“Muß es sein?” “Es muß sein!”

Correva l’anno 1798, e un 28enne Ludwig Van Beethoven entrava nella peggiore delle sue crisi esistenziali.

Autore: Michela Marchiana

26 Marzo 2017
I dissidi e i disagi interiori tormentavano il compositore, che prese le distanze dal mondo che lo circondava, trovando consolazione solamente, ma nemmeno sempre, nel suo genio, nella composizione, nella musica.Questa profonda crisi era certamente dovuta alla sconosciuta malattia che affliggeva il compositore di Bonn. C’è chi ha detto otosclerosi, chi ha detto otite all’orecchio medio, ma qualunque sia stata la diagnosi, questa malattia fu motivo di grandissima sofferenza, fisica, psicologica e spirituale. Quella che era una parziale perdita dell’udito diventò totale nel 1822, e questo fu, per un compositore che però aveva una vita e una carriera da brillante esecutore, un validissimo motivo per rinchiudersi nel proprio guscio, senza uscire mai e senza permettere mai a nessuno di entrare. La chiusura di un capitolo, di un cerchio, era prossima e imminente; un uomo che aveva come scopo nella vita, come scopo dell’anima, l’ascoltare i suoni circostanti e il farsi ascoltare attraverso le sue note, ora, per uno scherzo del Destino, è stato privato proprio del senso che più gli era caro e necessario, l’udito. Ma fortunatamente, col suo grande genio, il compositore era riuscito a conservare nella memoria tutto quello che gli serviva per continuare a essere Ludwig Van Beethoven, la memoria e il ricordo dei suoni era un suono sufficiente per andare avanti. Documento testimone di questa profonda crisi è quello che oggi è conosciuto come “Testamento di Heiligenstadt”, datato 1802, e portato alla luce dopo la morte di Beethoven. È un documento indirizzato ai fratelli, Carl e Johann, in cui Beethoven cerca di spiegare a parole il proprio turbamento.

“PER I MIEI FRATELLI CARL E [JOHANN] BEETHOVEN
O voi, uomini che pensate o dite che io sono astioso, testardo o misantropo, come mi giudicate male. Voi non conoscete la causa segreta che mi fa apparire così ai vostri occhi. Fin dall’infanzia il mio cuore e il mio animo sono stati colmi del tenero sentimento della benevolenza, ed io sono sempre stato propenso a compiere grandi azioni. Considerate però che negli ultimi sei anni sono stato tormentato da un male senza speranza, peggiorato per colpa di medici insensati; di anno in anno sono stato ingannato con speranze di miglioramento, ed infine costretto ad accettare la prospettiva di una malattia cronica (la cui guarigione esigerà degli anni o sarà forse impossibile). Pur essendo dotato di un temperamento ardente e vivace, ed anche sensibile ai piaceri della società, sono stato presto costretto a ritirarmi in me stesso, a vivere in solitudine. […] Se mi avvicino alla gente mi assale un violento terrore; ho paura di correre il rischio che si noti la mia condizione. […] Oh, uomini, miei compagni, quando un giorno leggerete questo, sappiate che avete commesso un’ingiustizia contro di me: chi sia stato colpito dalla sventura può trovare consolazione nel caso di un infelice par suo, il quale, nonostante la Natura gli sia stata avversa, ha nondimeno fatto tutto ciò che era in suo potere per venire accettato nel novero degli artisti e degli uomini degni. […] Mi affretto con gioia all’incontro con la Morte. Se essa giungerà prima che io abbia avuto la possibilità di sviluppare tutte le mie capacità artistiche, allora sarà giunta troppo presto nonostante il mio crudele destino, e desidererei probabilmente ritardare la sua venuta – eppure anche così sarei felice, poiché non verrebbe forse a liberarmi da uno stato di perenne sofferenza? […]”

Nonostante questa profonda crisi, negli anni successivi, Beethoven riuscì ad accettare la propria condizione grazie al lavoro. Non senza crisi e sbalzi d’umore, certo. I suoi più cari amici erano vittime delle sue maniere brusche e di frequenti alternanze tra momenti di sfrenata allegria, furori improvvisi e disperati momenti di pentimento.
Certamente questo periodo di crisi e la malattia segnarono un nuovo periodo nella produzione beethoveniana. Abbandonato il grandioso stile del secondo periodo, quello “eroico”, le opere dell’ultimo periodo sono spesso considerate a sé stanti, perché non riproducono tecniche e stilemi dell’epoca ma nemmeno fondano una tradizione diretta, poiché poche tracce di una loro influenza si fecero sentire sulle opere dell’epoca immediatamente successiva alla loro composizione.
Caratteristica dell’ultimo periodo è un ritorno alla semplicità ed essenzialità che si possono avvicinare più al periodo giovanile che non a quello eroico. Una semplicità, sì, grazie alla quale però si raggiunge l’apoteosi musicale, la perfezione oltre alla quale non si può andare (basti pensare alla Nona Sinfonia).

Un ritorno alle origini, una composizione quasi primordiale è l’ultima in assoluto composta da Beethoven, prima di spegnersi nel Marzo 1827. Si parla del Quartetto n. 16, meglio conosciuto come Op. 135. Nel gruppo degli ultimi quartetti (cioè op. 127, 130, 131, 132, la Grande Fuga e, appunto, 135) è senza dubbio il più breve e il più semplice composto, ma dietro a questa semplicità si nasconde un pensiero di una perfezione assoluta, come fosse un’ascesi dello spirito dopo essere stato catarticamente purificato.
Formato da 4 movimenti (Allegretto – Vivace – Lento assai, cantante e tranquillo – Grave ma non troppo tratto, Allegro) è il quartetto che rappresenta quella crisi che il genio di Bonn era riuscito a superare e ad accettare infine serenamente, anche se di tanto in tanto la sua mera condizione di essere umano, mortale, tornava a dominare quella di spirito ormai sereno pronto “con gioia all’incontro con la Morte” (vedi sopra).

Il primo movimento, più degli altri, mostra la capacità, sempre presente in Beethoven, di basare un lavoro solo ed esclusivamente su un’idea fondamentale, una “cellula motivica” astratta, ritmica o, più raramente, melodica. La differenza con le altre composizioni è però che qui stavolta Beethoven non sviluppa la cellula, la lascia lì, la ripete, la modifica lievemente, ma non ne crea un vero e proprio tema. Si vede come la viola propone la cellula, ricevendo subito la risposta dei violini, con il sostegno del violoncello. Successivamente è tutto un gioco basato su quella cellula che diventa un disegno di terzine, di quartine, di ritmi puntati. Tutte queste idee della stessa cellula sono poi sovrapposte e concatenate. Ma a questo gioco tra gli strumenti si intromette poi un attimo di assoluta serietà, un momento di lenta meditazione, data dalle lente semiminime proposte prima dai quattro strumenti insieme e successivamente da singoli strumenti, che si fermano un secondo a riflettere per poi tornare alla leggerezza della cellula.  Il secondo movimento è il più significativo per quanto riguarda la crisi interiore che tormentava Beethoven, la sua paura nei confronti del mondo esterno, la sua apparentemente serena rassegnazione riguardo alla sua condizione e il suo umano e mortale dolore per la perdita dell’udito. È un Vivace che inizia in modo molto confuso, le note dei quattro strumenti non sono mai tutte insieme in tempo forte, ma si fanno strada tra sincopi, pause e accenti spostati. Così confusa doveva essere la mente del compositore, che aveva nella testa i suoni ma non poteva realmente percepirli, così li ha semplicemente messi tutti insieme nella partitura. Nel Mi bemolle di incontro dei quattro strumenti (da notare che è su un tempo debole) c’è un momento di sospensione, un attimo di silenzio assoluto. Ma questo silenzio terrorizza Beethoven ancora di più della sua confusione, dunque il tutto riparte, sempre confuso, ma nello spirito apparentemente sereno e felice. Il momento di più assoluta disperazione si verifica quando il desiderio di Beethoven di sentire veramente quello che compone e non solo immaginarlo lo porta a far ripetere ossessivamente lo stesso frammento alle parti del secondo violino, viola e violoncello, partendo da un fortissimo. Rassegnandosi poi all’idea della sordità, quella stessa ossessione che era il tentativo di ascoltare di nuovo si trasforma nella sua personale esperienza, così che tutti possano capire quello che ha vissuto, la sofferenza che ha provato: il fortissimo (ff) diventa dunque un impercettibile pianissimissimo (ppp), un’esperienza di perdita dell’udito. Ricomincia così lo Scherzo, in una confusa e disperata serenità, fino ad arrivare a un tentativo in extremis, l’ultima battuta, un’unica nota, suonata improvvisamente forte, provenendo da un pianissimo.

Accettata finalmente e stavolta davvero serenamente la propria condizione, parte il terzo movimento. Una preghiera, un tema con quattro variazioni, che rappresenta il ciclo vitale, la nascita, la sofferenza e la serena accettazione. Una composizione essenziale, fatta solo di armonia, senza temi elaborati o complicati. Il capolavoro del Quartetto e, oltre a ciò, un capolavoro assoluto in generale nelle composizioni di Beethoven, è questo movimento. Se si pensa anche ad altri lavori, prima tra tutti la Nona Sinfonia, l’apoteosi compositiva spostata verso la fine del lavoro e non all’inizio o al centro è una caratteristica di tutto l’ultimo Beethoven.  Il quarto ed ultimo movimento porta il titolo “Der schwer gefaßte Entschluß” (“La decisione difficile”), ed è basato su una domanda e una risposta, nel Grave ma non troppo tratto è la volta della domanda “Muß es sein?” (“Deve essere?”), domanda formata da accordi tesi, con tre note disposte secondo lo schema terza discendente-quarta ascendente. La risposta è data nell’Allegro, e sia nelle parole che nello schema è tutto ribaltato, la risposta è semplice, semplicemente “Es muß sein!” (“Deve essere!”), e le tre note sono messe terza ascendente-quarta discendente. La risposta crea dunque un’armonia tranquilla, distesa e serena.

Riguardo a questo movimento, e a questa domanda sono stati fatti studi su studi, riflessioni su riflessioni. La più semplice delle ipotesi però è che, dopo il terzo magico movimento, per Beethoven il quartetto aveva raggiunto l’apice, e per l’ascoltatore aveva raggiunto la perfezione. Era dunque impossibile comporre oltre. Ma l’editore che si sarebbe occupato della pubblicazione dell’op. 135 pretendeva che il lavoro fosse concluso, esigeva insomma un quarto movimento. Ed è qui che Beethoven, quasi lamentandosi come un bambino che non vuole finire di mangiare le verdure, gli chiese “Muß es sein?” e l’editore, quasi rimproverandolo, rispose “Es muß sein!”. Questo episodio, questa semplicità spiegherebbe il finale giocosamente pizzicato dalle quattro parti, come a tornare bambini e divertirsi con le minime cose. Certamente un’interpretazione così è la più ingenua e felice che ci possa essere, poi senza dubbio dietro c’è un quid di filosofico e tormentato che l’essere umano dotato di pensiero e di ragione può solo far finta di non cogliere, e cioè la domanda sulla vita, sulla Morte che viene a prendere gli uomini, che prima si struggono e odiano il Destino e la Natura, ma poi serenamente rassegnati si chiedono “Muß es sein?” e altrettanto serenamente si rispondono, quasi con sollievo “Es muß sein!”.

Michela Marchiana


 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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