Cos’è la musica leggera?

Dibattito: Perché alle persone piace Rovazzi e non Stockhausen?

Autore: Willy Bettoni

2 Febbraio 2017

L’articolo dal titolo “Perché alle persone piace Rovazzi e non Stockhausen?” apparso qualche tempo fa su questa pagina solleva una questione fondamentale nel discorso intorno alla musica, e cioè: perché il video di Rovazzi sfiora 120 milioni di visualizzazioni su Youtube, mentre la quinta sinfonia di Beethoven si ferma a 15? Per affrontare il discorso sarebbe necessaria un’approfondita analisi sociologica che miri a evidenziare quello che è il ruolo della musica nella società di oggi.
Nella speranza che questo tema non venga abbandonato, in questo luogo farò un passo indietro e cercherò di evidenziare le criticità connesse al termine “musica leggera”, mettendo in evidenza che questo non è un genere particolare, ma una categoria nella quale è possibile far rientrare i più disparati stili musicali. Quindi, emergerà come non solo ogni musica può diventare “leggera”, ma anche che la “musica classica” tout court, e non solo quella contemporanea, ha perso di significato per la maggior parte dei fruitori, risultando qualcosa di estraneo alla nostra esperienza.

Le parole sono importanti

In primo luogo, però, vorrei suggerire una precisazione terminologica, sostituendo all’espressione “musica classica” quella di “musica d’arte”. Tralasciando questa osservazione, le due domande circa l’incomprensibilità della musica contemporanea possono essere astratte dalla tematica musicale e riferite all’intero ambito dell’arte, dalla letteratura alla poesia, alla pittura, ecc. Ma se volessimo rimanere legati all’ambito musicale, in cui tutti noi ci muoviamo sicuramente più agevolmente, la risposta alle questioni sollevate è relativamente semplice nella sua formulazione: in un determinato periodo storico, indicativamente a cavallo tra 800 e 900 ha inizio un fenomeno socio-culturale per cui avviene un progressivo e inarrestabile discostamento tra linguaggio musicale e gli strumenti a disposizione dei fruitori che consenta loro di decodificare quel particolare mezzo espressivo. In sintesi, riadattando alla buona le parole di Adorno, il sistema tonale era grossomodo fino alla fine dell’ottocento un linguaggio estremamente comprensibile ai più, dove per “più” si intende le classi dominanti, borghesia in particolare. In questo arco temporale è possibile infatti far coincider i termini società e borghesia. Semplificando molto si può affermare che sul finire del XIX secolo la borghesia entra in una crisi profonda che sfocerà nella prima guerra mondiale. Al di là delle implicazioni storiche del decadimento della borghesia, questo processo porta al disfacimento di un canone estetico, ma anche sociale e culturale, che era rimasto valido per più un secolo. La società si disgrega e perde l’orientamento. In questo magma l’artista non può fare a meno di rinchiudersi nella propria soggettività. Questo ha due implicazioni: da un lato le opere diventano via via sempre meno comprensibili proprio perché frutto di un linguaggio nuovo, personale e quindi non provvisto, o non ancora provvisto, di un codice interpretativo; dall’altro lato queste opere hanno il pregio di mettere in mostra quelli che Adorno chiama gli chocs del reale. L’esempio classico è Erwartung op.17 di Schönberg. Proprio perché la realtà diventa qualcosa di indecifrabile, terribile, traumatico e quindi non più interpretabile tramite il linguaggio finora utilizzato, l’artista è costretto a trovare nuove vie per poter esprimere il suo punto di vista. Bisogna rilevare che nella lettura adorniana il punto di vista non è soggettivo, ma estremamente oggettivo in quanto messa a nudo della realtà, perché il compositore «nel suo isolamento» fa comparire la società intera. È più o meno da questo momento storico che si apre una frattura insanabile tra linguaggio artistico, o meglio, tra i linguaggi dell’arte e i codici a disposizione dei fruitori per comprenderli. Quindi, credo che la vera domanda possa essere formulata nei seguenti termini: come si è potuta creare questa frattura? O meglio: com’è possibile che questa frattura non sia stata ancora ricomposta? Qui si aprirebbe una parentesi infinita sull’insegnamento dell’educazione musicale e all’ascolto che ci porterebbe troppo lontano dal punto del discorso.

http://www.youtube.com/watch?v=TQQdYokbp4E

L’idea di musica leggera

Tornando alla questione principale, credo ci sia da operare anche una distinzione di piani. La “musica leggera”, o la concezione di essa, non è affatto nuova. Per esempio i quartetti per archi nel ‘700 erano concepiti per essere “sottofondo piacevole”, musica d’occasione appunto, rispettando esattamente quella che era la concezione kantiana della musica. Dall’altra parte troviamo la musica popolare, composta prevalentemente da ballate e canzoni, ma che esercita una notevole influenza sulla musica d’arte. Questa connessione tra i due generi è andata quasi completamente perduta. Tornando per un attimo alla musica d’arte del ‘700 c’è da segnalare che all’epoca essa era a malapena uscita dalla sua concezione come téchne, quindi un saper fare pratico, e non era ancora identificata come arte nel senso di beaux art con una sua dignità estetica. Ci vorrà del tempo e la determinazione di molti compositori perché l’artista trovi il suo posto nella società. Quindi, credo che creare un parallelo tra Stockhausen e Rovazzi (un nome tra mille) sia un po’ un azzardo, pur comprendendo pienamente la carica provocatoria di questo accostamento. Da una parte parliamo di musica d’arte, dall’altra parliamo di puro intrattenimento. Semmai al giorno d’oggi assistiamo ad un processo ancora più umiliante, ossia la mercificazione, la svalutazione, la riduzione a livello di intrattenimento della musica d’arte. Magari questa fosse lasciata fruire a chi dispone di un codice per comprenderla. Questo non significa, ovviamente, rinchiuderla nell’esoterismo. Invece no; ci tocca essere spettatori di pubblicità di prodotti per pulire la casa che utilizzano temi dalla Carmen di Bizet; la terza suite di Bach diventa un jingle di una nota trasmissione televisiva; o ancora, Beethoven e Tchaikovsky diventano sfondo di pubblicità di automobili o della Champions League. Eppure, dal mio punto di vista esiste qualcosa di ancora più umiliante: vedere in vendita dischi dai titoli evocativi come “suoni della primavera” che altro non sono che una miscellanea di brani riuniti senza nessun nesso logico; interprete il musicista/fenomeno del momento ritratto in copertina in un attimo di rapimento estatico. Insomma, tutto questo rientra nel “sentire senza fatica”.

Il problema della facilità

Il concetto di easy listening è il vero dramma della musica. A titolo di esempio faccio notare che su Spotify esiste una playlist dal nome Easy Listening Classical for Study, Work, Relaxing, Chillout, Anything but serious Listening. Quindi, concludendo, la concezione leggera della musica fa sì che questa venga utilizzata o come sottofondo piacevole, o per riempire il silenzio, o per isolarsi dal resto del mondo. E in questo suo utilizzo rientrano anche Beethoven, Mozart e compagnia bella, perché l’aggettivo “leggera” non si riferisce tanto alla complessità formale della musica e di conseguenza alla nostra capacità di intenderla, quanto piuttosto ad un suo utilizzo, appunto leggero. La musica d’arte è quella musica, o meglio è quel momento in cui la musica viene esperita come attività culturale nel più ampio senso del termine [Bildung]. Ovviamente Lady Gaga al Gewandhaus di Lipsia non sarebbe musica d’arte lo stesso.
Inoltre, se prendiamo per vera la teoria dell’informazione espressa da Umberto Eco nel suo capitale saggio Opera aperta, allora la differenza tra musica “leggera” e musica “d’arte” risiede nella quantità di informazione e significato che porta. La tesi sostiene che «L’informazione è dunque una quantità additiva, è qualcosa che si aggiunge a ciò che già so e mi si presenta come acquisizione originale»; e ancora «l’informazione in quanto additiva è legata alla originalità, alla non-probabilità». Quindi, la musica leggera ha il massimo significato proprio perché fa uso di un linguaggio immediatamente comprensibile, ma non dice nulla di nuovo. Dall’altra parte, la musica d’arte ha il massimo livello di informazione. La quantità di novità che porta all’orecchio dell’ascoltatore è massima, ha un alto livello di non-probabilità, mentre il suo significato non è univoco. Da qui la concezione dell’opera d’arte come intrinsecamente aperta. Usando ancora le parole di Eco: «nell’arte, uno degli elementi di singolarità del discorso estetico sia [è] dato proprio dal fatto che viene rotto l’ordine probabilistico del linguaggio […]». Quindi, la distinzione non dovrebbe essere effettuata su una categorizzazione dei generi musicali, a sua volta basata su un canone sociale/culturale, quanto piuttosto su una differenziazione dei livelli del rapporto significato/informazione.
Collocare esponenti del rock progressivo quali Emerson, Lake and Palmer, Procol Harum, per non dimenticare la PFM, o il Banco del mutuo soccorso, o ancora gli Area, nella categoria “musica leggera” mi sembra un po’ riduttivo. In primo luogo perché il linguaggio da loro utilizzato non è sicuramente riconducibile alla common practice e, in secondo luogo, perché tramite la loro musica hanno veicolato nuove idee, hanno rivoluzionato (o creato) un (nuovo) genere musicale, hanno rotto con il linguaggio della convenzione. Il fatto che anche loro, al pari di tanti compositori di ieri e di oggi, abbiano scritto musica aderente al canone della common practice non è sufficiente per costringerli in tale categoria. Adorno, nel suo saggio incompiuto su Beethoven, afferma che «Gli stereotipi dell’ultimo Beethoven sono del tipo: “Mio nonno diceva sempre”». O ancora, Schönberg ci ricorda nel suo manuale di armonia che alcuni accordi non rappresentano una novità in sé, ma che nuovo ne è l’utilizzo, la loro posizione nel brano, in poche parole la loro funzione; quindi, ancora una volta, la quantità di informazione che ci forniscono. La sonata per pianoforte op.110 di Beethoven espone il suo primo tema sostenuto da un basso che si muove sugli accordi di I e di V grado.
Non fa altro che affermare continuamente la tonalità di lab maggiore in quello che potrebbe essere considerato un esercizio di stile, a prescindere dal livello di gradimento estetico. Il nuovo, l’interessante, ciò che soddisfa e stupisce il nostro orecchio non è la novità in sé e per sé, ma le possibilità che il nuovo utilizzo del vecchio materiale dischiude. Tra l’altro credo che il concetto di novità in senso assoluto sia inapplicabile alla musica perché, parafrasando le parole di Heidegger, essa non pro-gredisce affatto, ma segna il passo sul posto; la musica ripensa costantemente se stessa. Dalle origini la musica non ha fatto altro che ampliare il proprio campo di possibilità a partire da quel primo germe [Ur-sprung] che, però, già le conteneva in potenza tutte. Insomma, quello che ci sorprende è la storia del materiale musicale, il suo movimento, le sue sorti (destino). Quell’aggraziato tema della trentunesima sonata beethoveniana ha scritto la storia della musica; si potrebbe chiamare questo processo “suspense intellettuale”, in quell’infinito gioco dialettico tra intuizione/attesa del conseguente e conferma o delusione di essa che fa della musica un continuo processo di scioglimento [Aufhebung] di questa tensione. Nella canzone di Rovazzi non esiste nulla di simile; è già tutto chiaro, non c’è nulla da aspettarsi. E quindi torno a ribadire che il concetto di “leggero” non è tanto da riferirsi ad un genere musicale, quello della musica di consumo, ma è da riferirsi a quella musica che perfettamente consapevolmente concentra tutte le sue energie sul messaggio e ignora completamente la sfera dell’informazione. Purtroppo oggidì tutto si consuma, laddove la particella si mantiene tutto nella distanza e nell’inautentico, conferendo un senso tanto di indifferenza quanto di impotenza di fronte a questo accadere; una passività, per dirla con Adorno, incoraggiata dall’industria culturale intesa come sistema di progressivo istupidimento. Dall’altra parte ricordo che si può sempre ascoltare una sinfonia di Mahler mentre si prepara la cena.
A questo punto, però, si pone un problema: com’è possibile differenziare la musica d’arte da quella che non lo è? Questo non vuol dire ancora creare una gerarchia tra musica di serie A e di serie B; non si vuole assolutamente togliere dignità alla musica “leggera” che ha, nel bene e nel male, una sua funzione sociale e socializzante. In poche parole, perché troviamo i dischi di Allevi nella sezione “classica” e gli album degli ELP nella sezione “rock”? Eppure la quantità di informazione nella musica di questi ultimi è sicuramente maggiore. Qui si apre l’eterno dibattito sul tema “cos’è opera d’arte”. Forse proprio qui la riflessione estetica dovrebbe fermarsi con più attenzione, magari impegnandosi a rivedere quel canone irrigidito a dogma che eccessivamente a lungo ha escluso prima il jazz e poi la musica “leggera” in generale dall’olimpo dell’arte, affibbiandole appunto questa etichetta di “leggera” che per troppo tempo ne ha condizionato la sua concezione e fruizione.

Willy Bettoni


Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Articoli correlati