Fra Hanon e Disney: il concerto per pianoforte e orchestra n° 2 di Shostakovich

Una delle cifre più peculiari del genio è la semplicità: le menti più eccelse non sono solo quelle che assurgono alle vette del sapere, dell’arte e della scienza, ma quelle che da lassù riescono a comunicare, divulgare e rendere accessibili le meraviglie che ivi hanno trovato.

Autore: Rosario Dipasquale

5 Marzo 2017

Il genio creatore risplende di una luce particolare quando le sue opere risultano essenziali, lineari, eteree, come se nulla – non una nota, non un grammo di marmo, non una pennellata di colore – possa apparire superfluo ed essere eliminato.

Non è un caso – per fare un esempio – che le opere di Mozart vengono ascritte come acme del genio umano, nel campo musicale: la loro brillante freschezza e soave malinconia è trasparenza di rigore, complessità, profondità,  in ugual misura dilettando l’ascoltatore con quella venatura di malinconia sorridente e indulgente che tutto comprende, e lo studioso con la sapiente costruzione formale dei suoi capolavori.

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Se Mozart è l’archetipo del genio in questo senso, ritroviamo una composizione particolarmente felice e paradigmatica, nella sua geniale inventiva ed elegante semplicità, facendo un salto in avanti direttamente al XX secolo, nel concerto per pianoforte e orchestra n°2, op. 102 di Shostakovich – compositore geniale la cui estesa e poliedrica produzione spazia in ogni genere: proprio come per Mozart, anche il catalogo del compositore russo tocca praticamente tutti i generi musicali, dall’opera al quartetto, dalla musica da film (che Mozart non ha potuto frequentare per mere ragioni anagrafiche!) alla sinfonia – e proprio come Mozart, anche Shostakovich scriveva le sue partiture “in verticale”, portando avanti simultaneamente la costruzione armonica della polifonia, che era evidentemente già un’idea chiarissima nella mente immaginifica del compositore, prima di diventare segno grafico sul pentagramma.

Un concerto d’occasione

Il concerto n° 2 per pianoforte fu scritto da Shostakovic per un’occasione precisa, l’esame di diploma del figlio Maksim, e – va detto – pare non fosse tenuto in grande considerazione dall’autore stesso, che dichiarava (in una missiva all’amico e confidente Denisov) che tale lavoro “non ha alcun merito artistico che possa riscattarlo”: si trattava di una vera, impietosa autocritica per un lavoro che lo stesso autore riteneva minore, o era solo un modo per mantenere un basso profilo, memore di infelici incidenti con la censura del partito dominante in URSS? In passato infatti, Shostakovich aveva avuto modo di assaggiare la terribile e pervasiva critica staliniana, sempre ottusamente in agguato (si pensi all’opera Lady Macbeth del distretto di Mcensk). Considerati i rapporti tormentati tra l’autore e il regime dittatoriale, quest’ultima ipotesi non è del tutto escludibile; certo è che il concerto in questione non ha alcuna sovrastruttura ideologica, nè riferimenti politici nè intenti propagandistici: in questo lavoro, forse, Shostakovich ha voluto permettersi il lusso di scrivere in assoluta libertà, senza distrarre la sua ispirazione dalle forche caudine della censura di regime (sebbene Stalin fosse morto nel 1953); in quest’ottica, non risulterebbe di troppo un’autocensura che derubrica il concerto quasi ad un semplice esercizio, in modo da farlo “passare” più facilmente sotto la spietata (e miope) lente di ingrandimento del regime comunista.

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Che si trattasse di una composizione meramente d’occasione, o un lavoro totalmente scevro da condizionamenti ideologici, certo è che il concerto n° 2 per pianoforte e orchestra ha sempre incontrato il favore del pubblico – e fra i motivi di questa popolarità non possiamo non osservare la geniale semplicità con cui si presenta.

Guida all’ascolto

Il primo movimento del concerto vola via d’un fiato: l’estrema compattezza con cui si svolge non è dovuta solo alla sua esigua lunghezza, bensì alla disarmante, sorprendente fluidità con cui le idee musicali sono esposte, sviluppate, riprese. Siamo distanti dalla complessità formale dei concerti per pianoforte classicamente monumentali, come Beethoven e Brahms, ma quel che viene perso in termini di magniloquenza strutturale ci viene restituito in freschezza e vivacità: il movimento scorre spensieratamente gioioso, venato da un’ironia spiritosa e ilare, i temi vengono presentati in rapida successione, in una tavolozza timbrica secca e stilizzata, che li rende orecchiabili pur essendo costruiti raffinatamente; l’intera costruzione rispetta poi formalmente la classica forma di successione e concatenazione di esposizione, sviluppo, cadenza e coda tipica dei concerti classici e romantici, e la giustapposizione di temi goffamente militareschi – l’uso del rullante conferisce un carattere di infantile, giocosa marzialità – con i temi principali enunciati dal pianoforte (il secondo, in particolare, lirico e dolcissimo), muove tutto il primo tempo in un equilibrio miracoloso, in cui l’orchestra canta con sicurezza e accompagna con discrezione i molti passaggi a ottave del solista; siamo lontanissimi dal clima cupo, grottesco, delle grandi sinfonie o quartetti di Shostakovich, i lavori per cui l’autore è più conosciuto: qui sembra tutto gioco, sorriso, allegria, un contagio scanzonato di brio e spensieratezza che quasi si fatica ad attribuire ad un autore come il nostro, e invece innamora e conquista fin da subito.

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Il secondo movimento, in cui l’orchestrazione si riduce ai soli archi e al corno, costituisce, in un modo che potrebbe definirsi ossequioso alla definizione di concerto (composizione generalmente in tre movimenti, di carattere movimentato e virtuosistico gli estremi, e di carattere più pacato, riflessivo il centrale), una parentesi lirica, malinconica e sognante, incastonata fra i due movimenti veloci; anche qui non è fuori luogo richiamare un paragone con Mozart e i suoi concerti per pianoforte, quantomeno per il carattere amabilmente elegiaco, soffuso, dolcissimo, con il solista che conduce il discorso in un’atmosfera ovattata, dove il sostegno offerto dagli archi è un tappeto di suoni rarefatti. Dolente, ma non disperato, anche questo movimento si muove con estrema concisione; alcune sonorità non mancano di richiamare l’estrema iridescenza del concerto in sol di Ravel, di oltre trent’anni precedente.

Il terzo movimento infine, conclude il concerto con ritmo forsennato, in un clima da tripudio scintillante: accanto al solista brilla il virtuosismo dell’orchestra che segue il pianoforte in passaggi ribattuti velocissimi, in cui si ravvisa qua e là un altro dei caratteri tipici della musica di Shostakovic, una sorta di clima circense, sempre in bilico tra l’euforia e la caricatura. Il movimento non lascia un attimo di respiro, facendo uso di ritmi composti in ⅞ e scale pentatoniche, che invece di rendere più arduo l’ascolto, conducono l’ascoltatore in un clima di febbrile eccitazione, sottolineata dalla bonaria presenza sarcastica degli ottoni, che porta rapidamente alla luminosa conclusione del concerto.

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La bellezza come pedagogia, lo studio come diletto

Sicuramente, il terzo e ultimo movimento è quello in cui più marcatamente si avverte la destinazione finale del concerto, ovvero l’esibizione del figlio all’esame di diploma: si narra che Shostakovich scrisse il concerto anche per “costringere” il figlio a studiare alcuni passaggi tecnici cui, altrove, Maksim non si dedicava con la necessaria attenzione. Ecco allora un’altra cifra della genialità nascosta in questo concerto, apparentemente minore: essendo invero piuttosto difficile riuscire a scrivere pezzi che, accanto all’esercizio della tecnica, costituiscano un diletto, Shostakovich rientra nel novero di quei geni che, componendo musica destinata all’ascolto (e non esclusivamente al mero esercizio tecnico), sapevano inserirvi passaggi che costringono l’esecutore ad uno studio continuo e attento, impegnando non solo intelligenza e sensibilità, ma anche, e in modo vario e molteplice, tutte le diverse risorse tecniche necessarie ad affrontare, risolvere ed eseguire correttamente (che non vuol dire soltanto “note giuste”) i passaggi musicali tecnicamente più impervi e problematici.

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Anche da questo punto di vista, didattico e pedagogico, possiamo rintracciare nel passato un antesignano del concerto di Shostakovich, pensando ai concerti per strumento solista di Vivaldi: la loro inesauribile verve melodica e armonica rende ciascuno di loro un gioiellino, un miracolo di concisione e compiutezza, in cui cimentarsi rappresenta sempre una sfida gustosa e appassionante per ogni esecutore: se infatti suonare – bene – Vivaldi rappresenta una grande soddisfazione per i continui, sottili e stupefacenti giochi che la sua musica compie, e anche per il virtuosismo brillante – ma mai fine a se stesso – è innegabile come tale sfida può dirsi vinta solo padroneggiando pienamente le risorse virtuosistiche ed espressive degli strumenti chiamati a sostenere le parti più impegnative: l’esecutore che studi un concerto di Vivaldi non diventerà solo un ottimo esecutore di quel particolare concerto, ma un ottimo strumentista capace di fronteggiare qualsiasi pezzo grazie alla tecnica posseduta e affinata studiando Vivaldi.

In questo modo, lo studio del concerto (da Vivaldi a Shostakovich) non si risolve unicamente nella riuscita esecuzione di questo o quel passaggio, ma porta invece a padroneggiare la tecnica strumentale in sé – costituendo quindi una più appagante integrazione di quegli esercizi assolutamente necessari, ma spesso estenuanti nella loro ripetitività e frustranti nella loro apparente autoreferenzialità: nel terzo movimento del concerto di Shostakovich, sono ravvisabili interi passaggi che si rifanno direttamente agli studi di Hanon, una sorta di Bibbia fondamentale per ogni pianista: inseriti nell’architettura del concerto (e a questo funzionali), tali passaggi richiedono chiaramente uno sforzo continuo ed attento, ma lasciano sempre riconoscere distintamente l’idea musicale che costituisce l’identità del brano e ne fa un pezzo da concerto, da ascoltare e riascoltare per la sua bellezza – rendendo del tutto invisibili le componenti didattiche, che anzi trascolorano in un discorso musicale compiuto e riconoscibile, la cui cifra principale è proprio quella solare semplicità e immediata raffinatezza che si dipana nei canonici tre movimenti.

Colonna sonora – o colonna visiva?

L’amore del pubblico per questo concerto, così immediato e solare, è testimoniato poi dall’uso che ne ha fatto la Disney, che lo ha scelto per inserirlo nel suo film Fantasia 2000, come commento musicale alla fiaba del soldatino di stagno di Andersen, aumentando notevolmente la popolarità del concerto, e raggiungendo un uditorio forse non particolarmente avvezzo alle sale da concerto.

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Anche in questo film, come in molti altri, sembra che la Disney non si sia fatta troppi problemi a cambiare, fino allo stravolgimento, l’originale fonte letteraria che costituisce il soggetto della sempre splendida animazione: la fiaba del soldatino di stagno (similmente a molte altre di Andersen) ha infatti un carattere principalmente malinconico, senza il lieto fine cui assistiamo guardando il cartone animato; notiamo che la Disney ha ovviamente tutto l’interesse a piegare le fonti letterarie scelte, per adattarle a una narrazione che appassioni e non intristisca i suoi spettatori principali, i bambini: e per favorire l’immedesimazione e il coinvolgimento dei più piccoli non esita a cambiare trama e personaggi, anche a costo di snaturare del tutto la storia narrata.

Nel caso di Fantasia 2000 e del soldatino di stagno, tuttavia, possiamo azzardare anche un’altra lettura dello stravolgimento operato sulla fiaba di Andersen: e la chiave di questa lettura sta proprio nella musica scelta per accompagnare l’animazione, ovvero il primo movimento del nostro concerto. Se la Disney avesse voluto mantenersi fedele al testo della fiaba, la musica di Shostakovich si sarebbe rivelata senz’altro inadeguata: troppo gaia, radiosa, divertente rispetto alla vicenda; e se invece, possiamo chiederci, la vicenda della fiaba sia stata deliberatamente tradita e fraintesa per adattarla alla musica? Se il punto di partenza per la realizzazione di questo episodio del film non fosse la fiaba, ma la musica?

Non avremmo da stupirci molto: quando lavorava al film Fantasia, diretto precursore del film Fantasia 2000 (quest’ultimo infatti costituisce a tutti gli effetti una celebrazione di quello), Walt Disney pose l’accento fin dall’inizio sulla maggiore importanza della musica: diceva infatti che “nel nostro materiale ordinario, la nostra musica è sempre dietro l’azione, ma su questo [film] noi dovremmo rappresentare questa musica – non adattarla alla nostra storia”. Ecco la chiave per interpretare la lettura della fiaba di Andersen così come la Disney l’ha voluta raccontare, alterandola: è la musica, il punto di partenza, non la sequenza animata! Walt Disney voleva produrre cartoni animati (e Fantasia sarà il progetto più ambizioso e rischioso, nel lontano 1940, in questo senso) dove “la pura fantasia si rivela… l’azione controllata da un motivo musicale ha grande fascino nel regno dell’irrealtà”: sono le immagini animate che vengono ideate, schizzate e disegnate in funzione della musica, che è la protagonista principale e indiscussa; così in Fantasia 2000 il concerto per pianoforte e orchestra di Shostakovich non è un prezioso accompagnamento alla sequenza animata, bensì costituisce la narrazione primaria cui quest’ultima dà concretezza visiva e consistenza di immagini che accompagnano, commentano e amplificano le emozioni che scorrono nella musica di Shostakovich.

Se è vero questo ragionamento, come meravigliarsi che la vicenda del soldatino di stagno sia stato modificata in funzione della musica? Come dare torto alla Disney, che ha voluto immaginare, sulle suggestioni dettate dal carattere semplice e immediato del concerto, un finale del tutto diverso – e perfettamente intonato – per la fiaba di Andersen?

Il concerto per pianoforte e orchestra n°2 di Shostakovich, la spontanea e incontaminata gioia che lo pervade, l’irrefrenabile ottimismo che ne emana, e, sopra ogni cosa, l’immediata semplicità con cui conquista il nostro animo dal primo ascolto all’ennesimo ri-ascolto, sono allora non solo l’epifania apparentemente marginale di un genio assoluto – anche come didatta – ma anche un ottimo motivo per ri-leggere una fiaba triste, dandogli un nuovo finale, positivo e luminoso: e chissà in quanti abbiamo bisogno di questa grande magia, che la musica di questo concerto ci può regalare, facendoci credere, alla maniera di Walt Disney, che quel che possiamo sognare, lo possiamo anche fare. Anche cambiare i finali che sembrano già scritti.

Rosario Dipasquale


Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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