Di cosa parliamo quando parliamo di Copland

Autore: Filippo Simonelli

2 Dicembre 2016
Brooklyn, con i suoi palazzi e le sue lunghe strade, è stata regalata al nostro immaginario collettivo come il cuore pulsante dell’America, o almeno di quella della West Coast. 

A Brooklyn aveva casa, all’inizio del ventesimo secolo, quando l’America iniziava volente o nolente ad assumere il ruolo di “Faro del mondo libero”, un compositore ebreo russo, George Gershwin.
Nonostante le sue umili origini, Gershwin sarà il primo compositore a produrre una musica strettamente “americana”, ma capace di varcare i confini delle èlites culturali del nuovo continente. Il suo “An American in Paris” sarà il primo brano a rappresentare a pieno quella homesickness, quella malata nostalgia di casa che gli americani, a caccia di fortuna nel mondo, non potevano non avere. Ma, anche a causa della sua morte precoce, Gershwin non potrà mai rappresentare in tutto l’idea di America in musica.
Il caso volle, però, che a pochi isolati dalla casa newyorkese di Gershwin, in Washington Avenue, fosse nato un ragazzino destinato a completare l’opera di Gershwin (e dei suoi predecessori meno celebri). Un ragazzino, anche lui di origini russe, lituane per la precisione, ma ai tempi si parlava ancora di domini dello zar, che era anche ebreo di nascita, e aveva mostrato un talento precoce fin da piccolo. La sua famiglia, arrivando ad Ellis Island, si era sottoposta alla pratica di “americanizzazione” del cognome. Quello che in Russia era Kaplan, era diventato Copland, con un tratto di penna.
E quel ragazzino, in ossequio alla tradizione giudaica, portava il nome del sommo sacerdote Aronne, americanizzato in Aaron.
E con quel nome, Aaron Copland, sarebbe passato alla storia.

Ritratto dell’artista da giovane

Il giovane Aaron ebbe un’infanzia tipica dei ragazzini della sua zona. Le sue giornate si dividevano tra la Public School 111 e il negozio di famiglia, a due passi da casa. Assieme a lui vivevano i suoi quattro fratelli maggiori. Il piccolo Aaron era particolarmente legato al fratello Ralph, che suonava il violino, e alla sorella Laurine, studentessa dell’Accademia del MET, che andava spesso a teatro nelle grandi sale newyorkesi e riforniva il piccolo Aaron di libretti e curiosità. 
Aaron ricambiava a modo suo, scarabocchiando fogli di carta da musica e strimpellando il pianoforte materno.
Col tempo, però, questi primi scarabocchi iniziarono a prendere la forma di una breve composizione che Copland, a 11 anni, intitolò Zenatello, e che doveva costituire l’incipit di una fantasiosa opera.
Certo, si trattava di sette battute, ma quanto bastava per convincere Laurine ad investire il suo tempo nel curare l’educazione musicale del fratello. Laurine impartì lezioni di piano ad Aaron fino ai 14 anni, quando, in procinto di accedere alla High School, il futuro compositore aveva provato a seguire un corso per corrispondenza. Di lì a poco Aaron sarebbe stato folgorato dalla vocazione ascoltando un concerto del polacco Paderewski, che lo portò definitivamente ad intraprendere la strada della composizione.
Ma allora il corso per corrispondenza non poteva essere abbastanza. Così, dai 14 anni fino ai 20 si susseguirono vari insegnanti, che videro crescere il giovane talento di Brooklyn. Una volta raggiunta la maggiore età americana e aver completato la sua prima composizione vera e propria, lo Scherzo “The Cat and The Mouse”, Aaron decise che anche per lui la casa non era più sufficiente.
Le sue simpatie per gli eventi che accadevano nella sua terra d’origine, e le sue amicizie quasi “rivoluzionarie”, non erano viste di buon occhio in casa Copland. Per una ragione o per l’altra, quindi, occorreva muoversi.
E in fretta.
Fu così che, poco più che ventunenne, Aaron Copland si imbarcò verso Parigi.

Aronne e l’Amazzone

In Francia, Aaron si iscrisse al neonato conservatorio di Fointainbleu. Il conservatorio, situato nel piccolo comune dell’Ile De France, accoglieva all’epoca molti nuovi ma promettenti insegnanti.
Il suo primo insegnante di pianoforte fu Isidor Philipp, allievo di Saint-Saens, assieme a Paul Vidal per la composizione, oggi noto principalmente per aver fatto addormentare Liszt quando, assieme ad un giovane Debussy, aveva eseguito un arrangiamento per due pianoforti della Faust Symphony.
Ma più di tutti a colpire Copland fu una giovane insegnante che tenne una lezione- concerto folgorante sui Quadri di un Esposizione di Mussorgskij. Quella insegnante era Nadia Boulanger, ed Aaron, che doveva in origine frequentare i corsi per un solo anno, scelse di rimanere a Parigi altri tre anni per studiare con lei. La sua preparazione incredibile, che Aaron descriveva al fratello Ralph in termini entusiastici, fu di importanza vitale per la sua formazione, e le valse il soprannome di Amazzone.

This intellectual Amazon is not only professor at the Conservatoire, is not only familiar with all music from Bach to Stravinsky, but is prepared for anything worse in the way of dissonance. But make no mistake … A more charming womanly woman never lived.

Aaron in una lettera al fratello Raplh

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Koussevitsky, Copland e Boulanger (LOC)

Goin’back home

Gli Americani, nolenti o volenti, soffrono mortalmente di quella homesickness cui accennavamo sopra. Lo stesso Aaron, pur rappresentando certamente una notevole eccezione rispetto al prototipo americano, non ne era del tutto immune. Quando tornò a New York era già un pianista affermato, ed aveva intrapreso una brillante carriera da critico, pubblicando sul Music Quarterly un saggio su Gabriel Faurè. Ma la sua strada era quella del compositore.
Di lì a poco le due strade che aveva intrapreso si incontrarono, quando nel 1927 presentò assieme alla Boston Symphony Orchestra diretta da Koussevitzky il suo concerto per Pianoforte. Koussevitzky era uno dei suoi più entusiasti sostenitori: l’anno precedente aveva diretto anche la prima bostoniana della sua Sinfonia con Organo, in cui Copland, tra l’altro, aveva affidato la parte solista alla sua amazzone prediletta. Intanto il teatro aveva iniziato a fare capolino, e continuavano le pubblicazioni per la rivista Modern Music (di cui è oggi rimasto solamente un archivio, consultabile qui); al tempo stesso iniziava la grande amicizia con Carlos Chavez, che gli avrebbe ispirato più di un capolavoro.

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Aaron Copland con Chavez al pianoforte (LOC)

Ma nonostante il successo non mancasse, Aaron non era ancora pienamente soddisfatto. La sua musica difettava di una direzione ben precisa. Cosa del resto ben ragionevole. All’epoca del suo rientro aveva iniziato a frequentare il circolo del fotografo Stieglitz. Le idee dell’istrionico artista riflettevano una inderogabile necessità di “rappresentare la democrazia americana”. E per fare questo, mancavano le basi e le ispirazioni nella musica colta. Ives, unico riferimento papabile, andava in una direzione di eccessiva astrattezza per il bisogno “americano” del compositore. Ma in suo soccorso venne il successo clamoroso del fenomeno Big Band di Benny Goodman e Glenn Miller, che gli diede nuova linfa e materiale.
Le influenze europee però, al tempo stesso, crescevano. Da un lato, l’idea di Stieglitz si coniugava con la Gebrauchsmusik, la “musica d’uso” di Hindemith, pur con tutti i distinguo del caso. Dall’altro, la necessità di costruire una tradizione americana gli fece guardare all’esempio francese dei Les Six, imitato con un circolo formato da personalità come Piston, Thompson e Sessions. Con quest’ultimo poi il rapporto sarebbe stato particolarmente profondo, culminando nella creazione della “Copland-Sessions Concert“, una società dedicata alla promozione di giovani musicisti americani. Fu proprio in questo periodo che Copland elaborò quello stile che oggi è passato alla storia come “Populist“, guadagnandosi al tempo stesso il titolo di “Dean Of American Music“.

Copland observed two trends among composers in the 1930s: first, a continuing attempt to “simplify their musical language” and, second, a desire to “make contact” with as wide an audience as possible. Since 1927, he had been in the process of simplifying, or at least paring down, his musical language, though in such a manner as to sometimes have the effect, paradoxically, of estranging audiences and performers. By 1933 … he began to find ways to make his starkly personal language accessible to a surprisingly large number of people.

Howard Pollack, Aaron Copland, The Life and Works of an Uncommon Man

Il populista classicista

Gli anni del New Deal e della guerra sono di immenso fervore per l’America. La grande depressione e la conseguente recovery energica del presidente Roosevelt, sempre ai ferri corti con i checks and balances della costituzione, erano un inedito per la nazione. 
In questo clima iniziano a nascere le opere più famose di Copland. Nel 1936 vede la luce “El Salon Mexico”, opera ispirata alle realtà messicane che Aaron aveva conosciuto tramite Chavez, e in cui per la prima volta dunque prende piede per la prima volta l’idioma folkloristico in maniera assolutamente predominante. Fa quasi strano realizzare come “Il populista”, il Dean Of the American music, abbia iniziato ad usare questi stratagemmi svincolandosi dalle melodie della sua terra, o forse no?
Forse no. Infatti, nelle sue visite ai Saloon messicani, Copland ebbe modo di incontrare quei luoghi comuni sul selvaggio west che oggi sono eternati nelle pellicole di Clint Eastwood, che ancora sopravvivevano e anzi fiorivano nel Messico meno tecnologicamente avanzato. Il contatto con questa realtà, selvaggia e mitica al tempo stesso, avrebbe portato Copland sulla strada di Billy the Kid, il balletto “Archetipico del mito del vecchio west”, per dirla con le parole del biografo Pollack.
Una volta imboccata la strada della melodia nazionale, non ci si ferma più. Ed è così che dal 1938 al 1948 Copland si dedica a portare al massimo dello splendore lo stilema americano in musica. Di questo periodo sono i suoi capolavori come i balletti Appalachian Spring o Rodeo, e i brani nati per sostenere lo sforzo bellico della nazione come il Lincoln Memorial, o quelli per sostenerne l’impegno fiscale (curioso ma vero: la prima del brano avvenne durante il giorno della riscossione di una rincaratissima Income Tax) come la celeberrima Fanfare for The Common Man. La critica ha generalmente guardato a questi lavori come delle musiche semplici, al limite del semplicismo, una “forma non complessa di nazionalismo americano”. Questo limite, più apparente che reale, gli alienerà purtroppo gran parte della critica europea, che lo liquiderà come autore di “Tre o Quattro Oleografie Americane”.
Mai errore fu più grave. Copland userà queste tessiture apparentemente semplici per approfondire l’uso di Poliritmie e Polimodalità, già care ad Ives, che aveva discusso in una serie di articoli pubblicati nel corso degli anni ’20.
Il tutto, ovviamente, al servizio della democrazia americana.

Non son solo balletti

L’idea che Copland fosse un compositore folcloristico cozza con la realtà ben solida della sua formazione. Gli studi europei e l’amicizia con Stravinsky, poi, dovrebbero sciogliere ogni dubbio. Riallacciandoci al filo conduttore di Gershwin, potremmo dire che il successo del primo fu antesignano di quello del secondo. I grandi brani sinfonici e i concerti per pianoforte, a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, sono un esempio utile in questo senso, anche se Gershwin, che aveva fatto il percorso inverso rispetto a Copland, non ne fu il modello esclusivo.
I concerti solistici per Clarinetto e Pianoforte, sono decisamente peculiari per la musica americana dell’epoca. Scritti a più di vent’anni di distanza, mantengono identica la struttura in due movimenti, il primo rilassato, e il secondo nervoso al limite della nevrosi, con una cadenza a fare da ponte nel celebre concerto per Clarinetto commissionato da Benny Goodman. L’interpolazione di episodi di puro jazz, a mo’ di Charleston, affiancati a momenti di profonda ricerca ai limiti del mondo tonale dell’epoca, furono una folgorazione per il pubblico dell’epoca.
Esplorando ancora nella musica per pianoforte, si scopre negli anni ’50 una gemma che è la Fantasia per pianoforte. Concepita dopo una lunga esposizione ai lavori delle più audaci menti del modernismo postbellico, come Boulez o Dallapiccola, la Fantasia è tra i lavori che sfiorano più da vicino l’avanguardia. 

This is a new Copland to us, an artist advancing with strength and not building on the past alone

Peter Jay Rosenfield, violoncellista e critico musicale

Il pezzo rappresentò una enorme novità per il pubblico di Copland. Eppure, nonostante le apparenti asperità all’ascolto, il pezzo riflette perfettamente l’approccio strumentale che Copland aveva nei confronti delle tecniche compositive non convenzionali.

“Composing among serial lines was nothing more than an angle of vision. Like fugal treatment, it is a stimulus that enlivens musical thinking, especially when applied to a series of tones that lend themselves to that treatment.”

Howard Pollack

L’eredità

La personalità di Copland è decisamente complessa, e in parte almeno svincolata da un profilo biografico relativamente quieto.
Le sue simpatie politiche a sinistra gli causarono qualche guaio, in effetti. Negli anni ’50, in pieno terrore rosso, fu addirittura interrogato dal senatore McCarthy in persona. Ma il maggior impatto che questo fatto ebbe sulla sua vita fu di accelerare la sua transizione da frange socialisteggianti, come poteva essere stato il Progress Party negli anni ’30, al partito democratico di Kennedy.
A quanto pare la sua fama, nonostante il riflusso intellettuale proveniente dall’Europa, ne rimase sostanzialmente inalterata, tanto che ancora oggi i suoi lavori continuano ad essere studiati, eseguiti ed incisi. E non si tratta necessariamente di quelli più famosi, come nel caso della Sonata per Violino scritta nello stesso anno Rodeo.
La sua figura è legata strettamente, nell’immaginario collettivo, alla creazione di un epopea americana attraverso le sue musiche, anche grazie al supporto visuale che le rappresentazioni teatrali e dei balletti offrono, e di aver portato avanti quella luce prima flebile, e diventata con lui splendente, della tradizione colta del nuovo continente.
Un grazie particolare però lo dobbiamo a Leonard Bernstein, grande amico di Aaron, che si premurò fin dagli albori della sua carriera di portare alla ribalta la sua musica, tutta, senza eccezione di tematiche o di difficoltà. 
Il ritratto che fece di Copland nella seconda puntata dei suoi “Young People’s Concerts” sono forse il migliore omaggio che si possa fare alla figura di questo musicista. E per quanto più breve di quel che avete letto finora, non è certo meno esaustivo.

” […] So what our composers are finally nourished on, is a folk music that is probably the richest in the world, and all of it is American, in spirit, whether its jazz, or square-dance tunes, or cowboy songs, or hillbilly music, or rock and roll, or Cuban mambas, or Mexican huapangos, or Missouri hymn-singing. It’s like all those different accents we have in our speaking; there’s a little Mexican accent in the Texas accents, and a little Swedish to be heard in our Minnesota accent, and there’s a little Slavic in the Brooklyn, and a there’s a little Irish in the Boston accent. But they’re all American accents. They’ve been absorbed.

And now, as a final example of all this, I want you to hear part of the Third Symphony by Aaron Copland – which has a lot of these American qualities we’ve been talking about—jazz rhythms, and wide open optimism, and the simplicity, and the sentimentality, and a mixture of things from all over the world—a noble fanfare, a hymn—everything. But I have a special surprise for you. We’ve been lucky enough to get Mr. Copland himself in person to come and conduct it for you. And now you’re going to meet a real American composer, who has been through this whole development we’ve been talking about — high school, college, even grad school — and we can say that by now he has become the dean of all American music. I am proud to turn the podium over to Aaron Copland.”

Per il resto, let the music speak

Filippo Simonelli

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Filippo Simonelli

Fondatore di Quinte Parallele, Alumnus LUISS Guido Carli, Università Cattolica del Sacro Cuore e Conservatorio di Santa Cecilia

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