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Dibattito: Perché alle persone piace Rovazzi e non Stockhausen?

Autore: Francesco Bianchi

4 Febbraio 2017

Questo articolo è la continuazione del dibattito apertosi a partire dal mio articolo sulla musica contemporanea (Perché alle persone piace Rovazzi e non Stockhausen?) e sul quale abbiamo pubblicato il contenuto di un nostro lettore (Cos’è la musica leggera? Alcune possibili risposte al caso Rovazzi-Stockhausen), che volevo innanzitutto ringraziare per l’attenzione che ha dedicato al tema dell’articolo e per l’interessante contributo che ci ha inviato. Scendendo subito nel merito vorrei subito precisare che il mio discorso non si incentra sul tema del linguaggio artistico delle avanguardie, argomento che aprirebbe una infinità di questioni che eccedono le mie competenza. Stockhausen è citato solo a mo’ di simbolo e non c’è alcun riferimento puntuale ad un artista specifico. Lo dico anche perché diverse persone si sono soffermate molto su questo aspetto che però non era quello su cui volevo incentrare il discorso.

Il mio intento era quello di portare a coscienza la differenza che c’è nei processi di composizione di un pezzo “common practice” e un pezzo “uncommon”: tutto ciò che esce da grandi case discografiche con l’intento di avere la massima diffusione possibile, si produce avendo a monte sostanzialmente uno studio di mercato, affinché si crei un prodotto che sia il più aderente possibile alle richieste delle persone. Proprio come accade con il lancio di un nuovo bagnoschiuma. Oltre a non essere arte, la musica “common” è veicolo di contenuti e valutazioni che reiterano delle strutture discorsive che hanno una implicazione economica e politica: creano modelli, inducono comportamenti, in sostanza è musica schiava dell’industria. La musica “uncommon”, che ho definito così in quanto l’intento politico di resistenza è una delle chiavi di lettura di molta parte di questa musica (pensiamo a come Deleuze abbia influenzato l’elettronica sperimentale), è definita da una tendenza radicalmente opposta, ossia tentare di mantenere delle aree d’ascolto provinciali e deterritorializzate rispetto alle scansioni operate dall’industria. La distanza di questi due estremi è colmata ovviamente da un continuum in cui si può collocare tutta la musica, gli Area come Ludovico Einaudi o Michel Camilo, ma andare a stabilire come debbano essere posizionati ognuno di questi mi sembra infruttuoso e interminabile. Inoltre sono sempre d’accordo con Benjamin che nella famosa Premessa Gnoseologica afferma: “La storia filosofica come scienza dell’originario è la forma che dagli estremi opposti, vale a dire dagli eccessi apparenti dell’evoluzione, fa scaturire la configurazione dell’idea intesa come una totalità caratterizzata dalla possibilità di una coesistenza significativa di tali contrari”. E’ dalla dialettica degli opposti che penso si debba partire quando si vuole comprendere un fenomeno nella sua esistenza, dunque nella sua autocontraddittorietà.

Per quanto riguarda la definizione di musica leggera mi trovo in disaccordo con quanto scritto dal nostro lettore. Le categorie concettuali di Eco, che tu richiamavi, sono parte di un discorso semiologico, ed è valido per alcune prospettive, carente per altre. Innanzitutto dividere la portata dell’opera tra significato e informazione non è secondo me pregnante dal punto di vista estetico: un’ottica comunicativa di questo genere tralascia totalmente ciò che c’è a monte dell’opera d’arte, ossia la relazione fra il linguaggio e il reale. Penso che un’opera d’arte possa essere colma di informazione perché l’artista lavora non sulla parola ma sul linguaggio. Intendo dire che il “vertere” del verso poetico è gesto di un continuo ritorno a sé, nel tentativo di indicare, e non dire, il luogo del linguaggio stesso: lo scarto fra poesia e prosa si dà, a mio personale avviso, nel momento in cui accade la torsione interna al linguaggio dal significare al mostrare, alla deixis. Per cui individuare il tratto specifico dell’opera d’arte nel distanziarsi dall’univocità della prosa mi sembra interessante dal punto di vista di una analisi sociologica, ma riduttiva dal punto di vista filosofico. Infatti concentrarsi sull’aspetto di apertura significante dell’opera d’arte implica una sua interpretazione interna ai limiti del linguaggio, mentre l’origine dell’opera d’arte penso vada rintracciata nel continuo tentativo della parola di trascendere la propria funzione di luogo di accadimento del reale.

Per rispondere anche sul significato di musica “leggera” credo che la questione implichi di parlare di due temi decisivi: la techné  e il concetto di riproducibilità dell’arte. Quando viene citata l’esistenza di musica classica che veniva composta solo come musica d’occasione è importante tenere presente che l’idea di tecnica, sottesa a queste pratiche compositive, è qualcosa che è per noi ora difficilmente accessibile. Fino alla fine del Settecento si imparava il mestiere del musicista come un sapere tecnico, senza una formazione filosofica, così come allo stesso modo il mestiere di pittore o di scultore si imparava nelle botteghe e non nelle università. Tuttavia nessuno si sogna di dire che la Pietà del Bellini o l’Estasi di Santa Teresa del Bernini sono semplici decorazioni. Questo perché l’idea di tecnica artistica che si aveva in quel periodo è qualcosa di simile alla techné greca, cioè la capacità di portare all’esistenza tramite una forma l’essere contenuto nella materia: colui che coltiva la techné, ancor prima di pensare alla funzione che l’oggetto che deve produrre andrà a svolgere, ha di fronte a sè la vocazione ad essere un demiurgo che fa sorgere le cose dall’informe. In questo senso anche se si tratta di musica di sottofondo ha una valenza totalmente diversa e difficilmente concepibile per chi è nato, come noi, nell’epoca della catena di montaggio. E con questo passo al secondo punto, ossia alla riproducibilità dell’arte: come notava il già citato Benjamin, la possibilità di replicare serialmente opere d’arte, fa loro perdere l’aura, ossia quel carattere di sacralità, di “manifestazione di una lontananza”, che ogni oggetto d’arte aveva sempre portato con sé. Ascoltare Verdi mentre si cucina è una cosa che possono fare tutti, e che faccio anch’io, e che ovviamente svilisce la musica in sé. Tuttavia non è che il “Trovatore” diventa così un’opera da brunch: è necessario saper distinguere i contesti e impegnarsi a coltivare la propria capacità estetica. Sono dell’idea, infatti, che l’arte l’abbia perso l’aura solo di fronte a coloro che hanno smarrito quella sensibilità al bello e al sacro che la tecnica (ora sì in senso moderno) ha contribuito a far scemare.

Per concludere mi piacerebbe allargare il discorso a forme musicali come il Progressive o il Jazz, ma ciò implicherebbe la necessità di fare delle considerazioni che ci allontanerebbero troppo dal tema che stiamo discutendo. Se tuttavia si vorrà continuare la discussione anche su questo tema, noi qui a Quinte Parallele siamo felicissimi di proseguire questo dialogo con tutti i nostri lettori e per questo vi invitiamo a scriverci ancora.

Francesco Bianchi

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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