Guida al concerto dell’anno: i Titani russi

Al teatro San Carlo.

Autore: Lorenzo Pompeo

1 Febbraio 2017

Al Teatro San Carlo andrà in scena il 2 Febbraio un’altra serata sinfonica d’eccellenza internazionale, dopo il recital di Barenboim del 20 Novembre scorso: il teatro partenopeo accoglierà, infatti, il ritorno in Italia del sodalizio di Martha Argerich e Yuri Temirkanov con un programma che prevede Adagio di Spartaco e Frigia dalla Suite n. 2 dell’adattamento orchestrale del balletto  “Spartacus”  e Danza delle Gaditanee – Vittoria di Spartacus dalla prima Suite dello stesso di Aram Chačaturjan, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 op.26 di Sergej Prokof’ev e la Quinta Sinfonia di Dmitrij Šostakovič.

La pianista argentina torna al San Carlo per la prima volta dal 2008, quando si tenne l’omaggio al Maestro Scaramuzza, e in Campania dal 2014, quando prese parte al Ravello Festival esibendosi assieme all’Orchestra giovanile dello stato di Bahia con uno dei suoi cavalli di battaglia: il Primo Concerto per pianoforte e orchestra di Čajkovskij. La presenza di Temirkanov va invece a iscriversi nel solco dell’ormai variegato e approfondito rapporto del direttore col nostro paese, tra onorificenze, incarichi di prestigio presso teatri e l’assidua presenza concertistica. A seguirne la direzione la “sua” Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo.

Un programma che si presenta tutto all’insegna della Russia dei “Titani”, il nome del movimento che esprimeva, tramite un recupero del titanismo romantico, il desiderio di riaffermazione della singola individualità dell’artista e che riuniva proprio Chačaturjan, Šostakovič e Prokof’ev, tre diverse anime russe: apprezzato musicista di regime il primo, in continuo conflitto con esso il secondo ed emigrante di ritorno Prokof’ev.

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Dal Vesuvio al Bol’šoj

Popolare ed esotico nello “Spartacus” di  Chačaturjan

La scelta dei brani dello “Spartacus” per introdurre il concerto, oltre a ricordare che la storia di Spartaco prese le mosse proprio dalla Campania, sembra mostrare, in modo sottile, la volontà di intrecciare le anime di due terre che hanno nella contaminazione tra musica colta e melodie popolari uno dei loro tratti caratteristici. Lo stile di Chačaturjan ne è un emblematico esempio e nei brani in programma, seppur brevi, si condensano i suoi tratti peculiari; l’Adagio si sviluppa col progressivo erompere di una melodia nostalgica che evoca il legame dei due amanti, carica di sensibilità e impregnata di elementi melodici popolari. I brani tratti dalla prima suite, la “Danza delle Gaditanee” e la “Vittoria di Spartaco”,  sono invece caratterizzati da uno stile colorito dalle forti tonalità esotiche, anche qui denotate da forte contaminazione popolare, per giungere infine alla vigorosa celebrazione della vittoria. La storia e la figura di Spartaco riscontrarono molto successo nella Russia rivoluzionaria e più in generale nell’Europa segnata da un certo orientamento politico, basti pensare alla Spartakusbund in Germania, ma, allo stesso tempo, anche in ambienti anti-regime quando fu la Russia Sovietica ad assumere le “sembianze” dell’impero.

Classico con variazioni

I contrasti nel Terzo Concerto di Prokof’ev e la sua genesi in un incubo americano

Il balletto di Chačaturjan risale al 1955 ed è l’ultimo in ordine di composizione dei brani in programma, mentre il più datato è il Terzo Concerto op.26 in Do Maggiore, la cui composizione occupò Prokof’ev per molti anni. Il “Tema con variazioni”, nella sua prima stesura, risale addirittura al 1913 e poi lavorò con intensità, durante il periodo negli Stati Uniti, alla composizione di un concerto in tre movimenti che ultimò nel 1921. L’America costò a Prokof’ev grandi sforzi, a cominciare dal viaggio attraverso la Siberia per fuggire dal regime e la colletta da parte della comunità russa di Chicago di cui necessitò per rimanervi: nonostante i tentativi di far leva sugli aspetti classici e quindi meno estremi del suo stile, non riuscì ad incontrare il gusto della vita musicale del luogo se non con “L’amore delle tre Melarance”. Né il pubblico né la critica espressero particolare apprezzamento per Prokof’ev e sembravano apprezzarne più le doti di esecutore e le sue “mani d’acciaio”, tanto da suscitare in lui l’ironico dubbio di essere scambiato per un pugile. Torna presto in Europa, ma si ritrova in America nella stagione d’opera del 1921 per rappresentare “L’amore delle tre Melarance” e proprio il Terzo Concerto ma, mentre l’opera riscuote molto successo, il Concerto ne riceverà solo nelle rappresentazioni nel vecchio continente.

La ricerca del contrasto potrebbe esserne una delle più penetranti chiavi interpretative: ad esempio,  parrebbe di trovarsi di fronte ad un saggio dello stile più classico di Prokof’ev poiché, oltre alla struttura in tre movimenti, lo caratterizza anche la polifonia delle voci e la chiarezza della dimensione tonale; tuttavia, allo stesso tempo, incontra lo stile e il carattere delle avanguardie. Altro esempio di contrasto è il rapporto con la Russia, da cui fugge ma di cui non perde mai gli insegnamenti di scuola e gli stilemi, come ben mostrano l’assolo di clarinetto che introduce il tema, la marcia lenta del terzo movimento intrisa di nostalgia e il gusto tipicamente russo delle melodie.

Il Terzo Concerto di Prokof’ev è sicuramente tra quelli in cui maggiormente negli anni si è distinta la Argerich assieme al sopracitato concerto di Čajkovskij, a quello di Ravel in Sol maggiore e al primo Concerto di Šostakovič e la sua prima registrazione discografica risale addirittura al 1965. La sua tecnica energica e la capacità di dominare la sonorità dello strumento la rendono l’interprete ideale nell’incalzante dialogo con l’orchestra sia in passaggi di grande virtuosismo tecnico come gli accordi in rapida successione del primo movimento (di rilievo l’armonia molto ricercata con note estranee e progressioni) o le veloci esecuzioni di scale e arpeggi nelle Variazioni II e V, sia nel grande contrasto drammatico tra solennità e lirismo, suono etereo e ritmica perentoria.

Il dramma dietro al sipario

La Quinta sinfonia di Šostakovič tra enfasi della celebrazione e coscienza del tragico

 

Quando Prokof’ev torna definitivamente in Russia, nel 1936, Šostakovič si trova in uno dei momenti più critici del rapporto con i dettami stilistici del regime. La celebre sentenza della Pravda forse ad opera proprio di un “anonimo” Stalin che definì la “Lady Macbeth del Distretto di Mčensk” “caos cacofonico anziché musica”, la rinuncia a pubblicare e rappresentare la Quarta Sinfonia e la “repressione” del suo più influente protettore, il maresciallo Tuchačevskij, fecero sì che nell’animo di Šostakovič nascesse il terrore di subire la stessa sorte di quest’ultimo.

Risposta pratica di un compositore a una giusta critica” è il sottotitolo alla Quinta Sinfonia che lascia già intravedere il persistente velo d’ambiguità che è inevitabile affrontare se si prova a comprenderla: che cosa rappresenta quest’opera relativamente ai rapporti col regime? Che cosa rappresentò per Šostakovič?

Aleksej Tolstoj, critico russo, la definì la “Sinfonia del Socialismo” e potremmo intenderla, quindi, come il ritorno all’ovile del compositore ribelle, il giovane figlio che, istruito dal sapiente padre Stalin torna, grato, alla grande madre rivoluzionaria e così è stata letta, per lo più, almeno fino alla morte del dittatore. Lo stesso Šostakovič  ne parlò in questi termini:
“II soggetto della mia Sinfonia è il divenire, è la realizzazione dell’uomo. Perché è lui, l’individuo umano con tutte le sue emozioni e le sue tragedie che io ho posto al centro della composizione […] II mio nuovo lavoro può esser definito una sinfonia liricoeroica. La sua idea principale si fonda sulle esperienze emozionali dell’uomo e sull’ottimismo che vince ogni cosa.” 
Si susseguono il grande crescendo dell’orchestra celebrato da trombe e l’entrata incessante delle percussioni nel primo movimento, la potente ritmicità del secondo e, soprattutto il maestoso “Allegro ma non troppo”, la trionfante conclusione vittoriosa  dopo la tragica lotta rivoluzionaria, espressa con squilli dei fiati, possente intensificazione espressiva, e la forza conferita ancora più incisivamente alle percussioni, lasciate addirittura sole a celebrare la vittoria nel finale. Ecco l’ottimistica conclusione preannunciata dal’autore, ecco l’opera che A. Tolstoj allegorizza così nella sua analisi:
il Largo delle masse che lavorano sottoterra, un ‘accelerando’ corrisponde alla ferrovia sotterranea: l’Allegro, poi, simboleggia il gigantesco macchinario dell’officina e la sua vittoria sulla natura. L’Adagio rappresenta la sintesi della natura, della scienza e dell’arte sovietica. Lo Scherzo rispecchia la vita sportiva dei felici abitanti dell’Unione. Quanto al Finale, simboleggia la gratitudine e l’entusiasmo delle masse.”

Šostakovič, dopo la morte di Stalin, straccia il velo (rosso) dell’ ambiguità di quei russi che, d’un tratto, si accorsero delle mostruosità del regime ma, al tempo stesso, lo spande sulla sua sinfonia:
Tutti quelli che hanno applaudito la Quinta Sinfonia sembravano gente istruita, scrittori, compositori, attori. Non crederò mai che uno che non capisce niente, possa apprezzare la Quinta. Certo che capivano, capivano quel che stava succedendo attorno a loro e capivano di che trattava la Quinta Sinfonia”.
Qui, dunque, la lettura si rovescia: la Quinta diventa la tragedia di un uomo, di un artista e di un popolo. Il lirismo del secondo tema del primo movimento è un canto della coscienza drammaticamente interrotto dall’ingresso del pianoforte e soppresso da quelle percussioni che da inno al regime diventano sua acre parodia cui, poi, segue l’ambigua oscillazione del secondo movimento tra nostalgia e liberatoria ironia. Il Largo diventa il luogo dove Šostakovič dà silenziosamente voce al suo tormento tra  polifonia e varietà dei temi, tutto dominato dall’espressività degli archi, è la preghiera all’eco di durare oltre il tempo sordo in cui vive la Quinta, oltre la violenza, verso quei tempi che, forse, conosceranno la pace.  Il trionfo della celebratività nel quarto movimento si mostra improvvisamente fuori luogo, si palesa in realtà come trionfo di un amaro sarcasmo, le percussioni forse evocano coercizione e repressione,  l’ottimismo nasconde vuota retorica e la celebrazione diventa la maschera di persone trasformate in quelle macchine tanto amate dal regime, macchine che fabbrichino gioia e tripudio:

“Ritengo sia chiaro a tutti quel che “accade” nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione.[…] È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: “II tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare” e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremando, e riprendi a marciare, bofonchiando: “II nostro dovere è di giubilare”.”

Difficile incontrare programmi che mettano insieme musica che scandagli così a fondo e così intensamente la nostra sensibilità: non si finirebbe mai di spendere parole e pagine su quanto anche uno solo di questi brani possano lasciarci scoprire sempre nuove vie emozionali.
Napoli è una realtà che, tra  infinite difficoltà, si scopre sempre miracolosamente viva nella musica ed è vitale e necessario che si nutra di musica di questa portata e di grandi interpreti che la sublimino.

Lorenzo Pompeo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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