in giro l’opera, ma anche Bach e l’espressionismo viennese, la musica tout-court. Non solo utilizza la canzone da fiera, ma anche i lieder di Mahler, o il corale luterano. Mette tutto a partito, e pattuisce, da falso musicista leggero, la fine della musica. Moralmente esausti i songs di Weill sono uno sguardo retrospettivo gettato sulla fame e sulla miseria della Germania del ’22, ma sono anche un presagio di prossima fine, il guizzo della luce al crepuscolo».

Riadattando l’immagine che Paul Bekker usa per descrivere il Pierrot Lunaire di Schönberg, dobbiamo pensare all’Opera da tre soldi come vista attraverso l’azione di uno specchio deformante, qui elevato al quadrato. Ovvero, le musiche scritte da Weill non sono solo un commentario ironico del passato, ma sono parodie di loro stesse. Con questo spirito dobbiamo avvicinarci alle canzoni di Weill, così frivole, eppure così serie. L’introduzione è seguita da un Vorspiel, il brano più celebre composto da Weill, Die Moritat von Makie Messer, cantato dal narratore, ci introduce il personaggio principale della storia: Macheath, detto Makie Messer (Makie coltello), capo di una banda di rapinatori. La linea del canto è sostenuta all’inizio solo dall’armonium; l’immagine evocata è quella di un cantastorie sul ciglio di una strada che, accompagnandosi con il suo strumento, racconta le vicende di un personaggio di fantasia. Con l’ingresso del trombone, della batteria e del banjo siamo trasportati in un’atmosfera da cabaret che ci dà un’immagine quasi innocente dell’assassino. La banalità del male ci viene sbattuta in faccia così com’è, fredda e tagliente. Questo è uno dei mezzi che usa Weill per riprodurre in musica quel Verfremdungseffekt (straniamento) tanto caro al teatro brechtiano.

Uno dei momenti musicali, e teatrali, più riusciti dell’opera è sicuramente la ballata di Jenny (Die Seeräuber-Jenny), intonata durante il suo banchetto nuziale dalla protagonista (Polly) a metà circa del primo atto. Le liriche di Brecht si rifanno alla ballata di tradizione inglese. La narrazione procede in maniera semplice e diretta e i versi si ripetono ossessivi, aggiungendo pochi ad ogni ripetizione e accrescendo così il senso di suspense, ulteriormente aumentato dalle domande degli avventori della locanda, che, quasi ad impersonare il pubblico, interrogano la narratrice, smaniosi di conoscere il finale della storia. Polly racconta le vicende di Jenny, una cameriera malamente vestita che lavora per pochi soldi in una locanda; la donna promette ai sui sfruttatori che un bel giorno il suo sposo pirata verrà a prenderla e potrà finalmente vendicarsi dei torti subiti. Nell’ultima strofa gli avventori della locanda capiranno perché Jenny sorrida: «e li incateneranno e me li porteranno davanti / e domanderanno: chi dobbiamo ammazzare? […] E allora mi sentiranno dire: tutti! / E quando poi cade la testa io dico: Hoppla!».

La musica procede per accordi, ossessiva a marcare il significato delle parole. E se nelle prime tre strofe la musica procede rapida con un Allegretto, l’ultima strofa, il momento in cui si compie la vendetta, rallenta in un Meno mosso (wie ein langsamer Marsch), come se Jenny volesse assaporare lentamente la sua vendetta. Il tema che ha animato secoli di storia, il tema della donna, della voce sentimentale dell’eros prende la strada della vendetta. E se già Schönberg in Erwartung aveva portato in scena un omicidio, qui Brecht e Weill portano in scena la vendetta, calma, premeditata e banale nella sua narrazione, ma inevitabile.  E la musica su quel “hoppla!” tace. Segue un accordo del pianoforte sostenuto da un colpo di piatti della batteria, onomatopea musicale di quanto descritto dal testo. La musica, dopo una corona, ricomincia languida e ci accompanga verso la conclusione; delicati arpeggi come onde cullano le navi che abbandonano il porto. Jenny è finalmente libera.

Questa canzone è dal punto di vista testuale un inno alla libertà, uno schierarsi dalla parte degli oppressi contro l’oppressore, una chiamata alla rivoluzione. Non a caso Brecht usa la forma della ballata, la forma narrativa del popolo. Allo stesso modo Weill guarda all’origine popolare del jazz, agli spiritual, ai blues, ai cries che intonavano gli schiavi africani venduti nel nuovo mondo. In questa ballata sono condensate le intenzioni poetiche e politiche del lavoro di Weill e Brecht; schierarsi dalla parte degli ultimi, narrarne le sofferenze e la voglia di riscatto (e vendetta) e ammonire la borghesia, apatica e incapace di reagire. Purtroppo, però, la carica di ribellione dell’Opera da tre soldi, quell’atmosfera di avvento (Adventsstimmung), constata Ernst Bloch, è stata recepita semplicemente come Bierulk (chi scherza davanti ad una birra).

Willy Bettoni

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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