La Bohème e il suo tempo

Se è vero che occuparsi di una possibile storia di mentalità debba significare necessariamente indagare un canale profondo e sotterraneo, ricercando un fil rouge la cui individuazione permetta, in un certo senso, la scoperta di lineamenti e strutture più o meno trasversali, capaci di offrire una visione per lo più coerente allo studioso che voglia occuparsi di un dato contesto storico, è altrettanto vero che rivolgersi a certe manifestazioni artistiche dello stesso contesto possa significare entrare nella fenomenologia, delle mentalità: dal particolare, quindi, al generale. E viceversa. Arrivare allo studio della mentalità attraverso una delle sue manifestazioni.

Autore: Emanuele Franceschetti

25 Maggio 2016

Ci si potrebbe (e dovrebbe) chiedere, allora: in che modo quest’approccio può essere funzionale e coerente? In che modo il collettivo, che è elemento proprio della mentalità (Legoff), può essere esplorato attraverso un accadimento (l’opera d’arte) il cui farsi è, di per sé, individuale? Per rispondere positivamente, bisognerebbe nutrire un’inossidabile convinzione nel fatto che l’opera d’arte, in nuce, contenga il codice genetico della civiltà che l’ha vista nascere. E quindi, che l’opera d’arte sia, sempre, opera del suo tempo. E’ indubbio che quest’asserzione (che stiamo trattando ancora come ipotesi, s’intenda), non voglia in alcun caso precludere l’universalità (l’esser viva, valida e coerente a se stessa anche secoli dopo la propria nascita) della stessa: quanto, invece, individuarne germi indissolubilmente legati alla sua epoca. E quindi, al contesto socio-politico-economico-letterario che l’ha vista sorgere. E quindi: a quell’ inconscio collettivo che può aver contribuito a determinarne le caratteristiche.

Nel 1896, a Torino è di scena la prima di Bohème, opera di Giacomo Puccini dalla lunga e articolata gestazione, su libretto dei ‘suoi’ Illica e Giacosa. Il lavoro è tratto da un romanzo di quarantacinque anni prima –Scenes de la vie de Bohème- dello scrittore francese Henri Murger; la scelta del soggetto era stata oltretutto motivo di un celebre alterco con un illustre collega: anche Ruggero Leoncavallo aveva eletto il testo di Murger a modello della sua nuova opera. Puccini, con Bohème, diventerà il principale operista italiano. Dopo due prove incerte e il bel successo di Manon Lescaut, Bohème significherà una duratura e significativa conferma. All’indomani della prima, la critica non sembra unanime nel salutare un successo. Si parla addirittura di una deviazione accidentale rispetto al percorso intrapreso con Manon. Ma via via, inarrestabilmente, il plauso rivolto all’opera diviene generale, solidificandosi sempre più, proiettandola in un orizzonte subito europeo, e col tempo mondiale.

L’opera, naturalmente, non porta in scena una trama sconosciuta. O, perlomeno, non del tutto. Essendo opera di teatro in musica, è la fascinazione drammaturgica del linguaggio musicale che deve agire dentro il meccanismo ricettivo dell’ascoltatore: in Bohème (dove però, va specificato, gli autori variano il materiale letterario di partenza) musica, ambientazione e personaggi si coagulano in un amalgama potentissimo, che riesce a far vibrare le corde più profonde del pubblico europeo. Perché?

Senza voler dare coordinate cronologiche troppo stringenti, negli anni che ‘chiudono’ l’Ottocento e spalancano le porte ai terribili decenni che verranno, l’Europa vive una crisi profonda. Non è una crisi di produzione: è una crisi sotterranea. E’ sempre emblematico riflettere sul fatto che la grande ‘crisi del positivismo’ (come ogni definizione concettuale va trattata con cautela, considerando sempre che la storia di un concetto e la storia dell’oggetto da esso designato si muovono su binari differenti) esplode proprio negli anni in cui il dominio sulla tecnica è diventato totale, inarginabile. La Tour Eiffel, la prima lampadina e la prima radio ‘appartengono’ all’ultimo ventennio dell’Ottocento, e il dato, nella sua stringatezza nozionistica, non deve esser certo sottovalutato. L’Europa, paradossalmente, vive la crisi della fiducia intellettuale nel progresso e nel valore totalizzante della scienza proprio nel momento dei massimi traguardi raggiunti dalla stessa. Nel 1895 (ancora un dato aneddotico, ma di tremenda forza) Ferdinand Brunetière, saggista e intellettuale di chiara matrice naturalista, rivelò in un suo articolo seguìto a una sua visita in Vaticano, che aveva notato, con sua grande preoccupazione, che il clima stava cambiando. Una nuova inquietudine mista a sfiducia stava risollevando l’interesse verso la religiosità: la scienza stava arretrando di fronte alla fede? Non è la lettura migliore. La scienza stava arretrando di fronte agli attacchi della storia, e a quelli, inevitabili, della mutevolezza del sentire collettivo: d’altra parte, il progresso a nulla era servito durante l’epidemia di colera che in Italia, nel 1885, aveva mietuto (si dice), più di quindicimila vittime. La Comune di Parigi, stroncata ferocemente nel sangue, aveva dimostrato che non c’era ragione che non valesse una corsa alle armi e l’utilizzo di violenza sommaria: violenza fratricida, Francesi contro Francesi. Importanti fatti di sangue avevano toccato da vicino anche l’Italia, proprio nel 1896: in Etiopia (Adua), nella battaglia decisiva della campagna d’Abissinia, l’esercito italiano aveva subito una drammatica sconfitta, cui avevano fatto seguito, com’è ovvio, rabbia e sconcerto per un’operazione ingiustificabile e mal gestita, che era costata, stando alle stime, quasi cinquemila morti. La ragione, eretta a divinità ormai un secolo prima, era stata definitivamente detronizzata. Il terreno per ciò che di lì a quindici anni sarebbe venuto, andava già preparandosi.

Negli stessi anni, Zola aveva decretato che l’agire umano è indagabile solo a partire dallo studio del contesto in cui lo stesso si trova a svilupparsi: un approccio d’avanguardia, certo, ma che poco spazio lasciava all’iniziativa dell’individuo, alla sua libertà intellettuale e alla sua fiducia nel progresso. L’uomo moderno fatica a trovare un codice, un diagramma per interpretare il reale, che sempre più sfugge alle sue categorie: e se all’inizio del secolo diciannovesimo, la fuga nel fantastico/immaginario/irreale aveva significato una moltiplicazione della capacità immaginativa e di quella creativa, ora la crescente inconsistenza spirituale e il suo progressivo smarrimento spingono l’uomo nel cono d’ombra delle pulsioni profonde, nella seduzione dell’eros, nell’aggressività, nell’illusoria convinzione che l’arte, parlando a sé di sé (l’art pour l’art) possa concedere all’uomo una dolce dimenticanza, nella carezza di un Eden fittizio e lontano.

Freud e Nietzsche più di altri leggono la crisi, ne parlano e ne scrivono. Il linguaggio caustico e profetico dello Zarathustra e le teorie di Freud fotografano una civiltà abbagliata da sé stessa (‘ l’io che non è più padrone a casa propria’), scossa da forze laceranti, immiserita nella virtù e priva ormai di un sistema morale di riferimento. In Italia, d’Annunzio costruirà su questa fragilità uno straordinario modello letterario, grandioso nelle sue fattezze stilistico-linguistiche, e moderno proprio perché fedelmente testimone dell’inconsistenza dell’uomo moderno: incapaci di ri-collocarsi nella società di massa, i personaggi dannunziani si consacrano al vivere inimitabile dei sensi e dell’arte, capaci soltanto del dominio dei linguaggi e privi di qualunque struttura spirituale, finendo inevitabilmente nel proprio baratro. E non solo metaforicamente: ne Il trionfo della morte (1894: un anno prima della composizione Bohème, anno in cui, evviva le suggestioni e le casualità, Puccini aveva solleticato per la prima volta l’ipotesi di una collaborazione col poeta) il protagonista Giorgio Aurispa, completamente ossessionato dalla pulsione di morte, getta, nell’epilogo, sé e la propria compagna giù da una scogliera, palesando la ben nota -e maldestra- seduzione esercitata sul Vate dal Tristan wagneriano.

In questo scenario, Puccini muove i primi passi come operista e corre verso la sua maturazione. E il suo intimo sentire lo spinge inevitabilmente verso Bohème, lasciandolo completamente indifferente nei riguardi della spiacevole concomitanza con Leoncavallo: Puccini, che giovane squattrinato, in senso stretto, non lo era più da qualche anno, certo portava nel cuore e nella mente gli anni dell’apprendistato milanese, anni di incertezze curiose e subitanei slanci: intuiva, senz’altro, che quella Bohème era da farsi, a tutti i costi.

Eccoci al punto: qualcosa, crediamo, che porti traccia profonda (e nascosta) della sua epoca, è da cercarsi in partitura. Il duetto tra Mimì e Rodolfo, che innesca il meccanismo di presentazioni e disvelamenti, che chiude il primo atto, è senza dubbio, oltre che uno degli snodi essenziali per la drammaturgia dell’opera, un ricchissimo contenitore di informazioni musicali. Che sono quelle, ricordiamo, scelte in questa sede come potenziali rivelatrici di un lavorìo sotterraneo di significati.

Facciamo un passo indietro: Bohème inizia con un vigoroso gesto orchestrale (es.1), frettoloso e viscerale (armonicamente è una ripetuta spinta della dominante verso la sottodominante), che ricorrerà più e più volte in partitura. Segno che quella traccia musicale è altamente connotativa dell’intenzione narrativa di Puccini, che sta entusiasticamente e testardamente componendo un’opera sulla giovinezza, sul suo entusiasmo ingenuo e brillante. Caratteristiche che ritroviamo in pieno nel motivo appena citato, e in quello che di lì a breve presenterà melodicamente Rodolfo: idea melodica fortemente assertiva, luminosa, costruita su un levarsi ascendente di un arpeggio di Si bemolle maggiore (es.2).

Es.1

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(motivo iniziale)

Es.2

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Energia e lirismo caratterizzeranno il canto di Rodolfo anche nel duetto. Che, ricordiamolo, prende le mosse dalla visita inattesa che il poeta, rimasto solo per concludere la stesura di un articolo di giornale, riceve poco dopo, da una giovane sconosciuta che bussa alla sua porta per farsi riaccendere il lume. L’arrivo di Mimì, però, macchia subito la partitura di un’ombra, sottile ma fatale. Il male che la affligge –e che, come sappiamo, le sarà fatale- si lascia avvertire subito, quasi volesse immediatamente lasciar traccia di una discesa subitanea, di un’afflizione. La traccia irrompe in partitura subito dopo che il motivo (es.3) che caratterizzerà Mimì nel suo celebre cantabile ha fatto la sua comparsa in orchestra. Una condivisa effusione lirica, che potrebbe conferire un connotato comune ai due personaggi, proiettandoli già in una comunione linguistica, sociale (anche Mimì è una giovane misera, senza fortuna né ricchezza) e sentimentale, viene subito tradita e infranta dal palesarsi della malattia, repentinamente (es.4).

Es.3 (in orchestra)

Es.4 ( ‘Si sente male?’)

Va ricordato, per quanto possa suonare superfluo, che all’altezza di Bohème il linguaggio operistico era ormai lontano da una costruzione musicale che vedesse, perfettamente distinguibili e separati tra di loro i recitativi e le arie. Ciò che di questa dicotomia poteva rimanere, era il contrapporsi, nemmeno così netto, di brevi slanci melodici a lunghi tratti ‘connettivi’ che costituivano il vero e proprio tessuto fondante della partitura, dove potevano costruirsi, in orchestra, le radici di elementi tematici che sarebbero poi esplosi al canto (si veda l’esempio di Mimì di poco fa), o comunque svilupparsi la trama della drammaturgia musicale, ora in momenti di più ‘sacrificata’ declamazione, ora in episodi già in odor di cantabile.
Il duetto, che prende il via da questo imprevisto episodio, inizia a tutti gli effetti quando Mimì, accortasi d’aver dimenticato la chiave nella soffitta di Rodolfo, torna sui suoi passi per cercarla. La melodia che ascoltiamo è solare, rinfrancata, ispiratissima, quasi che la possibilità di tornare indietro ed attardarsi con Rodolfo fosse tutt’altro che sgradita. Puccini cerca in tutti modi di costruire un fil rouge che accomuni i due giovani, che, com’è noto, finiranno di lì a breve per innamorarsi. C’è la freschissima ispirazione melodica, innanzitutto, che sembra caratterizzare entrambi; ancora, sia l’inizio del ‘cantabile’ di Rodolfo (‘che gelida manina’, es. 5), sia la prima frase che Mimì pronuncia subito dopo aver rivelato il suo nome (‘la storia mia è breve’, es.6) sono entrambi settenari costruiti su un declamato che ripete un’unica nota. Quasi che, nascosta dietro il vigore ‘giovane’ della melodia esista una fissità, un’immobilità allucinata, quasi un’impotenza.

Es.5

Es. 6

Puccini organizza magistralmente il materiale musicale, piegandolo ora ad aperture improvvise e subitanee, ora a momenti di più straniato ripiegamento. E questo giustapporsi di fiammate melodiche (di tremenda efficacia) a declamati sfibrati, quasi meccanici, è la vera cifra musicale del duetto. Entrambi i personaggi godono di una simile fattura, quasi che la comune (e penalizzante) posizione sociale ‘bassa’ li renda egualmente lieti e fragili a un tempo, e quindi assimilabili, compatibili.
Torniamo, però, a Mimì: dopo l’avvincente (e, ovviamente, esagerata nei termini, come si conviene a un personaggio del genere) presentazione di Rodolfo, replica con la sua. Su un accordo di dominante che sposta il baricentro tonale da La maggiore a Fa maggiore (dando già segno di instabilità), intona il suo tema, già ascoltato in orchestra (es. 3): melodia ascendente, ispiratissima. Ma subito qualcosa, com’era accaduto prima, spinge il canto ad una brusca ricaduta a terra, su un accordo diminuito (es. 7).

Es.7

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La realtà ‘poetizzante’ (un nome fittizio, attribuitole per ragioni sconosciute) s’infrange ancora con quella effettiva, immodificabile, non edulcorata (il suo nome, in realtà, è Lucia). Sembra, però, che la musica dica qualcosa di più, che non si fermi a ricordarle qual è il suo vero nome: ancora una volta Puccini, attraverso Mimì, suggerisce all’ascoltatore l’idea della discesa inesorabile, del rivelarsi poco alla volta di un male inevitabile. Poco importa se il ritorno della vecchia dominante (La) conduca poi l’armonia a stabilizzarsi in Re maggiore, e la melodia a svilupparsi liberamente. Anche l’endecasillabo finale con cui termina il cantabile di Mimì –e qui, come altrove, non è da sottovalutare l’apporto di Illica e Giacosa- palesa verbalmente, ma ancora una volta sotto il velame di una metafora, un’impotenza latente, nascosta dietro la maschera primaverile della finzione poetica.

Mimì : […]

Ma i fior ch’io faccio, ahimé! Non hanno odore.

E’ indubbio che quanto sottolineato poc’anzi, attraverso minuscoli esempi, trovi poi nel proseguo dell’opera un suo compimento effettivo, e non certo più affidato a suggestioni: la vulnerabilità del rapporto Mimì-Rodolfo (e quella, parallela, di Marcello e Musetta), l’aggravarsi della malattia di Mimì e la morte della stessa. Ciò su cui si è voluto porre l’attenzione è la possibilità di cogliere, nella scoperta dei caratteri e dei tipi umani che la drammaturgia pucciniana offre, più complesse sedimentazioni di significati di quelli che invece, manifestamente, sarebbero chiari ad un primo ascolto.
Se, semplicisticamente, non sarebbe del tutto scorretto riconoscere in Bohème un’ennesima opera d’amore e morte -e, suffragando questa lettura, attribuendole un connotato comune a molte opere dell’Ottocento-, una lettura più approfondita e contestualizzata ci forza a valutazioni più profonde: Bohème non è l’opera del peccato redento né di quello irredento: non mette in scena figure grandiose, eroiche, demoniche o mitologiche. Raffigura figure semplici, quotidiane, sulla cui sorte non gravano altro che la povertà, il clima, i rischi del mestiere. E per Mimì, chiaramente, la malattia. Niente è ideale. Nessuno deve redimersi attraverso la sperimentazione del dolore. La morte di Mimì non è frutto di una predestinazione ‘maledetta’ (Manon), non della vessazione esercitata da un potere ‘altro’ (Tosca). Non sembra nemmeno frutto di un destino che, imprimendo un sigillo di morte, voglia salvare il personaggio, concedendogli una riconciliazione in cielo, come per molti personaggi verdiani.

Il trattamento carezzevole, ispirato, e al contempo ‘tipizzante’ e ‘pittorico’ (si pensi alla descrizione sonora del quartiere latino, o al motivo cupo e pungente, invernale, che apre il terzo quadro) dicono molto, oltre che sul grande senso teatrale-descrittivo di Puccini, sulla sua capacità di creare un affresco umano reale: dove, però -e questo è un punto focale-, pur agendo un mondo tutto ripiegato su sé stesso e sull’illusione della propria, inesistente fortuna, che chiude ai propri personaggi gli occhi sul proprio futuro e sul senso della Storia (che non c’è), i personaggi stessi non ne escono disumanizzati, vuoti, bestiali o immiseriti. Conservano invece intera la dignità di uomini, né l’impotenza della povertà e della malattia impediscono la luce di una tenerezza improvvisa, la giovialità di un attimo conviviale. L’amore giovane e imperfetto di Rodolfo e Mimì non è nel cielo dell’idea, è tutto nella fragile mutevolezza della storia. E come la storia vive il proprio caos, le proprie rotture, la propria sconfitta: nelle gelosie, nelle temporanee separazioni. Nella malattia mortale. E quando nel quarto e ultimo quadro risuonano i motivi musicali del primo, Puccini -che pur nell’innegabile influsso ricevuto dalla musica del suo tempo, non mirava né ad essere un epigono di Verdi, né un emulo di Wagner- concede ai suoi personaggi l’ennesimo, e più importante, dato umano: la memoria, il ritorno al passato. Insieme, logicamente, ad un tempo speculare, asfittico, senza via d’uscita. A un tempo (ad un’epoca??) impotente, incapace di mirare al divenire, non resta così altro che ripensarsi, ripiegarsi su se stesso.

All’Europa fin de siècle, appunto, non restava altro che ri-pensarsi, ultimando la sua consunzione, di lì a breve, come Mimì. E sarebbe sbagliato considerare i fragori di un Don Juan di Strauss o la lascivia tutta palesata di Klimt o d’Annunzio più moderni di Bohème: le figure umane di Puccini portano anch’esse, integralmente, il marchio di una civiltà disillusa, incapace di costruirsi una storia, e di affidare al progresso la propria speranza. La stessa società che in teatro, di fronte a Bohème, senza esaltazioni ed ubriacature, si concede un attimo di dignitosa commozione.

Emanuele Franceschetti


Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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