Guardare l’opera: Turandot di Puccini

La fine dell’opera?

Autore: Rosario Dipasquale

27 Novembre 2017

“Qui termina la rappresentazione perchè a questo punto il maestro è morto”: il 25 aprile 1926, pronunciate queste parole, Toscanini poggiava la bacchetta, e interrompeva l’esecuzione dell’opera che stava dirigendo, la prima della Turandot di Puccini, eseguita fino al punto in cui il maestro l’aveva composta per intero, ovvero la morte della schiava Liù. Portata mestamente a spalla fuori dalle scene in un clima di sgomento e pentimento, quella sera Liù incarnava simbolicamente non solo uno dei più tipici personaggi femminili di Puccini – soavemente intrisa di dolcezza, eppur fiera e coraggiosa, innamorata lucidamente fino alla follia – ma anche l’archetipo dell’opera italiana, e dell’opera lirica tout court: la sua morte, e il finale incompiuto della Turandot, hanno rappresentato e rappresentano ancora la fine del melodramma. Esaurita la musica di Puccini per quel finale ardito e insolubile, sembra chiudersi la grande stagione – tre secoli – dell’opera lirica come forma d’arte totale, popolare, dominante, viva; certo, dopo sarebbero state composte ancora Die Dreigroschenoper, Arabella, Moses und Aron, Porgy and Bess, Lulu, Peter Grimes, The Rake’s progress, La voix humaine – ma, complice l’ascesa irrefrenabile del cinema, sempre più la lirica si avviava ad essere un’arte museale per pochi intenditori, e non una forma d’arte vitale in cui si confrontavano ideali artistici e potevano specchiarsi le masse intere.

 

Un’opera senza fine, ma con molti finali

Superato l’inevitabile pathos della prima rappresentazione, lasciata incompiuta lì dove Puccini si era arreso all’impossibilità di compiere in musica la vicenda di Turandot, si poneva, non senza tormenti, il problema del finale da dare all’opera: già dalla seconda rappresentazione, Turandot venne eseguita con il finale elaborato da Franco Alfano sulla base delle pagine di appunti lasciati da Puccini. Non senza tormenti, si diceva, in primo luogo perché Alfano era titubante (come altri autori contattati prima dall’editore Ricordi, che declinarono l’invito) nel completare un’opera i cui canoni estetici erano del tutto nuovi e per certi versi lontani dai propri, e secondariamente perché Toscanini si prese comunque la libertà di tagliare molte parti del finale scritto da Alfano, ovvero tutte quelle non immediatamente riconducibili agli appunti di Puccini, probabilmente con l’intento di contaminare il meno possibile le idee originarie dell’autore. Così, in pochissimo tempo, si ebbero due finali per Turandot, Alfano I e Alfano II, con il secondo che in realtà dovrebbe ascriversi a Toscanini, visti i suoi massicci interventi nelle scelte delle parti da eseguire per completare la vicenda: questo finale, più stringato, che risolve in poche battute l’acme drammatico dell’opera per poi virare (troppo) repentinamente e rumorosamente verso il lieto fine, in fortissimo, che conclude l’opera, è quello che per lungo tempo si è ascoltato e si ascolta oggi a teatro. Nessuno dei due finali di Alfano però sembrava rispondere all’esigenza di poter dare un finale degno all’ultima opera di Puccini: più coerente ma inspiegabilmente trascurato il primo, più d’effetto ma sbrigativo al limite del posticcio il secondo, si è dovuto aspettare fino al 2001 per un nuovo finale destinato alle rappresentazioni sceniche per la Turandot, ad opera di Luciano Berio (1925 – 2003), senza considerare la versione mai eseguita composta dalla studiosa statunitense Janet Maguire del 1988. Berio ha cercato di recuperare quanto più possibile lo spirito e le intenzioni originarie di Puccini dai suoi appunti, ma non si è limitato ad un’opera di ricostruzione quanto più fedele possibile: nel suo finale è ben evidente il suo stile, la sua visione della musica e della musica di Puccini, e coerentemente con tutta la sua opera, ha adottato le sue proprie soluzioni per dare una conclusione plausibile a Turandot; il suo lavoro non è una mera e limitata ricostruzione, ma un’opera originale a tutti gli effetti, che muove dagli appunti di Puccini per svilupparsi secondo l’estetica propria di Berio. Un lavoro quindi che non può che lasciare ammirazione e riflessione negli ascoltatori, forse troppo abituati all’eccessivo e improbabile frastuono del finale Alfano II.
 

Non solo ‘Vincerò’: una guida all’ascolto di Turandot

L’incipit dell’opera è da levare il fiato: potente, brutale, misterioso, ci proietta subito nell’azione ed enuncia chiaramente il dramma, per bocca di un Mandarino: “Popolo di Pechino! La legge è questa: Turandot la pura sposa sarà di chi di sangue regio spieghi gli enigmi ch’ella proporrà! Ma chi affronta il cimento e vinto resta porga alla scure la superba testa!“: sonorità esotiche e armonie politonali ci trasportano subito ‘al tempo delle favole’ in cui è ambientata la vicenda (qui il libretto completo).
 

 

Dalla massa imponente, tumultuosa, selvaggia di note in fortissimo suonate dall’orchestra e cantate dal coro, emergono tre personaggi, che scopriamo legati: il principe ignoto (tenore), Timur suo padre (basso), Liú, sua serva (soprano), esiliati ritrovatisi per caso sotto le mura della città proibita, dove la folla invoca in un parossismo delirante l’esecuzione di una nuova vittima dell’editto della principessa Turandot, mentre apprendiamo dalle loro parole che la serva Liù ha accompagnato il suo anziano e cieco signore Timur solo perché il principe suo figlio, un giorno lontano, le aveva semplicemente sorriso: e quel sorriso è stato sufficiente a farle sopportare l’esilio, condividendo tutte le miserie del suo signore. Il coro si eccita all’apparire del boia e dei suoi macabri preparativi, e inneggia alla luna come simbolo mortale di freddezza e purezza (personificazione della principessa Turandot, non ancora apparsa in scena), su tappeti impressionisti di suoni spettralmente languidi; un coro di fanciulli intona poi un canto che si rivelerà fondamentale nell’economia tematica dell’opera, quasi un leitmotiv: “Là sui monti dell’est” introduce infatti il tema del Mò-Lì-Huã (Fiore di gelsomino), una canzone caratteristica cinese, conosciuta da Puccini grazie a un carillon fattogli recapitare da un amico, basata su una scala di cinque suoni, che con il suo andamento semplice e ambiguo, apparentemente dolce e cullante, ma capace di assumere un carattere fisso e spietato, sarà associata alla principessa Turandot.
Quella stessa folla, ebbra di sangue, si tramuta pietosamente in un attimo (e la musica assume mestamente i connotati di una marcia funebre) alla vista del condannato, chiedendo la grazia: il principe si unisce alla richiesta, e brama di vedere la principessa solo per poterla maledire, per la sua inflessibile crudeltà. Anche la folla chiama a gran voce Turandot, ed eccola apparire: non canta, non dice nulla, si mostra (sulla melodia del Mò-Lì-Huã) per confermare la condanna, e scompare: quanto basta per far esclamare al principe “O divina bellezza, o meraviglia!: con un altro scarto repentino (tipico del melodramma), il principe si è innamorato. E gli innamorati, è noto – almeno all’opera: ma non è un concetto peregrino – sono sovente capaci di improbabili corbellerie: infatti, il principe vuole suonare il gong che lancia la sfida a Turandot, rischiando la sua stessa vita per conquistare quell’apparizione di bellezza che gli si è palesata poco prima.
A nulla valgono le preghiere sarcastiche e le minacce buffe di tre maschere, i tre dignitari di corte Ping, Pong e Pang, che intervengono a dissuaderlo; a nulla valgono fantasmi e visioni, il principe non sente ragione e vuole sfidare Turandot: la scena è molto animata, le maschere stemperano la tensione con il loro umorismo macabro, e la musica è tutto un ammiccare di tintinnii e dissonanze caleidoscopiche, come si conviene ad uno scherzo stumentale, inframezzato dai due trii di carattere onirico, un coro di fanciulle e un coro di fantasmi rispettivamente.
Si arriva così alle prime due vere arie dell’opera, che Puccini trasforma in frammenti pieni di pathos, pienamente inseriti nel flusso musicale e drammaturgico: Puccini affida la prima aria, “Signore, ascolta” a Liù – una preghiera al principe, perché rinunci al suo insano proposito, e lei non perda quel sorriso che l’ha rapita; la seconda aria, “Non piangere, Liù” è la risposta, dolce, lucida, ferma e appassionata del principe ignoto: con questa aria, affida il padre alla schiava, prende le distanze da lei, e si avvia al suo destino: il tenore canta da solista non per molto, le voci degli altri personaggi si intrecciano al suo canto, e l’aria sfocia senza soluzione di continuità nel finale d’atto, in un climax emozionale cui partecipano, in un complesso concertato, tutti i personaggi e il coro.
 
 

 

 
Il secondo atto si apre con una serie di riflessioni disincantate affidate alle tre maschere: una sorta di intermezzo, drammaturgico e musicale, in preparazione alla cerimonia, ma soprattutto alla comparsa, stavolta non solo scenica, della principessa Turandot; prima di lei ascoltiamo l’imperatore suo padre che con la sua debole voce tenorile (in netto contrasto con la potenza giovanile della voce del principe) supplica l’ignoto sfidante di ritirarsi: invano. Appare – e finalmente canta – Turandot: “In questa reggia“, aria di notevole difficoltà tecnica e interpretativa, dalla tessitura altissima, che comunica tutta la siderale freddezza e algida crudeltà del personaggio, racconta dell’ava di Turandot, la principessa Lou-Ling, vinta e rapita da un principe straniero, che Turandot vuole vendicare della sua purezza deflorata, sfidando i principi stranieri a risolvere i suoi enigmi, pena la morte come sanguinaria espiazione per quel ratto di mille e mille anni fa; la principessa Turandot canta subito il suo orgoglio inflessibile e l’odio feroce verso gli uomini e gli uomini stranieri, rievocando ieraticamente il trauma che genera la cerimonia da cui, in un ultimo tentativo, ella stessa tenta di allontanare il principe, ammonendolo: “Gli enigmi sono tre, la morte è una!“. Il principe ignoto, altrettanto inflessibile nella sua febbre di conquista, canta, sulle stesse note della principessa, “Gli enigmi sono tre, una è la vita!“: il primo passo a due dei protagonisti dell’opera ci svela, nel loro epico confronto, la dicotomia profonda morte/vita, che è l’anima dell’opera e che innerva le loro azioni e il loro canto – un canto declamato, fortissimo, acuto, che sovrasta i volumi imponenti dell’orchestra, rivelando la contrapposizione e competizione di due personalità forti che cercano di prevalere l’una sull’altra.
 
 
 
La principessa pone gli enigmi, il principe ignoto risponde: risolvendoli correttamente – mentre il coro fa il tifo (e noi con lui), la principessa arranca e Liù trema – guadagna valorosamente il diritto a sposare Turandot. La quale, vistasi vinta (e, possiamo anticipare, forse non solo nel gioco degli enigmi), rifiuta di essere ceduta in sposa, appellandosi all’imperatore suo padre, invocando per sè la stessa purezza della sua ava, oggetto della sua vendetta transgenerazionale: l’imperatore e il coro le ricordano il giuramento – che precedentemente aveva fatto decapitare tutti gli altri aspiranti – ma Turandot si ritrae, irata e sdegnosa, apostrofando il principe vincitore: “Mi vuoi nelle tue braccia a forza, riluttante, fremente?“. Con la grandezza propria degli eroi, è il principe ignoto, pur vincitore, a rifiutare una simile prospettiva, e a dare un’ulteriore possibilità a Turandot: propone una sola, semplice domanda alla principessa, sfidandola a trovare il suo nome prima dell’alba; se Turandot conoscerà il nome del principe prima dell’alba, egli andrà incontro alla morte come se fosse stato sconfitto.
 

 
A questo punto, sentiamo l’orchestra sussurrare una musica ben nota: il tema del Nessun dorma emerge, come un raggio di luce che dipana le ombre d’incubo e sangue che la principessa ha intessuto con il suo editto, e la sua melodia semplice, cantabile, affidata ai violini all’unisono nella tenue tonalità di re bemolle maggiore, getta un seme di speranza nella tragedia, che Turandot accetta senza cantare nulla, ma piegando il capo annuendo. Sull’ennesima acclamazione dell’imperatore da parte della folla, l’atto si chiude.
 
 
 
In un’atmosfera carica di mistero, di tremoli lunari e di voci che si perdono nell’oscurità, all’inizio del terzo atto risuona un nuovo editto di Turandot: “Questa notte nessun dorma in Pekino! Pena la morte, il nome dell’ignoto sia rivelato prima del mattino!“. Il principe ignoto ascolta, e canta la sua aria, il (troppo) famoso ‘Nessun dorma’:
 
Il principe
Nessun dorma! Nessun dorma…
Tu pure, o principessa,
nella tua fredda stanza
guardi le stelle
che tremano d’amore e di speranza!
Ma il mio mistero è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò,
quando la luce splenderà!
Ed il mio bacio scioglierà  il silenzio
che ti fa mia!
Le donne
Il nome suo nessun saprà…
E noi dovrem, ahimè, morir!…
Il principe
Dilegua, o notte!… Tramontate, stelle!
Tramontate, stelle!
All’alba vincerò! Vincerò! Vincerò!

 

Il principe ha risolto gli enigmi, ma pur vincitore, non vuole che Turandot gli si conceda controvoglia; non vuole una vittoria sul piano formale, esteriore, intellettuale, degli enigmi, ma vuole vincere il suo orgoglio, il suo odio, la sua malintesa purezza: in una parola, vuole il suo amore, vuole vincere la corazza di gelo di cui si è cinta la principessa, in memoria di un antico crimine, con il fuoco della sua passione, ed è tanto sicuro da aver sfidato la principessa sul suo stesso terreno, proponendole un enigma che, risolto, lo consegnerebbe alla morte. Ma la morte, per il novello editto di Turandot, incombe su tutti gli abitanti di Pekino, e infatti il principe viene assediato da una piccola folla capitanata da Ping, Pong e Pang, che gli intima di desistere dalla sfida suicida, accontentarsi di aver sconfitto Turandot, e partire per non farsi più rivedere, salvando se stesso, e tutti gli altri, dalla crudeltà sanguinaria della principessa. Eroe fino in fondo, il principe ignoto rifiuta ogni offerta – denaro, donne, gloria – e invoca l’alba per riaffermare il suo trionfo sul gelo anaffettivo di Turandot.

L’attesa dell’alba assume però i connotati dell’incubo per il principe, che vede trascinati in scena, al cospetto della principessa, il vecchio e la giovane che poche ore prima sono stati visti parlare con lui: suo padre Timur, e la schiava Liù. Quest’ultima si fa coraggiosamente avanti, e per risparmiare sofferenze al suo vecchio signore, si dichiara unica depositaria del mistero, unica a sapere il nome del principe ignoto; seppur torturata, rimane irremovibile, nonostante l’angoscia del suo vecchio signore e di suo figlio: di fronte a tanta fermezza, persino la principessa Turandot vuole sapere come faccia un’umile schiava a trovare così tanta forza nell’affrontare una prova così orribile e senza speranza. Il confronto si sposta a questo punto sulle due figure femminili, in uno scontro di tutt’altra natura e levatura rispetto alla sfida degli enigmi; è la sfida tra due archetipi femminili totalmente differenti, stilizzati secondo le consuetudini del melodramma: quello amorevole e sottomesso incarnato dalla schiava, e quello altero e battagliero incarnato da Turandot – e se il primo è la naturale prosecuzione di un carattere ben noto e frequentato nell’opera italiana, anche dallo stesso Puccini (Mimì, Butterfly, Angelica), il secondo è invece inconsueto, atipico, e forse proprio per questo ha acceso la fantasia del compositore, ansioso di cimentarsi in nuove sfide, e trovare personaggi nuovi per la musica nuova che aveva in animo di proporre.
Nel chiedere ragione dell’assoluta tenacia con cui Liù si fa carico della sfida del suo principe, Turandot, forse per la prima volta, entra in contatto con l’Amore: per la prima volta vede, tocca con mano, nella giovane e umile schiava (miserabilmente inferiore, da un punto di vista sociale) un altro sentimento che muove il cuore a decisioni estreme, assolute, irrevocabili – come il suo odio. Con un lirismo struggente, affidato alla sua sola voce accompagnata teneramente dal violino solista, in una solitudine tragica e commovente, dolcissimo in partitura, Liù mostra a Turandot un amore purissimo, oblativo, pronto al sacrificio; come una profezia, la sua aria “Tu che di gel sei cinta” predice a Turandot la sua prossima resa all’amore infuocato del principe, e con lucida consapevolezza, predice il prezzo di questa resa: la propria morte.
Liù finisce di cantare, prende un pugnale di sorpresa e si trafigge: la folla urla ancora una volta di rivelare il nome, ma la schiava cade ai piedi del principe, mentre Timur si avvicina barcollando al suo corpo esanime, con parole di grandissima dolcezza, che commuovono gli astanti; ancora una volta, la folla cambia repentinamente umore sull’onda emotiva degli eventi, e presa da un’angosciosa pietà, accompagna la salma sulle stesse note dell’aria di Liù, trasformata in dolente marcia funebre.
 

 

Qui Puccini si ferma. Il libretto – per quello che ci è dato conoscere – racconta il grande duetto del principe ignoto e Turandot, che culmina nel bacio con cui il primo conquista, sgelandola finalmente, la principessa; albeggia, e in un ultimo, parossistico rilancio, il principe ignoto rivela a Turandot il proprio nome, Calaf, figlio di Timur, rimettendo nelle sue mani la sua vita e consegnandosi al suo destino. Al rientrare della folla e dell’imperatore, Turandot può così rivelare il nome tanto agognato: il nome dello straniero è Amore.
Coro, giubilo, fortissimo, sipario.
Nonostante i decibel profusi a rendere plausibile l’agognato happy end, questo porta con sè più di un’inquietudine, e molte domande.

 

Un’opera di sfide (e di sfida)

Al netto delle parole (e dei tagli) di Toscanini, dei tentativi di conclusione, ricostruzione e composizione del finale dell’ultima opera pucciniana, rimane tuttavia ineludibile, per chi ascolta questo capolavoro, il problema: come finisce davvero Turandot? La vicenda, dal punto di vita scenico e drammaturgico, può dirsi comunque conclusa dalle parole del libretto di Adami e Simoni – che Puccini fece rielaborare più e più volte, sempre insoddisfatto del risultato e consapevole del cruciale snodo drammatico che il finale rappresentava? Può ritenersi esteticamente e artisticamente compiuta l’opera, sebbene priva del suo finale? Cosa sappiamo delle intenzioni di Puccini per questo finale, che con tanto ardimento egli ha affrontato, e con tanto scoramento ha lasciato frustrati i tentativi del suo genio di trovare una soluzione all’altezza delle sue ambizioni, per quella che probabilmente sapeva sarebbe stata la sua ultima opera, nonchè la sua più bella e rappresentativa?
Alcune lettere del compositore aiutano a seguire le tracce del progetto che Puccini aveva in animo di comporre, e per il quale stava spendendo tutto il suo talento, in uno sforzo creativo proiettato alla generazione di un’opera “originale e forse unica”: fin dall’inizio della composizione, ancora allo stato germinale del processo creativo, Puccini mostrava di aver ben chiaro quale fosse il punto fondamentale da mettere in musica:
«Ho letto Turandot, mi pare che non convenga staccarsi da questo soggetto. […] Semplificarlo per il numero degli atti e lavorarlo per renderlo snello, efficace e soprattutto esaltare la passione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio […] Insomma io ritengo che Turandot sia il pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni del Gozzi». (1)
mostrando altresì, già dai tempi della Fanciulla del West, grande consapevolezza dei nuovi approdi cui voleva spingere la sua musica:
«Rinnovarsi o morire? L’armonia di oggi e l’orchestra non sono le stesse […] io mi riprometto, se trovo il soggetto, di far sempre meglio nella via che ho preso, sicuro di non rimanere nella retroguardia». (2)
Dunque, Turandot era per Puccini una sfida con cui imprimere una svolta, un salto di qualità decisivo all’intera sua poetica, rinnovandosi profondamente, recependo le lezioni delle avanguardie continentali, e imprimendo un nuovo corso al melodramma italiano – di questo, certamente, Puccini era conscio: il soggetto fiabesco (inusuale per lui), la compresenza e l’armonizzazione di registri tanto diversi (il lirico di Liù, il grottesco delle maschere, l’eroico di Calaf e Turandot), il lieto fine cui si perviene mediante una prova sanguinaria, e il radicale mutamento della protagonista devono essergli sembrati mezzi opportuni per raggiungere i suoi fini, arrivando a un assoluto dominio tecnico e concettuale di voci e orchestra, uso sapiente di ritmi, tonalità e sonorità mai ascoltati nei teatri d’opera italiani – rielaborando e conservando memoria di quella grande tradizione – e proiettandosi in una dimensione che fa dell’opera un organismo musicale coeso e compatto, dalla struttura interna costituita saldamente da infiniti rimandi semantici, armonici, timbrici; tanto è vero che, in un’altra lettera, scriverà
«Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più. Sarà buon segno? Io credo di sì». (3)
Nonostante il finale incompiuto, il grandioso e preciso impianto drammaturgico e musicale di Turandot è ben evidente, finito e compiuto, tale da poter dire che effettivamente quest’opera non ha precedenti, uguali o epigoni nel melodramma: un capolavoro sempre nuovo, perchè sempre avanti rispetto a qualsiasi analisi e qualsiasi critica.

 

Un bolide luminoso, “poi Tristano”

Sebbene apparentemente in Turandot si possa riconoscere il classico triangolo amoroso che costituisce il motore tragico di molte opere, ad uno sguardo appena più approfondito si nota subito come tale triangolo sia amoroso sui generis, e che la triade dei protagonisti sia fortemente asimmetrica, sbilanciata e caratterizzata in una maniera inedita per il teatro d’opera italiano: Aida e Norma parrebbero presentare situazioni analoghe a Turandot, ma delle storie d’amore lì narrate, degli ostacoli che tali amori devono affrontare e dell’ineluttabile tragedia che su di essi incombe, in Turandot non c’è traccia: qui la storia d’amore inizia solo al termine dell’opera, che racconta tutt’altro.
Si può leggere l’opera come uno sforzo titanico per raggiungere l’equilibrio a partire da situazioni estremamente squilibrate: il principe Calaf è tale solo sulla carta, non avendo un regno nè un popolo su cui comandare, e anzi la sua vita è a rischio a motivo del suo stato, e solo l’esilio anonimo gli offre una temporanea, benchè umiliante, salvezza; la schiava Liù è totalmente dedita al servizio del suo signore Timur, ma per interposta persona non fa che servire suo figlio Calaf, ed è impossibile per lei immaginare se stessa in altra chiave se non in quella di strumento, annullando tutto di sè in funzione del suo Signore e del suo sorriso, labile e fondamentale ragione di vita; la principessa Turandot, potente e crudele, manifesta entrambe queste doti con il suo editto e con il suo rifiuto categorico di qualsiasi rapporto e relazione con l’altro sesso: totalmente incapace (fino al duetto finale dell’opera) di concepire un contatto che non si trasformi in violenza e impurità.
Da questi presupposti, attraverso la sfida lanciata nel primo atto, e il rito degli enigmi nel secondo, si perviene al nodo cruciale di questo dramma dai toni fiabeschi, ma per niente consolatori: lo sgelamento della principessa Turandot, l’accettazione da parte sua dell’amore come componente della propria vita a subentro dell’odio che l’aveva animata fino a quel momento. Questo nodo cruciale aveva acceso la fantasia e l’ispirazione di Puccini, affascinato dall’idea di mettere in musica una così profonda mutazione, quasi una catarsi che, pur a prezzo del sangue di Liù, consegnasse finalmente la principessa Turandot al sentimento dell’amore, in una redenzione problematica ma suggestiva, inconsueta ma liberatoria.
Ancora, dalle lettere di Puccini, si apprende come il personaggio di Liù – assente nelle fonti – sia stato aggiunto successivamente, e, da consumato uomo di teatro qual era, l’autore intuiva come tale figura (peraltro vicina come carattere, vocalità e peso drammatico ad altre musicate nei suoi lavori precedenti) potesse e dovesse risultare decisivo e fondamentale nell’economia dell’opera:
«Credo che Liù va sagrificata di un dolore ma penso che non può svilupparsi – se non si fa morire alla tortura. E perché no? Questa morte può avere una forza per lo sgelamento della principessa». (4)
In una proiezione simbolica, si potrebbe quasi dire che Puccini sapeva bene che, per arrivare alla novità musicale e drammatica dello sgelamento della principessa Turandot, per rendere credibile e accettabile questa conversione, era necessario un sacrificio grande, un evento catalizzatore che di quella trasformazione potesse costituire presupposto e viatico; la morte di Liù, che si suicida per non rivelare il nome di Calaf, e per consegnarli così il cuore di Turandot, rappresenta il punto culminante del crescendo emozionale cui l’opera arriva nel terzo atto, e, metaforicamente, anche il definitivo superamento di quel carattere, tanto amato e divinamente ritratto nelle musiche di Puccini. Un passaggio di consegne tra presente e futuro, che per compiersi definitivamente aveva bisogno di 15 minuti di musica ancora, che raccontassero il duetto cruciale tra Calaf e Turandot.
Scrive Puccini:
«Penso che il grande nocciolo sia il duetto. Dunque vorrei proporre un provvedimento. Nel duetto penso che si può arrivare a un pathos grande. E per giungere a questo io dico che Calaf deve baciare Turandot e mostrare il suo grande amore alla fredda donna […] Vorrei che Turandot sciogliesse il suo ghiaccio nel corso del duetto e cioè desidero dell’intimità amorosa avanti di trovarsi coram populo – e a due congiunti in amorosa posa e con amoroso passo incamminarsi verso il trono del padre fra la folla stupita e gridare amore». (5)
«Il duetto per me dev’essere il clou – ma deve avere dentro a sé qualcosa di grande, di audace, di imprevisto e non lasciar le cose al punto del principio […] Il duetto! Il duetto! tutto il decisivo, il bello, il vivamente teatrale è lì! […] Il travaso d’amore deve giungere come un bolide luminoso in mezzo al clangore del popolo che estatico lo assorbe attraverso i nervi tesi come corde di violoncelli frementi». (6)
Puccini parla di un “bolide luminoso”: la sua musica doveva illuminare la scena, e Calaf e Turandot, trasfigurando il loro duetto in una suprema presa di coscienza della principessa, che dinanzi al sangue, versato per amore, della schiava Liù, abdicasse al suo odio per sciogliersi nell’abbraccio del principe; non si può tacere dell’esplicita sensualità e trasporto erotico che il compositore aveva in mente di mettere in musica, per trasfigurare la sostanza fantastica della fiaba in bruciante verità umana – la credibilità dello sgelamento di Turandot presupponeva e determinava la metamorfosi purificatrice della fiaba in musica in dramma esistenziale, in cui si celebra e manifesta la possibilità, la difficoltà e la rigenerazione del cambiamento stesso, del passaggio da un sentimento atavico ad un altro attraverso un’autentica conversione del cuore, capace finalmente di accettare quell’amore salvifico, erotico e redentrice, per lungo tempo rifiutato, represso e seppellito sotto una spessa coltre di pregiudizi ancestrali. Il bolide luminoso doveva far assumere sostanza musicale e veridicità drammaturgica alla trasmutazione radicale della principessa, da sanguinaria e insensibile vendicatrice semidivina, a donna appassionatamente innamorata, finalmente umana.
Di queste intenzioni rimangono i fogli di appunti che Puccini aveva abbozzato e su cui lavorava incessantemente, tra ripensamenti e migliorie, portandoseli appresso anche a Bruxelles, dove sarebbe stato operato per il cancro alla gola che lo affliggeva; in uno di essi compare una nota fugace ma densa di significato: “poi Tristano. Quale significato potesse avere una tale, esplicita allusione per il finale di Turandot può essere oggetto solo di congetture; una citazione, più o meno sottintesa o manifesta dell’accordo di Tristano, o la rievocazione dello stesso clima filosofico di tensione verso la morte, come nichilistica liberazione, o la creazione di un impianto armonico che richiamasse l’estrema rarefazione e liquidità fortemente cromatica della partitura wagneriana, in cui diluire e distillare lo sgelamento della principessa, per non parlare delle analogie notturne fra le due opere (è notte quando la crudeltà di Turandot determina il sacrificio di Liù e il principe bacia la principessa, è notturno il secondo atto del Tristano, in cui avviene l’incontro passionale fra i due amanti)… É quasi certo che Puccini non si sarebbe limitato a nessuna di tali ipotesi, ma avrebbe sfruttato questa ispirazione come volano per scrivere una musica che, andando oltre tutto questo, indicasse una nuova forma di melodramma all’opera italiana di cui era illustre epigono.
Appunti Puccini finale Turandot Appunti di Puccini per il finale di Turandot
Una testimonianza di un amico di famiglia di Puccini può fornire un’ulteriore, seppur labile, traccia sui proponimenti dell’autore riguardo il tormentato finale di Turandot: Salvatore Orlando, che frequentava villa Puccini a Torre del Lago negli anni della composizione dell’opera, ricorda che nel 1923 Puccini gli fece sentire il finale dell’opera al pianoforte, spiegandogli che si trattava di un finale “come quello di Tristano”, e aggiunge che quelle battute conclusive erano in pianissimo. Su quanto possa essere attendibile una tale testimonianza si può discutere all’infinito (Salvatore Orlando era un bambino all’epoca), ma dovrebbe apparire comunque chiaro che una tale soluzione – nettamente in contrasto con il finale Alfano II che ascoltiamo maggiormente in teatro oggi – può fornire una chiave di lettura e di ascolto più vicina allo spirito con cui Puccini lavorava allo spartito, e indicare definitivamente come Turandot non possa sciogliersi semplicisticamente in una fanfara kitsch sulle note del Nessun Dorma, strombazzate dall’orchestra su accordi armonicamente sconnessi e incoerenti, ma sia invece una storia modernissima, dai molteplici risvolti (non ultimi quelli psiconalitici) i cui protagonisti, al netto degli smodati volumi vocali che sono chiamati a gestire, sono personaggi capaci di parlare all’uomo di qualsiasi tempo, portatori di fremiti, inquietudini, slanci universali. La complessità delle tematiche affrontate da Puccini nella sua ultima opera era all’altezza delle sue ambizioni, il profondo lavorìo di idee e suggestioni con cui il compositore affrontava il finale testimonia una creatività spinta al limite delle sue possibilità: il finale inconcluso, seppur inappagante in prima battuta, aggiunge fascino e pathos a un capolavoro perfettamente compiuto dal punto di vista artistico: in questo senso il pianissimo che emerge dai ricordi di Salvatore Orlando non è solo una congettura fascinosa, ma una cifra stilistica che comunica, con maggior forza di un’intera orchestra strepitante, il mistero oltre gli enigmi, la potenza oscura e traboccante dell’Amore che salvando muta, e mutando salva.
 

(1) G. Puccini, Carteggi Pucciniani, a cura di E. Gara, Milano, Ricordi, 1958
(2) Ibidem
(3) G. Puccini, Epistolario, a cura di G. Adami, Milano, Mondadori, 1926
(4) Ibidem
(5) Ibidem
(6) Cit. in Nigel Jamieson, Un’opera nel tormento, Amadeus, giugno 1997
 
 
Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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