L’Incompiuta di Schubert: sinfonia di tenebra

Se c’è una città al mondo dove l’evoluzione della musica può essere esperita non solo leggendo o ascoltando, ma anche camminando, questa è senza dubbio Vienna.

Autore: Roberto Imparato

28 Settembre 2017
Chi abbia voglia di fare tale esperienza può visitare, nel giro di una giornata, la casa natale di Schubert (detta Zum roten Kresben, nel distretto nord-occidentale della capitale), così come l’abitazione progettata da Otto Wagner al n° 2 della Auenbruggergaβe, dove Mahler visse con Alma fino al 1909, fermandosi nel mezzo alla Mozarthaus, a due passi dal duomo di Santo Stefano; a Sud del centro storico sorge invece l’incantevole Schloss Belvedere, la villa imperiale dove Bruckner trascorse i suoi ultimi giorni. Si percepisce, in questo modo, il correre del secolo e mezzo o suppergiù che racchiude le vite dei quattro grandi compositori austriaci. Il punto di vista privilegiato per definire tale percezione in ogni sua sfumatura è però un altro: quello di chi getti uno sguardo sulle loro composizioni sinfoniche. Se infatti accettiamo l’assioma secondo cui l’arte è immagine speculare del mondo esterno, oltre che dell’universo interiore di chi la genera, è soprattutto nell’evoluzione della forma sinfonica (e dei suoi contenuti) che troveremo l’esempio forse più calzante di quello che fu, appunto, il mutare dei tempi:  dal luccichìo di un impero dorato ove tutto è da millenni solido e inamovibile, fino alla barbarie e all’esautoramento di ogni forma e autorità precostituite; nel mezzo tra i due opposti capi, il trascolorare di un secolo.

Casa natale di Schubert (Zum roten Kresben)

 

In un impero che per secoli conobbe pace e prosperità incontrastate, era nel campo artistico (e dal nostro punto di vista, musicale) che ciascuno sognava di vedere le proprie aspirazioni realizzate. E in nessun altro posto al mondo, se non a Vienna, tale influenza vivificatrice fu così manifesta: Haydn, che qui a lungo era stato ospite degli Esterházy, ebbe il compito di traghettare il genere dal laboratorio alla forma compiuta (esemplari in tal senso gli ultimi capolavori, in particolare le sinfonie “londinesi”, 96-104); a Mozart può invece attribuirsi a pieno titolo il merito di aver raggiunto nel campo perfezione e magistero sconosciuti a tutto il secolo diciottesimo: e sono proprio le ultime sei sinfonie (35-41), dette “viennesi” ad emancipare un genere, che nell’elaborazione contrappuntistica delle linee, nel potenziamento delle aree tonali e del principio della variazione tematica, anticipa  l’ormai  ventura sinfonia romantica. Lo stesso Brahms, conosciuto altrove per il rigore anseatico del suo stile di composizione, conobbe un secolo più tardi, a Pörtschach, il fascino persuasivo dell’atmosfera della capitale asburgica, se è vero che a questa si deve il carattere insolitamente languido della seconda sinfonia, detta, appunto, la “viennese”. Per comprendere i perché di un tale impatto, ci accorre in aiuto un cronista che da quella patria fu fuggiasco prima che essa fosse degradata a provincia tedesca. È Stefan Zweig, che nel suo memoriale autobiografico, «Il mondo di ieri» dice:

«Questa città assimilatrice e dotata di una particolare sensibilità attirava a sé le forze più disparate, pacificandole e ammorbidendole: era dolce vivere in quell’atmosfera di tolleranza, dove ogni cittadino senza averne coscienza veniva educato ad essere supernazionale e cosmpolìta».

Schubert e l’Incompiuta

Il talento del maestro viennese si era rivelato nel genere più che precocemente: le prime sei sinfonie, pur composte in giovanissima età (nell’arco di un lustro: 1813-1818) denunciano già uno stile ben profilato; si tratta però, a veder bene, di lavori “di bottega”: l’alto prodotto di apprendistato rivolto agli alunni dello Stadkonvikt, che lui stesso aveva frequentato da studente. Dal 1818, però, si apre per il ventunenne compositore un periodo segnato da un rapporto più consapevole (e di conseguenza più tormentato) con il genere sinfonico. Anteriore alla sola «Grande» n° 7 in Do maggiore, la sinfonia «Incompiuta» n° 8 in Si minore deve al caso buona parte delle sue fortune; se il direttore d’orchestra Johann Herbeck non ne avesse rinvenuto l’autografo in casa di tale Hüttenbrenner, infatti, oggi probabilmente non ci sarebbe stato possibile ascoltarla.

Sui motivi che spinsero l’autore ad accantonare il progetto è stata prodotta molta letteratura, non sempre fondata, né meritevole in questa sede di ulteriori approfondimenti. Quello che ci interessa, invece, è il “carattere” del lavoro, tanto inedito e sperimentale, che si potrebbero sovrascrivere le parole di Nikolaus Harnoncourt sul finale della 9° di Bruckner (il testamento spirituale del vecchio Anton, dedicato al «lieben Gott», il buon Dio), e cioè «una pietra lunare». Schubert ha venticinque anni e un portfolio già ricco di risultati portentosi nella musica da camera e nel Lied. Ma dire qualcosa di originale in campo sinfonico è un banco di prova che spinge la sfida a più alti livelli di magistero formale: lo “spirito” del maestro di Bonn, naturalmente, è un’entità con cui chiunque voglia lasciare un’impronta nel genere deve fare i conti, tanto più che all’epoca della stesura dell’ 8° sinfonia, il compositore tedesco era ancora in vita; ma invece di sfidare Beethoven con le sue stesse armi (dinamismo, confronto dialettico delle idee), Schubert si concentra anzitutto sul nuovo trattamento riservato alla tonalità. «Non più mero valore funzionale» scrisse Sergio Sablich «ma colore armonico inquietante, e discontinuo nei suoi nessi associativi»; allo stesso modo, l’incanto lirico tipico dell’autore si arricchisce ora di un ampliamento della tavolozza timbrica, che tornerà buono per l’orchestrazione di capolavori posteriori (tra i quali il miracoloso Ottetto in Fa maggiore D 803 opera postuma, composto due anni dopo sul modello del Settimino op. 20 di Beethoven).

La sifilide, che sei anni dopo lo avrebbe ucciso, inizia a dare segni di sé proprio nel 1822, allorché, in autunno, viene cominciata la stesura della sinfonia.  L’incontro con questo universo di oscurità e dolore precedentemente sconosciuto lascia traccia in molte composizioni degli ultimi anni di Schubert, e le adombra di una linea chiaroscurale carica di malinconie byroniane. Si veda il caso della Sonata in La minore D 784, composta all’inizio del 1823, con frammenti di scale cromatiche, schegge armonico-ritmiche al posto di temi e melodie, cambi brutali di tonalità (il tutto nel contesto di una forma-sonata ischeletrita e irriconoscibile), e lo si confronti con le prime battute dell’Incompiuta: un “fantasma” che prende corpo nel registro grave di violoncelli e bassi. L’intero primo tema, affidato a oboi e clarinetti sul sostegno ritmato degli archi, è ricco di tensione, e tale nuova dimensione è sottolineata dalle scelte di Schubert in fatto di orchestrazione. «I tromboni» scrive Tom Service «usati nella 5° di Beethoven a scopi trionfalistici, ritornano ora al loro simbolismo precedente, quello del numinoso e dello sconcertante», ruolo già assegnatogli da Mozart nella partitura del Don Giovanni, dove accompagnano sulla scena la statua del Commendatore. Dopo una tipica transizione schubertiana, tramite la quale i corni modulano alla sottodominante parallela di Sol maggiore, il melos viennese, quello dei Ländler e delle danze popolari, riaffiora nel secondo tema; esso è sospinto dall’afflato dei violoncelli prima e dei violini poi, sul sereno accompagnamento dei bassi dolcemente sincopato dai legni.

Ma è proprio quando la partitura sembra aver imboccato la strada sicura della cadenza, che la cantilena degli archi è bruscamente interrotta. Prima, una pausa gravida di attese, a spezzarne il ritmo; poi la rovinosa «caduta su un accordo ff in tonalità minore». È un espediente di indubbio effetto scenografico, che ricorda da vicino attese di ben più prosperi eventi: quelle sospiranti di Margherita nel celebre Gretchen am Spinnrade, la quale nel suo sogno ad occhi aperti lascia bruscamente il pedale dell’arcolaio (reso da Schubert diciassettenne con un disegno ipnotico di sestine di semicrome alla mano sinistra), allorché si prefigura il tenero bacio di Faust, secondo il testo goethiano.

Nella sezione centrale pulsa il cuore di tenebra della sinfonia. Invece di sviluppare i temi precedente esposti, come è consuetudine in una forma-sonata, l’interesse di Schubert si sposta pressoché totalmente (vanno esclusi i brandelli dell’accompagnamento del secondo tema, che, infettati dal contesto precario, appaiono ora sotto una luce finemente inquietante) sullo sviluppo delle otto battute d’apertura. Una variante dell’introduzione è infatti la protagonista di un climax vorticoso nella sottodominante (Mi minore) della tonalità principale, ancora una volta puntellato dalla voce preminente dei tromboni. Schubert intesse ora sapientemente diverse trame, che nel complesso rendono conto della drammatica potenza evocativa della musica: così le dissonanze date dal tremolo e dalle lente ascese cromatiche nei bassi, e così la reiterazione di frasi in progressione dinamica, sino a fortissimi che sprigionano forze ctonie, minacciose e inaspettate.  In questo Schubert è maestro: nei trapassi espressivi, nelle peregrinazioni armoniche, nelle modulazioni di colore, cioè, rese a volte talmente sottili che in certi casi si cammina da una zona sonora a quella seguente senza nemmeno darsi conto che il passaggio è avvenuto; e quanto più queste idee sono contornate, tanto più sono fragili e pronte a dissolversi.

https://www.youtube.com/watch?v=pRurBkG9MRg

L’Andante con moto, pur nella solare tonalità di Mi maggiore, è in realtà la faccia speculare del primo movimento, e si abbevera, per così dire, alla stessa fonte di questo; anch’esso è, in altri termini, un Giano bifronte solo illusoriamente pacifico. Dopo la breve apertura affidata a corni e fagotti, il primo tema sembra nient’altro che un sereno dialogo equamente distribuito tra archi e fiati; ma la sua natura, al pari di quella umana, è imprevedibile e cangiante. E così la trasparenza del tessuto sonoro si fa solennità, quando l’atmosfera, prima rarefatta e ora ispessita dalla densità dell’orchestrazione, diviene quella di un corale. Ancora una volta, il tessuto sonoro è percorso da increspature repentine; e ancora una volta sono le transizioni a scurirne l’apparente limpidezza. Nella dinamica del ppp, i primi violini trasportano la musica in nuovi reami armonici: prima in quello di La bemolle maggiore, poi in quello enarmonicamente più “naturale” di Fa bemolle maggiore (la stessa modulazione, adoperata in Metamorphosen da Richard Strauss, fu definita da Bryan Randolph Gillam come «l’amara parodia enarmonica» delle prime manifestazioni in Mi maggiore del brano). Il secondo tema è sostenuto, al pari del Ländler del primo movimento, dall’accompagnamento ritmato degli archi, ed è una nobilissima conversazione tra oboe e clarinetto. Il materiale tematico è poi ricapitolato nell’epilogo, prima che l’orchestra si taccia e la musica si spenga sulle ultime note affidate ai fiati.

In Schubert anche il più innocuo tra i propositi di architettura è abortito sul nascere. Non è questa una mancanza di mezzi tecnici e formali, che il giovanissimo compositore possiede già numerosi e di livello elevatissimo, ma è al contrario un deroga a questi, in favore di un processo di smaterializzazione del suono, in favore della creazione di immagini musicali elaborate a partire da pochi gesti; melodie che nella definizione di Ferdinand Hiller (riferita al modo di Schubert di suonare il pianoforte) sono simili a «visioni rivelate ad orecchie spiritualizzate». Un’altra faccia della questione sono i molteplici riferimenti al mondo della natura, con un approccio che a volte si svolge in termini di alto impegno concettuale (si ascolti a tal proposito il suggestivo ottetto di voci maschili, che, accompagnato da un quintetto d’archi, dà vita ai versi immortali di Goethe nel Canto degli spiriti sulle acque, D 705 nell’ultima versione). In quale contesto produce il ragazzo opere artigianali di fattura così pregiata? Oggi che egli è ad ogni effetto compreso nel novero della settemplice costellazione dei grandi compositori austriaci, risulta difficile immaginarsi che a dispetto degli onori tributatigli post mortem, godette in vita di una certa diffidenza, quando non di vero e proprio discredito, presso editori e pubblico suoi contemporanei. Non solo: egli non dispose, in tempi in cui non esistevano diritti d’autore, di alcun protettore. Non occupando altresì nessun incarico pubblico, e non componendo su richiesta di un mecenate dietro pattuito compenso, Schubert produsse musica in modo assolutamente indipendente. Aveva già provato questa strada Mozart, proprio negli anni viennesi, e quel felice periodo di libertà artistica aveva generato opere di incredibile audacia e sublime levatura.

https://www.youtube.com/watch?v=elrPp1olrYo

Quando nel 1785 Leopold Mozart dopo lunghe reticenze va a Vienna a trovare Wolfgang e famiglia, è certo di trovarlo in cattive condizioni; d’altronde egli stesso, uomo d’esperienza, lo aveva consigliato di non lasciare il posto sicuro offertogli dal principe arcivescovo di Salisburgo. Ma Mozart, che ormai risiede nella capitale da quattro anni, ha in mente un ruolo diverso per il compositore: non più uno scrivano salariato alle dipendenze d’altri, bensì un artista libero, che liberamente compone e vive della propria opera. E le cose, sorprendentemente, vanno bene. È periodo di Quaresima, i teatri sono chiusi; Mozart affitta a sue spese una sala, e il compenso resta a lui. Leopold pensava di trovare la famigliola (che ha già cambiato otto appartamenti) in una qualche bettola di periferia, e invece l’appartamento al 1° piano del n° 846 in Schulerstraβe (oggi Domgaβe), è spazioso e centrale, seppur caro d’affitto. In quelle stanze la sera di sabato 12 Febbraio si fa musica in casa, alla presenza di Haydn, in onore del quale Mozart ha composto (con tanto di dedica) i suoi ultimi sei quartetti d’archi; il K465, detto “delle dissonanze”, croce e delizia della musicologia occidentale, è fra questi. Come sottolineato dal biografo mozartiano Hermann Abert, osserviamo con immenso stupore come alle circostanze avverse e alla sovrana indifferenza che regnava a Vienna nei suoi confronti (tali furono di fatto gli ultimi anni di vita del compositore, il quale, incalzato dal bisogno urgente di denaro, sopravviveva con lezioni private e accademie) Mozart reagisse allontanandosi sempre di più dalla realtà delle cose, e la sua arte divenisse sempre più soggettiva, «come dimostrato dall’arricchimento armonico e contrappuntistico della sua scrittura». Non è un caso che la grande sinfonia in Re maggiore K 504 n° 38 detta «Praga», composta l’anno successivo, prenda il nome dalla città dove egli aveva trovato, diversamente da Vienna, considerazione e successo di pubblico; né lo è il fatto che solo quattro anni più tardi, nel 1790, i due quintetti d’archi gemelli con viola raddoppiata (K 516 e K 517), composti per bisogno impellente di contante, resteranno invenduti per due anni nel negozio dell’amico Michael Puchberg. Nessuno a Vienna, in quel periodo storico, richiedeva quintetti, e d’altronde la complessità tecnica richiesta da questi supremi capolavori trascendeva la volontà del più dotato tra i dilettanti: «solo Mozart», ci dice Carlo Cavaletti, «sembrava non essersene reso conto».

Circa 40 anni dopo, le cose non vanno molto diversamente per Schubert artista indipendente; come egli abbia continuato a scrivere musica sempre migliore, pur sconfortato dai rifiuti degli editori, resta un mistero del suo genio creativo. Le ultime tre sonate per pianoforte (D 958, 959 e 960), composte in un slancio non dissimile da quello in cui Mozart compose a Vienna le ultime tre sinfonie, sono uno dei vertici del repertorio sonatistico occidentale, e denunciano alcuni tratti comuni proprio allo Schubert sinfonico dell’ottava. Lo stesso Carlo Cavalletti scrive che esse sono caratterizzate «dalla totale rinuncia a ogni tratto esteriore e magniloquente in favore di un frequente ricorso a toni liederistici, dall’intenso sfruttamento del registro medio-grave della tastiera, dalla completa emancipazione dal modello beethoveniano». Non abbastanza però per convincere l’editore Probst di Lipsia, così come a Schott a Magonza non convengono, nello stesso periodo, i quattro Impromptu D 936 né tantomeno il Quintetto per archi D 956 opera postuma, che con l’inconsueta scelta del raddoppio del violoncello ai bassi devìa il colore verso toni caldi, simili a quelli della voce umana. Schubert morirà a pochi mesi da questi eventi, appena trentunenne. Il suo destino tragico lo accomuna a quello degli altri tre protagonisti con cui questo articolo si è aperto, e disvela al contempo altre somiglianze, oscure e presaghe, tre le loro opere. Quando al cavaliere del Lied von der Erde l’amico chiede dove è diretto, egli risponde: «vado, a vagare [Ich wandre] sui monti. Cerco pace al mio cuore solitario». E la risposta dell’ashavero mahleriano, dell’ebreo errante, sembra una magica eco al caso analogo del viandante schubertiano, il Wanderer infelice cui una voce misteriosa risponde: «Là dove tu non ci sei, là c’è la felicità!».

Roberto Imparato

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Articoli correlati