Wozzeck, guardare dentro l’abisso

In una registrazione risalente al 1949 e resa pubblica dall’Arnold Schoenberg Center, l’ultrasettantenne compositore (trasferitosi da anni negli USA a causa della promulgazione della leggi antisemite e della persecuzione che vi conseguì) parla in inglese del suo pupillo più famoso: Alban Berg.

Autore: Roberto Imparato

19 Gennaio 2017
Lo descrive come un giovane uomo “molto alto ed estremamente timido”. Così deve essergli apparso quando si presentò a lui per mostrargli alcune composizioni. È il 1904 e il ragazzo ha talento, ma non denaro a sufficienza per permettersi lezioni private. Poco male, Schoenberg lo accetta ugualmente. Quando la madre eredita una consistente fortuna economica, scopriamo proseguendo nell’ascolto, Berg ha finalmente la possibilità di studiare come allievo regolarmente iscritto in conservatorio; eppure il giovane Alban non tollera l’idea di dover abbandonare il proprio maestro, e al solo pensiero scoppia in un pianto dirotto che può terminare solo quando la madre acconsente a rinunciare all’idea di mandare il figlio in una regolare scuola di musica. Berg fu ancora una volta fedele a Schoenberg, e tale rimase per il resto della sua breve esistenza. «Perché vi racconto questa storia?» chiede retoricamente Schoenberg. «Perché fui grandemente sorpreso quando questo docile, timido giovane ebbe il coraggio di intraprendere un’impresa che sembrava destinata alla sconfitta: la composizione di Wozzeck». Un dramma di tragicità straordinaria, dice, che sembra proibire la musica. Non solo: esso contiene scene di vita quotidiana che paiono essere contrarie al concetto di opera, ancora basato su costumi stilizzati e personaggi convenzionali. «He succeded» aggiunge. La ragione, secondo Schoenberg, sta nel fatto che Berg rimase fedele ai propri ideali, così come rimase fedele al proprio maestro quando gli si presentò l’occasione di cambiarlo. «La fiducia nelle proprie idee è la sostanza di cui sono fatti i grandi uomini» conclude.

Basato sul dramma Woyzeck (l’omissione della y si deve ad un errore di trascrizione) di Georg Büchner, si tratta della prima opera del compositore viennese, e l’unica completata per intero. In essa si concretizza forse l’esempio più alto e convincente di espressionismo in musica, legato a quel movimento di rinnovamento linguistico, estetico e figurativo che aveva investito l’ambiente culturale viennese degli anni precedenti la guerra. Berg aveva assistito alla prima rappresentazione del dramma nel Maggio del 1914. In una lettera indirizzata quattro mesi dopo ad Anton Webern (insieme a Schoenberg i tre comporranno quella che oggi si ricorda come “seconda scuola di Vienna”), si legge di quanto velocemente egli abbia deciso di metterlo in musica. «Non è solo il destino di quest’uomo sfruttato e perseguitato da tutti che mi tocca tanto da vicino» scrive «ma anche l’inaudito contenuto di atmosfere [Stimmungsgehalt] delle singole scene». Come il protagonista del suo lavoro più famoso, anche Büchner non aveva avuto vita facile. Era morto di tifo a soli ventitré anni, lasciando incompleta la sua opera, tratta da un caso giudiziario realmente accaduto a Lipsia. Così il Woyzeck era rimasto a prendere polvere in chissà quale cassetto fino alla sua definitiva riscoperta cinquant’anni dopo. Tra i frammenti lasciati da Büchner, Berg ne selezionò quindici, riordinati in tre atti da cinque scene ciascuno. Il compositore si premurò di adattare egli stesso il libretto, lasciandovi il carattere essenziale del dramma teatrale, con le sue scene brevi (la più lunga dura all’incirca dieci minuti), il suo linguaggio brusco, e talora brutale, e il realismo forte, a tratti velenoso. Seppure cominciò a lavorarvi fin da subito, Wozzeck fu terminato solamente dopo il I conflitto mondiale, del quale Berg, come altri illustri colleghi, ebbe modo di fare esperienza diretta: il duro periodo di addestramento trascorso a Bruck an der Leitha nell’Ottobre del 1915 lo spinse se non altro ad identificarsi autobiograficamente col protagonista. La riduzione per canto e pianoforte fu inviata a revisione ultimata a diversi teatri d’opera di lingua tedesca. Nessuno si fece vivo, per cui Hermann Scherchen gli suggerì, nell’estate del ’23, si ricavarne una versione da concerto con alcuni frammenti sinfonici. Rappresentata a Francoforte l’anno successivo, questa meravigliosa riduzione orchestrale ebbe successo sufficiente a spingere Eric Kleiber a prodigarsi affinché Wozzeck fosse allestito dal Berliner Staatsoper. Nonostante le feroci stroncature con le quali venne accolta, l’opera (dedicata ad Alma Mahler, cui Berg fu molto legato) finì per affermarsi al punto tale che da allora non smette di essere rappresentata.

Di cosa parla allora Wozzeck? Anzitutto del povero soldato e stalliere Franz Wozzeck, stricto sensu. Innamorato di Marie, la donna che gli ha dato un figlio fuori dal sacro vincolo del matrimonio, il pover’uomo tenta in ogni modo di raggranellare denaro a sufficienza per garantire una vita migliore alla propria famiglia e a sé stesso. Succube delle angherie del capitano Herr Hauptmann e dei sadici esperimenti del Dottore, gli viene sottratta infine anche la fedeltà della consorte, che lo tradisce con il guascone Tamburomaggiore. Wozzeck è già da tempo preda di allucinazioni sempre più vivide ed insistenti, e la goccia che fa traboccare il vaso è la prova esplicita del tradimento di Marie, che viene colta in flagrante durante un ballo in un’osteria piena di soldati e serve intenti alla ricerca di qualche divertimento. Le psicosi di Wozzeck si fanno nel mentre sempre più realistiche e deformanti, fin quando la storia raggiunge il suo tragico, inevitabile epilogo: Wozzeck accoltella Marie sul sentiero nel bosco presso uno stagno, morendo egli stesso affogato nel tentativo successivo di recuperare l’arma del delitto. L’ultima scena ha per protagonista l’ignaro figlio della coppia, che, senza prestare attenzione al trambusto dei compagni (nel frattempo accorsi alla notizia del rinvenimento del cadavere della donna), continua imperturbabile a giocare col sul cavalluccio di legno.

In senso più largo però, Wozzeck è una polaroid della condizione alienante della società borghese in generale, che solo difficilmente si lascia derubricare a dramma naturalistico. Esso è, al contrario, profondamente anti – naturalistico, e lo confermano l’iniziale stupore e indignazione di Schoenberg quando il lavoro gli fu presentato. La vicenda, calata in una quotidianità squallida e miserevole, non è solo, o non è tanto quella di un omicidio passionale; si lascerebbe infatti ingannare dalle apparenze chi seguisse una pista investigativa così facile e scontata. No, Wozzeck nasconde un’anima assai più oscura ed inquietante: quella cioè di una radicale crisi d’identità. Del cortocircuito definitivo di un sistema valoriale un tempo più che solido. Si veda come il lavoro, la caserma, l’ambulatorio e la famiglia, da luoghi accoglienti e sicuri, atti a garantire il miglioramento della propria condizione sociale (le “magnifiche sorti e progressive”, direbbe Leopardi) si trasformano per il povero Wozzeck in galere buie e maleodoranti dove si perpetrano spietate torture, fisiche e ancor prima psicologiche. Wozzeck vive di fatto continuamente asfissiato, succube di deliri che non gli danno pace: schernito dal Capitano, cavia dagli esperimenti pseudoscientifici del Dottore, malmenato in caserma da Tamburomaggiore, egli vede in Marie l’unico baricentro possibile in una vita e in un dramma dove l’equilibrio sembra una chimera lontana e inarrivabile; e così il suo tradimento dà il via alla totale disgregazione del sé. Citando la Stimmungsgehalt nella lettera a Webern, Berg coglie il lato più affascinante ed innovativo del frammento büchneriano, dove l’azione si frantuma in nuclei esplosivi, fulminazioni rapide e luminose che affiorano dal buio per ritornarvi in un batter di ciglia. Se paragonato ad illustri precedenti in quanto ad opere basate su un testo teatrale (ad esempio la straussiana Salomé, di scena a Dresda vent’anni prima e tratta dalla penna di Oscar Wilde), Wozzeck è un lavoro mai visto prima, in cui ogni scena è dotata di una propria autonomia formale, e nel quale Berg conduce una sorprendente indagine psicologica sui personaggi del dramma, comprimari inclusi; e lo fa a poca distanza (letteralmente!) da Freud, che nel suo appartamento a Berggasse 19, nel IX distretto della capitale austriaca, getta nel frattempo le basi per la moderna psicanalisi.

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Il giovane Alban Berg

Dal punto di vista musicale, Wozzeck va in scena solo dieci anni dopo il primo incontro dell’autore con la grande orchestra. I tre pezzi per orchestra op. 6 avevano costituito, allora, un insolito regalo di compleanno: quello al maestro Schoenberg, in occasione dei suoi quaranta anni (8 Settembre 1914). Un preludio, una ronda e una marcia, nei quali ravvisiamo caratteristiche ricorrenti nell’intero opus berghiano. Tra queste, una scrittura orchestrale profondamente complessa, densamente “anarchica”, a tratti caotica e violenta. C’è dell’altro, però. Questo primo lavoro di carattere sinfonico segna, de facto, uno spartiacque nella carriera da musicista di Berg. Se egli fino a quel momento aveva composto sotto la guida ingombrante di Schoenberg, ora rivendica per la prima volta una propria personalità indipendente, anche nel linguaggio. «Se la violenza espressiva è spinta qui alle soglie dell’informale» scrive Sergio Sablich, «essa è al tempo stesso ricondotta a relazioni organiche da un senso quasi classico delle proporzioni. […] L’abisso si spalanca ad inghiottire il mondo con furore espressionistico, ma si arresta sul ciglio del baratro a contemplare le macerie, per scoprire che in esse resistono valori costruttivi riconquistati dalla lucidità e dalla sofferenza». Tale determinazione retrospettiva non poteva piacere a Schoenberg, che quella fase aveva già attraversato e oltrepassato. Berg rispose di aver fatto del proprio meglio, stabilendo così una parziale cesura col maestro. Del trio della scuola viennese, egli rimase anche in seguito quello più propenso a guardarsi indietro. I vari Stockhausen, Ligeti e Maderna, del resto, crebbero a Darmstadt nel mito adorante di Webern, non di Berg. Tale maniera di muoversi, se vogliamo, è ancora più evidente in Wozzeck, allorché basta leggere i nomi delle forme compositive distribuite tra le varie scene del dramma per rendersene conto: Rapsodie, Passacaglie, Rondò, Suite, solo per citare l’atto I; la forma sinfonica dell’atto II; e l’ultimo, geniale atto, con cinque scene e l’epilogo strutturati come invenzioni. Dalla prima (invenzione su un tema, con tanto di variazioni e fuga) all’ultima (invenzione su un perpetuum mobile).

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Una scena dal Wozzeck

Una della novità fondamentali di Wozzeck è l’utilizzo dello Sprechsgesang, il suono parlato già invero adoperato da Schoenberg nel Pierrot Lunaire (e volendo risalire ancora più indietro nel tempo, le prime tracce di questa tecnica vocale risalgono al Boris Godunov di Musorgskij). Il suono parlato si differenzia nettamente, oltre che da quello cantato, anche dal semplice parlare realistico – naturalistico, ed implica sì il far conoscere l’altezza della nota, ma anche che questa venga abbandonata subito, salendo o scendendo. La caratterizzazione psicologica dei personaggi viene condotta tramite una scrittura orchestrale che si adatta a ciascuno di loro, e a ciascuna loro azione, con un’aderenza che non si fatica a definire geniale. In un dramma frammentario come Wozzeck, fatto di scene brevi ed incisive che sostituiscono il discorso fluviale senza soluzioni di continuità cui le opere del XIX secolo ci hanno abituati, l’unità e la coerenza formali sono garantite dall’utilizzo di diversi Leitmotive, che ricorrono ogni qual volta il personaggio cui sono assegnati è di scena. La terza minore si bemolle – re bemolle, ad esempio, rappresenta il legame tra Marie e il suo bambino; nondimeno essi si combinano spesso tra loro a generare spirali psicotiche e deformanti, ma pur sempre strutturate in forme classiche. Un esempio è la seconda scena del II atto, in cui il povero Wozzeck incappa per strada nella sgradevole compagnia del Dottore e del Capitano, che lo tormentano insinuando l’idea dell’infedeltà della moglie. Ebbene, il tema dal taglio sarcastico del Capitano è combinato da Berg con quello greve ed arrogante del Dottore, risultandone una fantasia e una fuga di rara incisività ed eloquenza. Wozzeck stesso canta il proprio motivo caratteristico già nella prima scena, mentre è intento a radere il Capitano, il quale lo rimprovera di essere un uomo amorale per aver messo al mondo un figlio senza la benedizione della Chiesa. «Wir arme Leute» si lamenta Wozzeck. «Noi povera gente!» Come si può parlare di morale quando a mancare è il pane in tavola, si chiede con un accordo minore con settima maggiore aggiunta. “Noi”, badate bene. Non “io”. Come a testimoniare che il disgraziato non parla a titolo personale, ma a nome di una schiera ben più nutrita di anime, che con lui condividono le miserabili condizioni di vita e le continue angherie da parte delle Oberklassen. In tale ottica va inteso allora l’omicidio commesso da Wozzeck, che non è in alcun modo derubricabile a vendetta personale, ma assume le fattezze di un gesto rituale. L’orchestra, da par suo, diventa per tre atti il vero sismografo del dramma. Così ad esempio la ‘invenzione sopra una nota’ che accompagna la scena dell’uccisione di Marie comporta la presenza ossessiva di un pedale (il suoni si) in diversi registri, che pertanto oscillano in base alla gradazione dell’idea omicida nella mente sconvolta di Wozzeck: quando questa prende il completo possesso di lui gli archi intonano un si esteso su cinque ottave. Il timpano scandisce ininterrottamente il pedale fino alla risoluzione sul do quando Wozzeck esclama: «Tot [morta]».

Sebbene Wozzeck sia considerato in letteratura opera atonale, va detto che vi si riconoscono tuttavia diversi gradi di ambiguità: dall’allusione tonale appena accennata fino alla totale disgregazione, sempre con esiti di grande efficacia espressiva. Non mancano peraltro accenni stravolti alla musica popolare e di consumo; fino a tanto si è spinta l’eredità degli squarci di Mahler. Esempio eloquente delle complessità e dell’immensa varietà della scrittura di Berg è la scena dell’osteria verso la fine del II atto, con le danze sfrenate che si svolgono in un atmosfera cupa e malsana, in cui la spensieratezza degli avventori è filtrata attraverso gli occhi di Wozzeck, giungendo a noi sotto forma di un ombra dissonante e allucinata, che dello svago è una specie di incubo. Al termine della scena un Folle (e qui il richiamo allo Jurodivij di musorgskijana memoria si fa più che evidente) avvicina Wozzeck pronunciando parole terribilmente presaghe («Lustig, lustig…aber es riecht…Ich riech, Ich riech Blut! [allegro, allegro…ma c’è odore…odoro, odoro sangue!]».

A distanza di quasi cento anni dalla prima rappresentazione, Wozzeck non smette di produrre sul pubblico gli stessi effetti che deve aver avuto sugli ascoltatori a Vienna, il 14 Dicembre di quel lontano 1925. È un lavoro estremamente complesso e ambivalente, in cui la vicenda personale si trasfigura mescolandosi a quella universale. Ipnotizzante e dismorfico, ma capace anche di momenti di sublime lirismo, che sono tali proprio in virtù dell’abbrutimento da cui traggono origine. Seppure Berg ci metta in guardia dalle derive fagocitarie di una società sempre più disumana, non prospetta però una via d’uscita da questa condizione tanto degradata. Lo testimonia, più di qualsiasi descrizione, la indifferente regolarità dell’andamento in ottavi che conclude l’opera, con le sue sonorità “aeree, gelide e diafane”, come le definisce il Baldini e Castoldi. Se è vero, come dice a un certo punto il povero Wozzeck, che «l’essere umano è un abisso, vengono le vertigini a guardar giù», allora non bisognerà andare lontano per cercare le chiavi interpretative del mondo che Berg ci mette davanti. Come nei grandi capolavori, il testo e la musica le espongono già in bella vista, pronte ad essere raccolte da chi abbia la sensibilità, (e aggiungeremmo: il coraggio) di farne uso.

Roberto Imparato

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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