Tre sfumature di ‘900 a Santa Cecilia

Un finale con i fuochi d’artificio quello della stagione sinfonica ’15 -’16 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

Autore: Matteo Macinanti

7 Giugno 2016
Un programma interamente novecentesco che ha toccato alcune composizioni capitali del secolo passato per quanto riguarda la forma del concerto solistico e del balletto.
Il terzetto Kodály, Ravel e Stravinskij ha funzionato così da chiusa di un’ottima stagione che ha visto avvicendarsi i direttori e gli esecutori più celebri della scena musicale attuale.

A condurre questo concerto è stato il, non ancora, trentenne Lionel Bringuier, che ha saputo trascinare con fresco vigore gli orchestrali di Santa Cecilia; ciò lo si è visto in modo manifesto nel primo dei pezzi che costituivano il programma della serata: le Danze di Galánta di Zoltan Kodaly.

In questa composizione, il carattere ruspante e allo stesso tempo tellurico, proprio del mondo dal quale è stata tratta l’ispirazione generatrice, non viene oscurato o reso artificioso dalla forma colta dell’ambiente classico, apparentemente inadeguato ad una musica propriamente folkloristica: i piccoli ensemble che, solitamente, suonano la musica gitana sono qui rimpiazzati da un grande organico sinfonico.

Infatti, è proprio ricordandosi delle musiche che aveva ascoltato da bambino nella cittadina dell’Impero austro-ungarico, che Kodály compone queste danze.

Nondimeno la sintesi tra caratteri popolari e forma “alta” che il compositore ungherese riesce a creare nelle sue danze ha un qualcosa di strabiliante.
Il tutto non privo di un certo virtuosismo unito ad una cantabilità struggente, come nel celebre assolo di clarinetto, nel quale gli ascoltatori del concerto ceciliano hanno potuto assaporare l’esecuzione del primo clarinetto, Alessandro Carbonare.

La vera reginetta della festa, però, è stata lei: Yuja Wang.

La, non ancora, trentenne pianista cinese ha offerto al pubblico romano la coppia di concerti per pianoforte scritti da Maurice Ravel, in particolare il “Concerto per la mano sinistra” e il “Concerto in sol”.

La storia del primo è oltremodo nota, ma merita di soffermarcisi sopra.
Una delle numerose perdite, oltre alle svariate migliaia di morti, che ha apportato la Grande Guerra, ha riguardato anche la mano del signor Paul Wittgenstein fratello del filosofo Ludwig e figlio della nobile ed eminente casata viennese, particolarmente sensibile all’espressione musicale (si narra di 7 pianoforti a coda presenti in casa Wittgenstein), che costituiva un punto di ritrovo per gli esponenti di spicco della cultura austriaca.

Il nostro pianista provetto, dovendo fare i conti con questa significativa perdita, si risolse a chiedere al celebre compositore francese un concerto che potesse attagliarsi alla sua nuova condizione manchevole.
Fu così che Ravel (il quale aveva partecipato anch’egli alla I guerra mondiale, ovviamente nello schieramento opposto a quello del committente) diede alla luce un concerto scritto appositamente “per la mano sinistra”.
Pur tuttavia, il carattere brillante e virtuosistico proprio di questo pezzo rifugge ogni sensazione di “deficienza tecnica”.

Un panorama sonoro davvero innovativo si prospettò così ai primi ascoltatori del concerto, a partire dallo stesso incipit: un lungo arabesco corteccioso affidato al meno esposto degli strumenti dell’orchestra, il controfagotto, al quale fanno da contrafforte le terzine ai contrabbassi.
La sensazione è quella di antiche radici ctonie di querce secolari, o della stessa Terra, che si mettono in moto e cominciano a vivificarsi sempre più.
Questo inizio davvero caratteristico offre un tappeto sonoro che apre la strada all’ingresso dello strumento protagonista.

Il pianoforte, uno Steinway,  viene letteralmente aggredito dalla procacità della Wang con l’intensità che spetta al pezzo, ma in altri casi, viene quasi sfiorato dal tocco diafano della pianista cinese, che non nasconde, quando le è dovuto, una dolcezza ineccepibile.

Ciò è quanto si sente anche nel concerto successivo, in cui l’alternanza sfrenatezza-riservatezza funge da principio generatore.

Il carattere scatenato che permea l’intero primo movimento, a partire dal primo colpo di frusta con il quale si apre il gioco esagitato di clarinetto piccolo e pianoforte viene interrotto per un momento solo da una parentesi affidata all’arpa, un’eccellente Cinzia Maurizio, per poi riprendere con la vorticosa girandola iniziale.

Tutto ciò viene stemperato, all’improvviso, dal secondo movimento nel quale subentra uno stile incredibilmente morigerato e posato che schiude davvero le porte di un’atmosfera surreale e allo stesso tempo di magica sospensione alla base del quale, secondo lo stesso Ravel, ci sarebbe l’ipotesto del Larghetto tratto dal Quintetto per clarinetto e archi di Mozart.
L’apparente semplicità di questa umile, ma allo stesso tempo, dignitosa melodia in realtà ha una compresenza di diversi livelli musicali che viene suggerito dall’andamento dello stesso pianoforte già dalle prime battute: sullo sfondo di una minuetto nobiliare in tre si innesta invece la melodia vera e propria che presenta, al contrario, un andamento binario. Uno sfasamento che non viene percepito come claudicante ma che suggerisce tutt’al più un equilibrio delicato e allo stesso tempo precario.
La compresenza di più piani la si avverte anche nello stesso stile del movimento: sopra questa base classicheggiante si stendono a volte delle pennellate di colore impressionistico, affidate ai legni e in particolare al flauto, che conferiscono un sapore etereo e arcaico.

La profondità interpretativa della Wang non viene meno in questa dolce nenia musicale.
Dall’inizio fino al trillo finale il tocco della pianista cinese concede una dolcezza femminile, della quale già si era parlato, priva di spigoli.

Nel terzo movimento invece compare nuovamente sulla scena l’impetuosa irruenza, come di estemporanea improvvisazione jazzistica, che la Wang riesce a sprigionare.

La reazione entusiastica del pubblico conferma una calda accoglienza nei confronti della pianista cinese, ormai ospite abituale dei concerti dell’Accademia, che ha concesso un doppio bis e a fine concerto si è trattenuta per autografare le sue incisioni.

L’inizio dell’ultimo pezzo in programma, si avvicina sonoramente all’inizio del concerto per la mano di sinistra di Ravel.
La celeberrima suite di Igor’ Stravinskij tratta dal balletto “L’uccello di fuoco”, presenta difatti un inizio davvero misterioso e relegato alle sonorità più profonde dell’organico orchestrale, in cui gioca un ruolo importante anche l’intervallo dissonante di tritono, il noto “diabolus in musica”.

Noto per essere una delle composizioni giovanili del compositore russo (certamente la prima che l’ha portato ad una certa notorietà), “L’uccello di fuoco” ha come argomento le vicende del Principe Ivan e l’aiuto che riceve dall’Uccello di Fuoco per combattere contro l’orco Kaščeij e i suoi temibili sudditi.

La guida di Bringuier si rivela davvero all’altezza dell’esplosività del pezzo, come negli accordi in piena orchestra dell’Allegro feroce.
Ma l’intesa tra orchestra di Santa Cecilia con il direttore francese si dimostra vincente per tutta l’esecuzione del pezzo, costellato di inserti solistici davvero degni di nota.

Il finale apoteotico conclude non solo un concerto degno di nota, ma anche una pregiatissima stagione.

Matteo Macinanti

[foto presa dalla pagina Facebook di “Accademia Nazionale di Santa Cecilia”]

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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